24. Free fall
ICE
"Per tutti, anche per i più fortunati, l'amore comincia necessariamente con una sconfitta."
(Hermann Hesse)
Il suo corpo che si dimenava era la cosa più bella che avessi mai visto; il suo volto deformato dal piacere era pura sensualità. I suoi gemiti fragorosi che riecheggiavano nella cupola erano una dolce musica che faceva vibrare ogni cellula del mio corpo.
Quando urlò il mio nome, o meglio il mio soprannome, il mio cuore mancò un battito e smisi di respirare. Ember stava venendo sulla mia bocca, si era fidata di me tanto da lasciarsi andare completamente. Ero così orgoglioso che lo avesse fatto. E così grato che avesse scelto di farlo proprio con me. Spontanea, coraggiosa, bellissima e senza alcun freno. Drogato da quella sensazione, la incitai. Fu così che commisi l'errore più grosso della mia vita, pensando che un po' di "praise kink" la rassicurasse. Invece, la gettai nella più completa disperazione.
Ember aveva già raggiunto l'orgasmo, a giudicare da quanto le mie labbra erano bagnate dai suoi umori, ma invece di scendere dolcemente dal picco di piacere che le avevo provocato, sprofondò in un abisso senza fine.
Si dimenò allontanandosi da me con un balzo e facendo cadere la candela a led che si spense, lasciandoci illuminati solo dalla luna piena. Poi totoló giù dal letto e si rannicchiò nel punto più lontano da me.
«Ember, piccola...» D'istinto mi precipitai verso di lei, ma fu un altro errore fatale perché iniziò ad urlare, nascondendo il volto dietro le mani, con i palmi rivolti verso di me, come se stessi per colpirla da un momento all'altro.
«No! no! Non avvicinarti, ti prego...» scoppiò a piangere in singhiozzi violenti che scuotevano il suo esile corpo nudo, come se quel corpo non fosse stato travolto del piacere fino a pochi secondi prima.
Ero sotto shock per quel repentino cambiamento e per un istante non reagii, rimanendo fermo dov'ero.
«Ti prego Ian, allontanati.» Mi implorò con voce tremolante, destandomi dal mio breve distacco da quanto stava succedendo. Era nuda e appiattita contro la vetrata gelida. Si sarebbe congelata se fosse rimasta così. D'istinto presi la coperta dalla chaise longue per passargliela, ma non appena mi mossi, Ember ricominciò ad urlare.
«No.. non mi toccare, non ti avvicinare!»
«Ti metto solo la coperta qui, ok? Ember... mi dispiace... Io...»
Alzò la mano intimandomi di fermarmi, senza guardarmi in faccia.
«Ti prego, io non... non me la sento di parlare ora.»
«Va bene. Come vuoi...» feci una lunga pausa arretrando verso il lato opposto a lei. «Preferisci che esca dall'igloo e ti lasci per un po' da sola?»
Alzò la testa e si guardò intorno impaurita, poi la scosse violentemente e riprese a piangere.
Come mi aveva chiesto, rimasi dall'altro lato dell'igloo, nel punto più distante possibile, ma senza lasciarla sola. Ero intrappolato nel mio doppio ruolo.
Ember era terrorizzata da me, ma allo stesso tempo necessitava della mia presenza per sentirsi al sicuro in mezzo al bosco. Cercai quindi di farmi piccolo e invisibile per rispettare quel terribile momento. Mi sedetti sulla panca e mi presi la testa tra le mani, lasciandomi andare allo sconforto.
Avevo mandato tutto a puttane proprio a un passo dal traguardo. Dopo una serata incredibile, Ember si era concessa a me con la massima fiducia e io, senza nemmeno capire come, l'avevo spinta giù da un precipizio.
Dopo qualche istante, si coprì con la coperta di pelliccia che avevo lasciato a terra a pochi passi da lei e pian piano smise di tremare, ma non di piangere. Stringeva il plaid con tanta forza che sembrava volesse strangolare qualcuno.
A un tratto mi mancò completamente l'aria. Vederla ridotta in quello stato senza poter fare nulla, né abbracciarla, né consolarla, mi stava soffocando. L'impotenza stava mandando in corto circuito il mio cervello e l'idea che fossi stato io a ridurla così mi stava uccidendo.
Mi piegai ancora di più su me stesso e cercai di riprendere il controllo attraverso alcune tecniche di meditazione, ma la cosa non funzionò. Mi sfuggì un singhiozzo e le smorfie del mio volto non bastarono più a trattenere altre lacrime. Non potevo crollare così davanti a lei.
Richiusi quindi gli occhi e mi tappai le orecchie per non sentire il suo pianto, che come il canto di una sirena mi attirava a sé. Solo che io ero l'ultima cosa di cui aveva bisogno Ember in quel momento. Dovevo resistere. Dovevo farlo per lei. Provai a figurarmi sull'half pipe, ma ogni volta che saltavo, cadevo in fase di atterraggio e mi facevo male. La mia angoscia non fece che aumentare. Non mi resi conto di quanto tempo fosse trascorso, così come non mi ero reso conto che Ember aveva smesso di piangere e, senza alcun preavviso, ruppe quel silenzio devastante.
«Ian, vorrei rivestirmi...» mi disse mestamente, con voce fioca, come se avesse usato tutte le energie che le erano rimaste per pronunciare quella frase.
Mi alzai lentamente, raccolsi i suoi vestiti sparpagliati a terra e glieli portai nello stesso punto dove le avevo lasciato la coperta. Poi raccolsi anche la mia t-shirt e il mio maglione, e mi rivestii lontano da lei, voltandole le spalle per garantirle un po' di privacy, immaginando che non volesse più sentirsi esposta al mio sguardo.
Avrei voluto scusarmi, dirle un milione di cose, ma non volevo più prendere iniziative dato che avevo combinato un disastro. Mi sarei semplicemente attenuto alle sue richieste.
«Pensi sia possibile tornare a casa?» mi domandò pochi minuti dopo.
Non le risposi e non mi voltai, ma estrassi il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
«Torres, abbiamo deciso di tornare giù. Puoi venirci a prendere con la motoslitta all'igloo? Mi servirebbe anche che guidassi l'auto della Signorina Sullivan. Ti prenoterò un Uber per tornare alla tua macchina più tardi. Grazie.»
Riagganciai e rimisi il telefono nella tasca laterale dei pantaloni.
Rimasi ancora di spalle in completo silenzio, quando fu ancora Ember a rompere il ghiaccio, parlando con voce stanca e rassegnata.
«Cosa avevi desiderato quando hai visto la stella cadente?»
Mi voltai cauto e la vidi ancora seduta a terra dove era stata per tutto quel tempo. Solo che in quel momento era vestita, giacca a vento compresa, con le ginocchia raccolte al petto. Dai suoi occhi blu come il cielo colavano delle sbavature nere del trucco. Il suo sguardo era triste e spento, nonostante mi stesse facendo una domanda così bella.
Deglutii a fatica mentre una voragine si aprì nel mio petto, risucchiando tutta la mia lucidità. Avrei voluto sedermi accanto a lei, passare il dito sotto i suoi occhi e cancellare ogni traccia di quel malessere, ma la posizione che aveva assunto dopo essersi rivestita lasciava intendere che non volesse ancora essere né toccata, né avvicinata.
Feci un sospiro profondo e buttai fuori la mia risposta tutto di un fiato.
«Di poterti rendere felice.»
Ember distolse lo sguardo e lo posò su un punto indefinito verso il pavimento. Si morse il labbro e anche con le luci spente riuscii a intravedere i suoi occhi farsi sempre più lucidi. Lasciai che la mia schiena scivolasse lungo la parete dell'igloo e mi sedetti anche io in modo esattamente speculare.
«E tu? Cosa avevi desiderato?» le chiesi dopo qualche istante.
Lei scrollò le spalle e alzò lo sguardo verso il cielo stellato senza incrociare il mio.
«Non importa. Non si è avverato e probabilmente non succederà mai.»
Aprii la bocca per dirle che non sarebbe stato così, che avrebbe potuto ottenere tutto ciò che voleva, ma il faro della motoslitta illuminò l'intero igloo bruciandomi gli occhi. Torres parcheggiò davanti all'ingresso e io mi alzai, soffermandomi prima della soglia per far uscire Ember per prima.
Si sistemò sull'estremità posteriore del mezzo questa volta, mentre il nostro autista sbiancò nel vedere le sue condizioni. Senza dire una parola, mi posi tra lei e Torres, il quale dopo qualche momento di comprensibile confusione, accese i motori e si diresse verso la scorciatoia che portava alla piazzola dove avevamo lasciato la macchina.
Fu un viaggio breve, di soli dieci minuti, ma sembrò durare un'eternità. Torres emanava una tensione palpabile mentre Ember dietro di me non mi toccò nemmeno con un dito. Non si aggrappò a me nemmeno quando il tracciato che stavamo percorrendo diventò disconnesso.
Una volta arrivati alla macchina, salii sul sedile anteriore per lasciare più spazio a Ember. Torres fece per girare la chiave, ma si fermò sbuffando con il naso e scuotendo la testa. Notai che delle gocce di sudore gli colavano dalla fronte. Mi guardò come se avesse visto un fantasma e tirò fuori tutto quello che si era tenuto dentro durante il trasferimento in motoslitta.
«Signor Egawa, le chiedo scusa in anticipo per quello che sto per chiedere, probabilmente metterò a rischio il mio lavoro, ma non riuscirei a guardarmi più allo specchio se non lo facessi.»
Annuì appena percettibilmente e lui esitò qualche istante prima di raccogliere il coraggio.
«La Signorina Sullivan sembra molto scossa, volevo assicurarmi che non avesse bisogno di aiuto e che non fosse successo qualcosa di brutto.»
Chinai il capo e abbassai lo sguardo, facendogli capire che non mi sarei permesso di rispondere al posto della diretta interessata.
Torres cercò lo sguardo di Ember dallo specchietto retrovisore.
«Signorina Sullivan, sta bene? Ha bisogno di aiuto?»
Lei non rispose subito e Torres prese a stringere il volante tra le mani, visibilmente agitato. Ma poi una voce stanca e arrochita dalla sofferenza ci raggiunse dai sedili posteriori.
«Signor Torres, la ringrazio davvero tanto per la sua preoccupazione. Se solo ci fossero più uomini come lei, il mondo sarebbe un posto migliore. Se sta pensando però che il Signor Egawa mi abbia arrecato qualche danno, si sbaglia di grosso. Ian mi ha solo fatto passare una delle serate più belle della mia vita. Forse la più bella. Ma purtroppo ho diversi demoni nella mia testa, a causa di avvenimenti passati in cui il suo datore di lavoro non c'entra assolutamente nulla.»
La voragine nel petto divenne un buco nero capace di risucchiare qualsiasi cosa. Mi morsi un labbro e aggrottai la fronte sentendo le lacrime riempirmi ancora gli occhi. Torres mi osservò con la bocca spalancata, avendo inquadrato vagamente la situazione.
«Mi dispiace Signor Egawa... Io non...»
«Eddy, non preoccuparti per la nostra collaborazione. Sinceramente ti avrei licenziato se non ti fossi posto delle domande e avessi girato la faccia dall'altra parte.»
«Mi dispiace molto davvero, siete sicuri che non ci sia niente che possa fare?»
«Stai già facendo molto accompagnandoci a casa, dove la signorina Sullivan avrà la privacy e la tranquillità che necessita in questo momento.»
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