52. Apologies

ICE

"Scusa" non è sinonimo di "colpevole". È un modo per dire che stai ascoltando.
(Martina Boone)

Quando riaprii gli occhi, era già l'ora del tramonto. Avevo dormito per tutto il giorno. Ero in un bagno di sudore, ma allo stesso tempo la temperatura della cupola era parecchio fredda, considerato che quando ero entrato non avevo nemmeno avviato il generatore, con l'intenzione di rimanere lì solo per un paio di ore. Il calore del sole che passava dalle vetrate avrebbe dovuto essere più che sufficiente, invece ero crollato senza rendermene conto.
Mi guardai intorno confuso. Le tempie mi pulsavano e lo stomaco brontolava. Tastai il materasso della chaise longue in cerca del telefono. Una volta trovato, ebbi la conferma che avevo dormito per più di otto ore e avevo qualcosa come venticinque chiamate perse da parte di Ember, Katy e anche di mia mamma. Cazzo, avevo combinato un bel casino! Probabilmente le avevo fatte preoccupare, manco fossi un adolescente schizzato.
Proprio in quel momento udii dei rumori ovattati dalla neve, provenire da fuori. A fatica mi misi a sedere e l'ambiente intorno a me vorticò in una scia di colori e riflessi caldi.
«Eddy, sei tu? Cazzo, non ho pensato di avvisarti che avrei preso la motoslitta...» gracchiai con la bocca tutta impastata. Ero quasi sollevato che Torres mi avesse trovato, perché il fatto che la cupola stesse ancora girandomi intorno non era un buon indizio riguardo al mio essere in grado di tornare a casa da solo.
Feci per alzarmi, ma inciampai ancora prima di raggiungere la posizione eretta, con il risultato che le tempie ripresero a pulsarmi dolorosamente. Mi risedetti e mi rassegnai a farmi trovare in condizioni poco dignitose da un mio dipendente.
Ma quando la porta si aprì, seppi subito che quella figura esile che si stagliava in controluce non apparteneva al nerboruto venezuelano. Era una silhouette che conoscevo bene. Visceralmente bene. E inevitabilmente, al dolore delle tempie si aggiunse anche quello dei sensi di colpa.
Ember stava entrando nella cupola guardandosi intorno e tenendosi da sola tra le braccia. Nonostante il mio torpore, ero in grado di leggere che quel velo di tristezza negli occhi non era dovuto né alla litigata di quella mattina, né al fatto che fossi sparito per l'intera giornata. Quella situazione l'aveva costretta a raggiungermi all'interno dell'igloo, dove aveva vissuto il peggior flashback di sempre.
Emise un sospiro rumoroso e scosse le spalle come a togliersi di dosso i ricordi. Fece scivolare lo zaino su un braccio e ne estrasse una borraccia.
Quando me la porse, io l'afferrai come se non bevessi da giorni.
«Grazie...» dissi con una voce cavernosa.
Ember gettò un'occhiata preoccupata alla bottiglia di whisky riversa sul tavolino e si avvicinò.
«Ti ho aspettato a casa tutto il giorno, ma poi non ho resistito. Ti sono venuta a cercare facendo un giro in macchina. Quando ho visto la tua auto nel parcheggio della motoslitta, ho capito dove potevi essere. Sono tornata a casa, ho preso le ciaspole di tuo padre e sono venuta qui. Mi spiace se ho interrotto un tuo momento.»
«Io sparisco come un adolescente cretino e tu ti scusi?»
«È che ho immaginato che volessi rimanere da solo, ma eravamo tutti preoccupati. Se pensi di stare bene e non hai bisogno di altro, posso tornarmene giù.»
«No! Ti prego...» esclamai con un'energia che non pensavo di possedere in quel momento, e mi scostai in cima alla chaise longue per farla sedere. «Sarai anche stanca dopo tutta quella camminata.»
Ember si sistemò con dei movimenti bruschi che tradivano il suo nervosismo, nonostante la sua voce mi fosse parsa ancora più dolce del solito.
Una volta al mio fianco calò uno strano imbarazzo. Aprii la bocca per un lungo istante senza dire nulla perché non sapevo da dove iniziare a scusarmi. Mi ero comportato davvero da coglione.
«Piccola, io... mi spiace molto. Ero venuto qui solo per schiarirmi le idee, non volevo stare via così a lungo.»
Fece un cenno con la testa simulando comprensione.
«È stata una mattina strana, mi spiace che vi siate preoccupati tutti. È che, vedi, dopo che abbiamo discusso, io sono andato da Ty e...»
Ember stava annuendo con la testa.
«Hai già parlato con mia sorella, giusto? Sai già tutto?»
La vidi irrigidirsi e trattenere il respiro. In quel momento compresi che era a conoscenza della relazione tra Ty e Katy da molto tempo prima.
«Cazzo... tu lo sapevi già...» dissi con un tono tra il tagliente e l'incredulo.
Rimasi in silenzio ripensando al giorno della bufera e al suo cambio repentino di atteggiamento poco prima che Katy arrivasse.
«Quel giorno in cucina... tu?»
«Sì, l'ho scoperto quel giorno. Mi spiace se ti senti tradito anche da me in questa storia, ma non era mio diritto dirti della loro relazione. Erano agli inizi e Katy mi ha chiesto espressamente di non farlo. Ho semplicemente rispettato il suo volere riguardo a una questione molto intima.»
«Cosa che io, a quanto pare, non ho fatto con te.» ammisi con aria colpevole.
«No, Ian. Non è così. Denunciarli o meno non era più una questione solo mia, dal momento in cui la nostra relazione è iniziata. Forse poteva reggere se Alan e Deamon fossero stati due sconosciuti che vivevano dall'altra parte del mondo, e che non avremmo mai più incontrato. Ma sono io che ho sbagliato. L'unico errore è stato il mio. Ho ingenuamente pensato di poter affrontare la cosa come se fossi ancora da sola.»
«Non dirlo neanche per scherzo... tu avevi il pieno diritto di decidere cosa fosse meglio per te!»
«Non è così. Tutta quella faccenda ormai riguardava anche te. Io non ho nessun rancore nei tuoi confronti. Ero solo tremendamente spaventata dal progetto della Firewings. Lo so che è pericoloso anche quando salti nell'half pipe, ma so quanto ti alleni duramente, quindi mi racconto che hai tutto sotto controllo. Mentre nel progetto di Backcountry ci sono così tante variabili... Io... Ecco... È stata una reazione dettata dalla paura. Scusami, Ian.»
«Piccola, mi dispiace tanto. Ti prometto che non succederà niente.» Le dissi avvicinandomi e passandole un braccio intorno alla vita.
La vidi deglutire come se stesse facendo un grande sforzo, ma dato che poco dopo mi sorrise dolcemente, pensai che fosse una reazione dovuta alla mia fiatella alcolica.
«Torniamo a casa, campione. Che ne dici?» concluse appoggiando la testa sulla mia spalla e storcendo il naso. «Credo tu abbia proprio bisogno di una bella doccia.»
E così mi feci portare a casa da Ember, illuso ancora una volta che le cose tra noi potessero essere finalmente serene.

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