39. Without you
EMBER
"Il futuro significa perdere quello che si ha ora, e veder nascere qualcosa che non si ha ancora."
(Haruki Murakami)
«Bene! E con questo il passaggio di consegne dovrebbe aver finito. Non è così, Ember?»
Katy mi stava guardando con gli occhi che strabuzzavano all'infuori. Sapevo esattamente cosa mi volesse chiedere in realtà, dato che Angela era ormai autonoma da diversi giorni. La sua domanda celata era "cosa pensi di fare ora, Ember?".
La verità era che non avevo la più pallida idea di cosa avrei fatto. Mi ero rifugiata a Skyville per fare finta che non fosse cambiato nulla. Avevo chiesto a Ian di rimanere a Park city per lo stesso motivo. Non avevo avuto il coraggio di vederlo e affrontarlo, e non lo avevo ancora. Mi sentivo troppo in colpa. Lo avevo messo nei guai per l'ennesima volta. Durante le nostre brevi telefonate continuava a scusarsi come se fosse lui quello in difetto, ma non era così. Io, la mia miopia e il mio egoismo lo avevamo messo in una situazione impossibile da reggere. Come avevo potuto pensare che potesse allenarsi fianco a fianco di Alan, sapendo molto bene quello che mi aveva fatto?
Mi ero limitata a quello che volevo io, non considerando quale fosse la cosa migliore per le persone che mi stavano affianco, che mi avevano accolto e che mi avevano amato. Mi ero ritrovata così, per l'ennesima volta, a causare problemi a Ian e alla sua famiglia.
Dentro di me sapevo quale fosse la cosa giusta da fare, anche se non avevo ancora avuto il coraggio di dichiararla. Per questo, nell'attesa del processo, mi ero limitata a concludere in silenzio il mio lavoro presso la scuola e postare sui social il materiale che Ian e Ty mi inviano.
Tuttavia avevo già mosso i primi passi verso la strada che sapevo di dover percorrere. Avevo infatti lasciato la casa di Ian per trasferirmi nel mio vecchio alloggio, assieme ad Angela.
Non avevo detto nulla a Ice e avevo pregato Katy di non raccontare niente a Ty in modo da non turbare l'allenamento e i test che stavano effettuando alla U.S.S.A., ma da quel giorno la mia amica non aveva fatto altro che incazlarmi. Esattamente come stava facendo il quel momento.
«Base chiama Sullivan, ehilà, mi ricevi?»
«Si, Katy. Ti ricevo. È che non ho capito la tua domanda.» presi tempo.
«Non hai capito la mia...Ahhh! Davvero? Allora sarò più precisa! Vorrei sapere cosa pensi di fare ora che non hai più motivo di nasconderti qui a Skyville. Pensi di andare a trovare mio fratello?»
Temporeggiai nel risponderle perché non avevo nessuna intenzione di farlo. Ogni singola parte di me mi suggeriva di partire per New York all'istante, senza nemmeno aspettare il suo ritorno, ma non potevo fargli anche questo. Non potevo lasciarlo senza alcuna spiegazione. Non sarebbe stato facile affrontarlo, ma glielo dovevo dopo tutti i problemi che gli avevo causato.
Mi strisi le catenine al collo in preda alla stilettata in mezzo al petto che avevo sentito all'idea di dover porre fine alla nostra storia e serrai le labbra per camuffare qualunque espressione di tristezza che avrebbe potuto far intuire i miei piani a Katy.
«Allora?» mi incalzò nuovamente, ma proprio in quel momento la porta della scuola si spalancò in modo brusco e improvviso. Un' ondata di vento freddo mi raggiunse, ma quello che mi fece davvero gelare le ossa fu lo sguardo glaciale di Ice.
«Aaaahhh! Dio sia lodato!» sospirò sua sorella alzando le braccia al cielo. Si diresse verso l'ufficio di suo padre, senza nemmeno salutare il fratello e borbottò «Era ora! Un altro giorno ancora e ti sarei venuta a prendere io...»
Ian la ignorò e seguitò a fissarmi con il suo sguardo severo che non avevo più visto praticamente dai primi giorni del mio arrivo a Skyville.
Incapace di sostenere tutta la sua freddezza, mi voltai verso Angela, la quale si stava agitando sulla sedia in preda all'imbarazzo per quella strana situazione.
Katy dalla soglia dell'ufficio di Tak sospirò rumorosamente e mi strappò il mio unico diversivo rimasto.
«Angela, puoi venire qui un attimo? Ho bisogno di farti vedere una cosa dal computer di mio padre...»
La mia amica scattò in piedi in un secondo, senza nascondere il fatto che non aspettava altro che una scusa per lasciare la sua postazione di lavoro.
Senza scampo, riportai i miei occhi colpevoli in quelli di Ian, che nel frattempo era arrivato al bancone della reception, a solo mezzo metro dalla sottoscritta.
Nonostante fosse a pochi passi, era cosi dolorosamente distante dietro la sua fredezza che mi stava riservando.
Ci fissammo per instante che mi sembrò interminabile, poi, senza il più piccolo segnale di preavviso, sibilò quasi a denti stretti «Quando?»
Riamsi in silenzio, scioccata dal quel tono carico di astio.
«Ti ho chiesto quando?» ripetè ancora senza tradire altra emozione, se non il disprezzo.
«Quando cosa?»
Alla mia non risposta, il suo volto trasfigurò, si contorse in lineamenti carichi di rabbia e gli occhi sembrarono uscire da quelle dolci anse che formavano le sue palpebre orientali. La sua aurea glaciale era ormai stata spazzata via dalla furia.
«Non mi prendere per il culo almeno! Cazzo! Quando pensavi di dirmi che te ne saresti andata?» esplose sbattendo un pugno sul bancone che mi fece sobbalzare. Ian dischiuse la bocca per un breve istante, come se stesse analizzando la mia reazione, ma era troppo arrabbiato per fermarsi.
«Sono giorni che mia sorella e mia mamma non sanno più cosa inventarsi per spiegare il fatto che tu sia ancora qui, invece che a Park City con me!»
«Io... io non...» balbettai.
«Cristo Ember! Ho fatto tutto quello che volevi. Ti ho lasciato lo spazio che mi hai chiesto. Mi sono fatto bastare quei miseri messaggi al giorno che vertevano solo unicamente sul piano editoriale, ho rispettato la distanza che hai messo pensando che fosse quello di cui avevi bisogno, e invece come uno coglione non avevo capito che stavi solo scappando. Di nuovo!»
«Io non stavo scappando!» Riuscii finalmente a replicare, solo che lo feci usando un tono più alto e carico di astio di quello che avrei voluto.
Ian si bloccò, come se lo avessi appena schiaffeggiato e i suoi occhi sembrarono ancora di più uscire dalle orbite.
«No? Davvero, Ember? Allora guardami dritto negli occhi e dimmi che non avevi intenzione di buttare nel cesso la nostra storia.»
«Io... ti avrei aspettato...»
«Aspettato?» Rise sarcastico. «È per questo che quando sono arrivato a casa non ho trovato una singola fottututissiam cosa tua? Come se fossi evaporata nel nulla? Come se tu fossi sparita dalla faccia della terra?»
«Ian tu non capisci...»
«Capire cosa, Ember? Eh? Che tutto quello che c'è tra noi non vale niente per te? Che non appena c'è una difficoltà tu prendi e scappi e...»
«Ora Basta!» Esplosi interrompendolo. «Non ti permettere mai più di darmi della codarda, Ian Colton Egawa!»
Ice ammutolì sconcertato dalla mia reazione e dal cambio repentino del mio atteggiamento ed io, ormai fuori controllo, proseguii il mio sfogo.
«Si è vero, voglio partire, voglio lasciarti. Ho fatto tanti errori Ian, davvero tanti, primo fra tutti pretendere che tu potessi sopportare la presenza di Alan nella squadra della nazionale, ma ora sto affrontando il mio peggiore incubo, per proteggere te. Sto abbandonando l'unico luogo al mondo in cui mi senta a casa, per proteggere te. Sto rinunciano all'unica persona che mi abbia mai amato, per proteggerla. Non perché io sia una vigliacca, ma perché ti amo più della mi stessa vita!»
Un lampo di rammarico e senso di colpa illuminò gli occhi di Ian, facendolo rimanere a bocca aperta. Il suo sguardo si ammorbidì piano piano inondandomi con una dolcezza talmente intensa che iniziai a sentire pizzicare gli occhi, ma quando deglutì con l'intento di iniziare un discorso, il campanello dell'ingresso suonò e ci trovammo sotto gli sguardi attoniti di due adolescenti di rientro dalle piste, completamente frastornate dall'emozione di trovarsi di fronte al loro sex simbol sportivo preferito.
Per la prima volta da quando lo conoscevo, Ice si comportó in modo sgarbato, non le salutò e non le mise a proprio agio, come era solito fare con le sue fan, sopratutto così giovani.
«Katy!» urlò per chiamare la sorella, la quale accorse alla reception assieme ad Angela, per assistere le due giovani clienti.
Fece poi il giro del bancone, raccolse la mia giacca e la borsa appoggiate alla sedia da ufficio.
«Vieni, andiamocene da qui.» mi disse in tono dolce, ma perentorio. Mi prese per mano e mi trascinò fuori dalla scuola.
Il il suo tocco caldo e familiare scongelò all'istante quel blocco di ghiaccio che avevo sentito nel petto da quando Ian era apparso all'accademia. Fu come se quel semplice contatto avesse azzerato quella muraglia che eravamo riusciti ad ergere in pochi scambi di battute.
Quando arrivammo alla sua auto, ero già più rilassata, nonostante l'aria frizzante mi stesse congelando le guance. Ian mi apri la portiera e io salii senza protestare, dato che mi ero recata alla scuola in auto con Angela.
Tuttavia durante il tragitto calò uno strano silenzio, l'atmosfera tra di non era più glaciale, ma non ci rivolgemmo la parola finché non arrivammo a casa.
Oltrepassata la soglia del suo appartamento, Ian si guardò intorno emettendo un sospiro carico di dolore e inclinò la testa verso il basso. Io ero ancora alle sue spalle e non riuscivo a vedergli il volto, ma nonostante questo sentivo la sua aurea di tristezza invadermi ogni centimetro di pelle.
Quando si voltò, il suo viso mi mostrò qualcosa a cui non ero assolutamente preparata. Le guance di Ice, il mio campione olimpionico impassibile, razionale e calcolatore, erano rigate da copiose lacrimee che fuoriusciavano da due pozzi imploranti.
A quella vista le mie gambe si mossero da sole e in solo due falcate mi ritrovai tra le sue braccia. In un lampo le sue mani mi presero il volto e le nostre bocche si unirono vorticosamente. Ci divorammo l'un l'altro con talmente tanta foga, disperazione e urgenza, che per un attimo mi dimenticai il motivo per il quale eravamo finiti in quello stato. Non esisteva più niente intorno a noi, eravamo solo io e lui, senza un luogo, senza un tempo, senza un contesto. Poco dopo però qualcosa cambiò e fui risucchiata indietro alla realtà. Ian inziò a rallentare il bacio. Piano piano diventatò sempre più lento e delicato fino a fermarsi, staccarsi dalla mie labbra e appoggiare la fronte sulla mia.
«Mi dispiace Ember, mi dispiace così tanto che ti sei ritrovata a fare proprio quello hai sempre evitato. Se solo me ne avessi parlato, non ti avrei permesso di...»
«Ssshhh...» sussurrai posandogli un dito sulle labbra. «Sono io ad essere dispiaciuta perché non ho considerato come ti saresti sentito tu nella situazione che ti ho imposto. Tutto quello che è successo è colpa mia. Ho messo in pericolo la tua carriera.»
«No, non è così. Potevamo trovare un altra soluzione, assieme.»
«E quale sarebbe? Ti avrebbero espulso dalla squadra nazionale, Ian. Tutti i tuoi sforzi, i sacrifici che hai fatto in una intera vita, andati in fumo in poche ore...non potevo farti questo..io...»
«Ember...» mi sussurrò con una voce roca che mi zittì all'istante per via di una scarica languida che mi percorse tutta la schiena.
«Stai sbagliando tutto, io ho già fatto carriera, ho già vinto le Olimpiadi. Certo, sarei contento di vincerle ancora, ma quello che non capisci è che senza gare posso vivere, ma è senza di te che non posso più farlo.»
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