55. Darkness
ICE
"L'ira: un acido che può provocare più danni al recipiente che la contiene che a qualsiasi cosa su cui venga versato"
(Lucio Anneo Seneca)
Non sapevo per quanto tempo avessi perso i sensi. A dire la verità, era difficile comprendere se fossi davvero sveglio, considerato che non vedevo più nulla. L'unico segno di coscienza era il gelo che mi stava paralizzando le ossa, come una morsa di ghiaccio. La neve si era infiltrata fin dentro i boxer. Gli arti erano bloccati e non riuscivo a fare nemmeno il più piccolo movimento.
Nonostante tutto, mi sforzai di rimanere positivo. Potevo farcela. C'erano buone probabilità che i soccorsi arrivassero velocemente. Dopotutto ero sotto controllo e non lontano dal punto di arrivo. Non avevo avuto la sensazione di rotolare per così tanti metri, ma, non capendo in che direzione fosse la superficie, per la prima volta in tutta la mia vita, sentii il panico scivolarmi dentro come un veleno lento e letale. Lottai con tutto me stesso per non cedere, ma il volto di Ember, pieno di delusione e dolore, mi soffocava più della neve sopra la mia testa.
Urlai forte e mi dimenai, ribellandomi all'idea di abbandonarla, e in quel momento mi resi conto di avere un piccolo margine di movimento dietro di me. Provai ancora a spingere all'indietro, e una fiammata di calore mi pervase la schiena. La neve nella piccola sacca d'aria che ero riuscito a creare si illuminò appena.
Compresi che la superficie era sopra la mia schiena. Provai di nuovo a smuovere quello che mi circondava, ma peggiorai solo la situazione. La sacca d'aria collassò e lo spazio davanti al mio volto si ridusse drasticamente. Ero di nuovo sul punto di sprofondare nello sconforto, quando mi parve di udire un tonfo e una voce ovattata.
«Ice! Non muoverti. Ti abbiamo trovato. Ci pensiamo noi, ok? Tra pochi istanti sarai fuori! Sei molto vicino alla superficie!»
In pochi secondi mi liberarono prima il volto, poi iniziarono a scavarmi intorno.
Mi resi conto di essere in posizione supina. L'airbag aveva fatto il suo dovere, mantenendomi negli strati più superficiali della valanga. Mi avevano individuato subito, dato che il gonfiabile era rimasto addirittura parzialmente fuori dalla superficie.
Non riuscivo ancora a voltarmi, ma sentii uno dei soccorritori parlare alla radio.
«È quasi fuori, sta bene. È lucido e collaborativo. Non lamenta dolore.»
«Ember...» gridai. «Fatemi parlare con Ember!»
«Fra un attimo ti porteremo giù», mi disse un altro soccorritore.
«Deve sapere che mi avete trovato. Lo sa? Glielo avete detto?»
«Sì, è stata avvisata», la voce di Bill mi raggiunse, e poco dopo si sedette davanti a me, in modo che potessi vederlo.
«Sta bene? Dov'è?»
«È un po' scossa, ma sta bene. Ti sta aspettando al punto di arrivo.»
«Cazzo, le avevo promesso che non sarebbe successo niente.»
«Non potevi prevederlo. Nessuno poteva. Quella dannata aquila ha fatto precipitare il drone su una roccia, e le vibrazioni dell'impatto hanno causato un distaccamento.»
«Devo andare subito da lei.»
«No, Ice, devi farti visitare prima.»
Non lo ascoltai. Non appena mi liberarono, mi sfilai lo zaino con l'airbag, controllai gli attacchi e, ignorando tutti i soccorritori, mi lanciai verso valle senza nemmeno ringraziarli.
Mi faceva un male cane la schiena e il torace, ed ero piuttosto convinto di essermi rotto un braccio, ma ignorai il tutto.
Sentivo Bill dietro di me che mi chiamava in modo concitato, ma spinsi comunque di più, spostando il peso in avanti per guadagnare velocità.
Una volta arrivato al punto d'arrivo, non feci in tempo a slacciare gli attacchi che fui attorniato da un piccolo gruppo di persone, tra pacche sulle spalle e applausi. Anche se, a ben vedere, io non avevo fatto proprio nulla. Semmai, erano stati i soccorritori. Gli stessi soccorritori che io non avevo nemmeno considerato dopo che mi avevano estratto. Mentre io non avevo fatto un bel niente , se non fallire e deludere Ember.
Fissavo tutti con aria assente, non riconoscendola tra i mille volti che mi circondavano. Alla fine presi per il collo della giacca un addetto della produzione.
«Lei dov'è?» gli ringhiai in faccia, esasperato.
Il ragazzo, interdetto dalla mia reazione rabbiosa, mi indicò tremante il rifugio.
La piccola folla si aprì, e vidi Ember seduta sulle panche del ristorante. Kev le stava porgendo una tazza di tè fumante. Era pallida come la neve e aveva uno sguardo smarrito. Allungò la mano verso la tazza, e mi accorsi che tremava come una foglia. Non appena mi vide, lasciò cadere il tè a terra e si portò le mani sulla bocca, soffocando un piccolo grido di sorpresa e di dolore. I suoi occhi già lucidi si riempirono di lacrime, e scoppiò a piangere come una fontana. Si alzò, e io la raggiunsi, avvolgendola in un abbraccio.
Tremava e singhiozzava sulla mia giacca, mentre le ripetevo dolcemente «Ehi piccola, sto bene. Hai visto? ... Va tutto bene. È andato tutto bene.»
Non mi rispose, i suoi sussulti sembravano non darle tregua nemmeno per respirare. Più cercavo di rassicurarla, più sembrava tremare e scuotere la testa.
«Ember, sono qui. Non è successo niente di brutto. Sono qui.»
Non ricevendo alcuna risposta, mi scostai quel tanto che bastava per guardarla in faccia.
«Ehi piccola, guardami. Parla con me, per favore!»
Scosse ancora la testa.
«Ember, per favore, guardami!» le sussurrai, stavolta ancora più dolcemente, quasi come una preghiera.
La giacca rossa di uno dei soccorritori invase il mio campo visivo, interrompendo quell'istante fragile come un filo di vetro.
«Signor Egawa, dobbiamo davvero visitarla ora, è nostra responsabilità.»
Quell'interruzione sembrò destare Ember, tanto che tentò di ricomporsi e asciugarsi le lacrime.
Mentre continuavo a fissarla, mi scusai con quello che doveva essere il capo della squadra di soccorso. «Perdonatemi, non vi ho nemmeno ringraziato. Ho perso la testa... è che ho pensato solo a...»
In quell'istante, Ember alzò la testa e finalmente mi guardò. Quello che vidi nei suoi occhi mi colpì come un'onda gelida: erano iridi dense di sofferenza, come non le avevo mai viste, nemmeno nei suoi momenti più bui. Era come se il dolore l'avesse svuotata dall'interno, trasformandola in una fragile ombra di se stessa.
Rimasi un momento interdetto, incapace di reagire, e mi lasciai trascinare via dal soccorritore, mentre Ember camminava all'indietro, fissandomi con uno sguardo che sembrava scavarmi l'anima.
Anche se non avevo ancora capito cosa stesse realmente succedendo, l'angoscia che avevo provato sotto la neve era nulla in confronto a quella che ora mi stava attanagliando il cuore.
Mi svegliai da quel torpore quando capii che Ember aveva già messo la tavola ai piedi.
Per la seconda volta in poco tempo, mi scrollai di dosso i soccorritori e cercai di raggiungerla, ma Ember aveva già preso velocità.
Mi voltai, vidi la mia tavola ancora in mezzo al gruppo di persone che mi stavano fissando e le giacche rosse dei soccorritori tornare alla carica.
Era troppo lontana da me, perciò senza pensarci troppo, afferrai il primo snowboard appoggiato alla rastrelliera del rifugio e mi lanciai all'inseguimento.
Sapevo che Ember era discretamente brava a scendere, perciò non urlai il suo nome, per paura che accelerasse ancora di più. Mi servì quasi un minuto per avvicinarmi abbastanza da poterle tagliare la strada con un piccolo salto.
Sorpresa e rassegnata, Ember derapò e con un colpo secco ruotò la tavola di centottanta gradi, mettendosi in frontside e guardandomi in faccia.
Alzò con un gesto brusco la maschera e il suo sguardo mi colpì come una raffica di vento freddo, che toglie il respiro.
«Cosa stai facendo, Ian?»
«Tu, cosa stai facendo? Dove stai andando?»
«Non ho nessuna intenzione di gestire questa catastrofe. Non posso farlo. Non posso proprio, e tu non puoi chiedermelo. Io non ero d'accordo fin dall'inizio.»
«Va bene, Ember. Però ora torna su con me, per favore.»
«No. Non voglio tornare. Voglio solo uscire da questo dannato incubo.»
«Ember, Cristo! Non è successo niente. Mi vedi, sono qui davanti a te! E sono stato io a rischiare la vita, io ero sotto la neve. Per favore, non fare la difficile.»
Rise, ma senza gioia, come un tuono lontano prima di una tempesta.
«Non fare la difficile? Io non ero d'accordo, cazzo! E guarda come è finita!»
Sospirai, trattenendo la frustrazione. Sapevo che era scossa, ma dopotutto ero io quello che aveva rischiato la pelle, quello che invece di farsi visitare la stava rincorrendo per mezza valle, mentre lei non faceva altro che gettarmi addosso sguardi gelidi, come coltelli affilati.
Feci alcuni respiri profondi per mantenere la calma, e solo allora mi accorsi del dolore sordo che mi stava dilaniando il fianco destro a ogni respiro. Dovevo essermi incrinato o rotto una costola.
«Ember...» dissi tra i denti, combattendo contro la rabbia e il dolore. «Facciamo così: ora andiamo a casa insieme, ok?»
Di tutta risposta si sfilò un guanto e infilò la mano nella tasca anteriore della sua giacca, nell'istante in cui Bill e Kev ci raggiunsero e mi affiancarono.
«Va tutto bene, ragazzi?» chiese Kev, con una nota di preoccupazione.
Ember ignorò la loro presenza e continuò ad armeggiare con la tasca, finché non ne estrasse il cellulare. Me lo mostrò con lo schermo acceso, dove comparivano settantadue chiamate perse.
«Secondo te, io ora dovrei fingere con tutte queste persone? Dire che è stata solo sfortuna invece che incoscienza?» ringhiò, e mi gettò addosso il telefono con tale furia che persino Bill e Kev sobbalzarono, come colpiti dallo stesso scossone emotivo che mi stava travolgendo.
«Io ora scenderò da sola e tu rimarrai qui. Fatti visitare, fatti abbracciare, applaudire. Fai quello che vuoi, ma io non ne voglio sapere. E buona fortuna con la stampa!» sputò fuori quelle parole come fossero veleno, lasciando scivolare la tavola verso valle.
Sempre più sconcertato, non ebbi più parole per replicare. Mi limitai a voltarmi prima verso Kev e poi verso Bill, come a cercare conferma che stesse succedendo davvero.
Il comportamento di Ember mi sembrava sempre più assurdo. Mentre ero sotto la neve, senza aria, non avevo pensato ad altro che a quanto dovesse essere spaventata. Non appena uscito, avevo fatto di tutto per raggiungerla e rassicurarla. E lei? Non aveva nemmeno chiesto come mi sentissi, cosa avessi provato. Niente di niente. Mi aveva solo riversato addosso tutta quella rabbia inspiegabile, che sentivo di non meritare, e che meno che mai avrei voluto affrontare subito dopo essere stato liberato dalla morsa gelida della valanga.
Mentre vedevo la sua figura diventare sempre più piccola in fondo alla pista, iniziai a sentire tutti i dolori dei vari traumi che probabilmente avevo subito, ma che, per via dell'adrenalina e del bisogno di vedere Ember, non avevo inizialmente percepito.
Mi sentii improvvisamente stanco, spossato, deluso e arrabbiato. Mi accasciai sulle ginocchia e guardai ancora una volta Kev.
«Vuoi che la raggiunga io?» mi chiese.
«Sì...» risposi, confuso e incerto, incapace di distinguere cosa fosse giusto o sbagliato. «Grazie, Kev.»
Lui abbassò la maschera e sfrecciò anche lui verso valle, lasciandomi da solo con Bill.
«Ice, anche se ti senti bene, credo sia meglio fare un salto in ospedale per controllare che sia tutto ok. Ci penseremo noi alla stampa, non preoccuparti.»
«Grazie, Bill, lo apprezzo molto.»
Bill tirò fuori il suo cellulare, ma i dolori dei traumi che avevo subito iniziarono ad annebbiarmi la mente, e non riuscii a sentire più nulla di quello che stava dicendo. Poco dopo, arrivò una motoslitta che mi trasportò a valle e, da lì, un'ambulanza mi condusse fino al General Hospital di Skyville.
In ospedale mi diagnosticarono una spalla lussata, un braccio rotto, due costole fratturate con rischio di perforazione al polmone destro, e un leggero trauma cranico. Rimasi in osservazione per due notti. I miei mi raggiunsero immediatamente in ospedale, nonostante li avessi chiamati dal telefono di Ember per rassicurarli dicendo che non era successo niente di grave. Anche Katy prese il primo aereo da Zurigo, e con lei arrivò Tyrone.
Fuori dall'ospedale si era creata una piccola folla di fan e diversi responsabili della Firewings passarono a trovarmi, così come il sindaco, Amanda e suo padre.
L'unica persona che non vidi in quei due lunghissimi giorni di degenza fu Ember.
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