🌹Anima d'Alba [1 di 4]

Tenuta De' Cecchi, Toscana

☀Estate 2017


«Guarda quanti girasoli, Zara!» esclamò mio padre con entusiasmo.

Io sbuffai e distolsi lo sguardo dai campi di girasoli che circondavano la strada. C'era un caldo soffocante. Lontano, tre pale eoliche si muovevano pigramente, mentre una mandria di vacche ruminava placidamente sotto la loro ombra. Alti pini silvestri e cipressi fiancheggiavano il sentiero, davanti a recinti di filo spinato e paletti di legno.

Nonostante i miei sforzi, non potei fare a meno di lasciar vagare lo sguardo verso l'orizzonte, dove le colline si perdevano a vista d'occhio finché il verde non si confondeva con l'azzurro del cielo. Il panorama era incredibile, esattamente come lo ricordavo. Mi riempiva il cuore di meraviglia e malinconia al tempo stesso. 

Con la testa piena di pensieri, seguii mio padre lungo il sentiero che ci avrebbe portato alla tenuta dove avremmo soggiornato per i prossimi tre giorni.

Lui se ne accorse e si fermò, aspettandomi con un sorriso che piegava le sue labbra sottili e illuminava i suoi occhi grandi e un po' tristi. Io lo guardai per un attimo, poi rimisi su il mio broncio, comunicandogli chiaramente che non bastava quel sorriso a distogliermi dal mio stato d'animo cupo.

Quella era l'ultima trovata di mio padre per "festeggiare" la mia promozione alla terza media, ma sapevo che non mi aveva portato dalla Lazio alla Toscana solo per quello. No, mi aveva portato qui per cercare di farmi dimenticare quello che era successo con il nonno. Un tentativo inutile, perché non avrei mai potuto dimenticare la scena di nonno Bruno che cercava di cancellare i numeri tatuati sul braccio con un coltello in cucina. 

Spaventata, avevo chiamato l'ambulanza. La diagnosi all'ospedale era stata chiara: demenza. Mio padre era arrivato di corsa, lasciando la sua lezione all'Università, preoccupato e dispiaciuto. Dopo aver saputo cos'era accaduto, aveva deciso di ricoverare nonno Bruno in una casa di cura specializzata. Prima di partire per la Toscana, eravamo andati a trovarlo...

«Zara, ci sei?».

La voce di mio padre mi riportò al presente.

Alzai il capo.

«Sì» risposi a bassa voce, evitando il suo sguardo.

Arrivammo nelle vicinanze della casa padronale e osservai con occhi scintillanti le violette in fiore che crescevano in cespugli disordinati nelle aiuole, disseminate di ciottoli dipinti a mano.

Mio padre suonò il campanello.

Dopo qualche minuto, un uomo di una certa età ci aprì la porta. Era un gigante, con i capelli grigi stretti in una coda bassa e occhi castano scuro dietro lucide lenti da vista. Guardò mio padre con una lieve sorpresa, poi sorrise.

«Professore Ascarelli!» esclamò stringendogli la mano. «È un vero piacere rivederti!»

«Ciao Giacomino!» salutò mio padre. «Sono così lieto di vedere che ora stai bene».

«Il mio vecchio cuore ha fatto le bizze, ma ora tutto va a meraviglia» rispose lui gioviale. 

Dopodiché spostò lo sguardo su di me e mi guardò da sopra le lenti da vista ovali che teneva appoggiate sulla punta del naso a patata.

«E questa bella ragazza chi è?» chiese scherzoso.

Abbozzai un sorriso.

«Ciao Giacomino» salutai timida.

Con fare affettuoso, lui mi pizzicò una guancia e poi mi abbracciò.

«Tutta la tua cara mamma!» esclamò lieto con un sorriso enorme, dopo essersi discostato. «Seguitemi» aggiunse, rivolgendosi a entrambi. «La vostra solita camera è già pronta».

Inconsapevole del dolore che quelle parole mi avevano suscitato, l'uomo si scostò per farci entrare in casa.

Una volta chiusa la porta alle spalle, un lieve profumo di fiori mi stuzzicò le narici. Con occhi sognanti ammirai i ricami appesi alle pareti bianche e mi soffermai su uno in particolare che ritraeva papaveri e la scritta "primavera" in arabo e in italiano.

Dopo aver riposto giacca e cappelli nell'armadio a muro, salimmo al piano di sopra con le valigie.

Con gesti ampi delle braccia, Giacomino ci mostrò la nostra camera con malcelato orgoglio: dedussi, dai fiori posizionati e la scelta dei colori, che si era occupato lui di persona nel preparare la nostra stanza.

«Ceniamo tra poco» disse con gentilezza. «Nel frattempo, se desiderate qualcosa, non esitate a chiedere!».

«Grazie» risposi, unendomi a mio padre.

Poggiai il mio zainetto sul lettino all'angolo e tirai fuori il mio quadernetto delle note per annotare le mie impressioni.

Mio padre si schiarì la gola.

«Io vado al bagno» disse. «Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure.»

Repressi l'istinto di roteare gli occhi. «Sì, okay» risposi, continuando a scrivere nel mio quadernetto.

«Allora vado...» aggiunse lui.

Senza staccare lo sguardo dai miei appunti, annuii.

Dopodiché udii mio padre sospirare e il rumore di una porta che si chiudeva.

Mentre facevo danzare la penna sul foglio bianco e vuoto, lasciai andare il respiro trattenuto. Non avrei mai creduto che un giorno avrei desiderato la solitudine della mia camera, i rumori del traffico e le voci della gente in strada che riuscivo a sentire anche con le finestre chiuse.

La mano che stringeva la penna prese a tremare, mi morsi il labbro inferiore e sentii gli occhi inumidirsi. Non volevo proprio piangere...

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