Capitolo Cinquantotto (passato)
Lei
Andammo tutti a dormire, Sario era ancora in uno stato d'incoscienza. Ci misi un po' ad assopirmi, stavo male al solo pensiero che domani dovevo pure alzarmi presto per andare a scuola.
Mi trovai a passeggiare in un posto sabbioso, il terreno aveva assunto una colorazione rossastra, non c'era molta differenza tra la terra che avevo sotto i miei piedi e questo cielo. Sentii un rumore dietro i miei passi e mi girai agitata.
Alle mie spalle erano presenti Mauro e Matteo che mi fissavano.
«Allora chi hai deciso chi abbandonare?» mi guardò Matteo con astio.
Cercai di parlare ma non emisi nessun suono.
«Già chi hai in mente di uccidere?» affermò una voce ancora più giovanile e squillante.
Comparvero in mia presenza mio fratello e mia sorella.
«Tanto saremmo noi le pedine sacrificabili vero? Stai già pianificando di ucciderci per poi resuscitarci!» urlò Matteo sputando del sangue dalla bocca.
Dei tagli profondi si manifestarono sui corpi dei miei amici.
«Per te la nostra esistenza non conta niente, per fortuna ti reputi Dio, colei che dà la vita» disse il mio coetaneo.
Mauro si mise a piangere e assunse una posizione di sottomissione, inginocchiadosi davanti alla mia figura. L'umano contrasse le braccia nella mia direzione in segno di pietà.
Del liquido scarlatto straripava da dei tagli profondi che erano localizzati sugli arti superiori.
«No, saremmo noi quelli che verremo sacrificati. Ci ha abbandonato da un pezzo per colpa della sua codardia» disse mio fratello abbassando lo sguardo in segno di sconfitta.
Immediatamente sul corpicino di Zacinto si accentuarono gli ematomi presenti su il suo fisico smilzo.
Poco dopo si aprì una ferita sulla sua tempia.
Le stesse e identiche contusioni che avevo visto in quelle fotografiche.
Non sapevo che fare, non ero a conoscenza di come risolvere la situazione. Ero in preda al panico più totale, il mio viso era imbrattato di sudore, le ciocche bionde mi si appicicarono al volto rendendo questa sensazione umidiccia ancora più sgradevole.
Congiunsi le mani in segno di preghiera.
Infilzai le unghie nel dorso delle mani e affossai le ginocchia nel sabbioso terreno, ustionandomi completamente i miei arti inferiori al contatto con il caldo suolo.
Assumendo la stessa identica posizione che aveva in precedenza Mauro. Continuavo a sudare e a disidratarmi ulteriormente. Il poco liquido che mi era rimasto scendeva attraverso le mie lacrime, striando lo sporco volto.
I granelli di sabbia entrarono come piccoli spilli nelle mie vie aeree, scorticandomi dall'interno e rendendo difficile la respirazione.
Un enorme macigno si depositò sul mio sterno, rendendo il mio battito cardiaco ancora più irregolare.
Tutto il mio essere veniva divorato dal mio senso di colpa.
La mia stessa punizione divina.
Il branco si avvicinò lentamente accerchiadomi in una stretta. Tentai di scappare da quella situazione, ma i miei piedi non risposero.
Delle mani mi avvolsero e mi abbracciarono da dietro. Un capo si posò sulla mia spalla e con la coda dell'occhio intravidi dei capelli color pece.
Girai la testa e vidi Leam che mi avvolgeva completamente. I suoi occhi gialli erano più chiari del solito.
«Allora chi deciderai? Lo sai che sarà lo stesso la strada sbagliata, perché...» schioccò le dita.
Tutti e quattro presero fuoco e si dissolsero nel nulla, mescolandosi con il paesaggio sabbioso.
Il Dio degli inferi si riavvicinò al mia figura, posando le sue labbra al mio orecchio.
«Perché ti porterà a questo» il demone parlò lentamente e sottovoce con tono mellifluo.
Leam mise le sue mani attorno al mio viso e lo voltò a suo piacimento.
Vidi moltissimi corpi di angeli e demoni morti riversi a terra. Le loro piume erano sparse sul terreno come sfondo di un paesaggio apocalittico, pieno di sangue e puzza di carne in putrefazione.
Dal nulla discesero delle figure singolari, avevano le ali spoglie e le loro sfumature andavano dal bianco candido al nero corvino. Ognuno di loro aveva uno dei due occhi di colori diversi e volteggiavano sopra gli immortali come avvoltoi.
Il volto di Leam mutò non era più il mio compagno. Quell'essere che non conoscevo iniziò a sghignazzare, diventai sorda dal rumore.
Aprii gli occhi e mi accorsi che stavo urlando.
Diana venne subito in mio soccorso «Va tutto bene» mi abbracciò energeticamente.
Mi calmai con difficoltà, avevo le palpitazioni e sudavo freddo.
Diocle mi stava osservando con i suoi occhi verdi che trasparivano una certa preoccupazione.
Scappai in bagno, girai il rubinetto del lavandino e mi rinfrescai la faccia, fissai lo specchio che si trova proprio sopra il sanitario.
Distolsi immediatamente lo sguardo che rifletteva il volto di una pazza.
Andai vicino alla finestra e guardai la luna piena e il cielo limpido, mi accorsi che il solito lupo stava osservando la mia stanza dal basso, di fianco a lui c'era il gatto soriano che gironzolava sempre in giardino.
Su un ramo dell'albero un corvo nero mi fissava, scrutandomi con quelle due pozze oscure che aveva al posto degli occhi.
Non so che cosa mi venne in mente, presi la viola che avevo in un vasetto da anni. Cambiavo l'acqua tutti i giorni ma per uno strano motivo non appassiva mai, la sfilai dal vaso, aprii la finestra e la buttai nella loro direzione e me ne andai.
Ci misi un po' ad addormentarmi nuovamente.
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Dopo qualche giorno di riflessione l'amara decisione fu presa. Escogitai un piano e l'attuai. C'era una missione a carico dei Lùf che doveva essere gestita in gruppo.
Chiesi a Licerio e a Guglielmo, il primogenito e successore della famiglia, di mandare me e i miei amici. Teodoro e Termine mi domandarono se potevano essere di aiuto, ma io dissi che eravamo già abbastanza.
Anche Diocle chiese se poteva accompagnarmi, ma io rifiutai. Dovevo pensarci da sola. Partimmo per recarci nel posto in cui dovevamo attaccare. Era a un paio di ore di treno a est da Monacre.
Dovevamo spazzare via un clan rivale, una delle tante che pestava i piedi ai Lùf. Una soffiata ci disse che erano in una chiesa sconsacrata. La ex struttura sacra era piccina e situata in un luogo poco popolato.
La facciata color crema aveva assunto una pigmentazione grigiastra. I portoni riguardanti le entrate laterali e quella principale erano parecchio pericolanti, quasi completamente scardinarte.
Al suo interno la luce era fioca rendendo il posto lugubre anche di giorno. Questo luogo mi soffocava e mi faceva venire attacchi di claustrofobia.
Infilzai le unghie nei palmi, calmai i miei respiri irregolari e proseguii sul mio sentiero tenendo i miei sensi sempre in allerta.
Erano ancora presenti alcune parti di arredamento, i banconi di legno erano capovolti sul pavimento. Numerose mattonelle erano crepate e alcune sradicate dalla loro posizione. Non c'era più credo nei miei confronti, neanche da parte degli umani.
Le piccole finestre opache erano state rotte, lo spazio vetrato era completamente crollato e numerose schegge erano riverse sul davanzale di marmo.
Le pareti della chiesetta erano spoglie e privati di qualsiasi quadro, rimanevano solo i ganci dipinti in oro.
Salimmo i tre gradini dalla pavimentazione traslucida, trovandoci davanti lo spoglio altare. Ci orietammo sulla porticina che si trovava sulla destra, dove generalmente i preti e i chierichetti uscivano durante la messa.
Trovandoci in sacrestia l'obiettivo da eliminare. Li sterminammo tutti alle luci dell'alba, pennelando di rosso le pareti sconsacrate e macchiando l'arredamento con le viscere delle vittime.
Avevamo terminato l'ordine partito dai Lùf e stavamo uscendo dalla chiesa. Eravamo sulle scalinate in pietra, tutto intorno a noi era deserto pieno di palazzi diroccati.
Ero dietro a uno di loro. Mauro era proprio davanti a me e Matteo di fianco all'amico.
Ero ancora in tempo per fermarmi, per invertire lo scorrere degli eventi, ma non lo feci.
Sapevo che se non li avessi eliminati, avrei condannato i miei fratelli a morte certa.
Non dovevo preoccuparmi troppo, presto li avrei resuscitati. Doveva essere per loro una morte dolce e indolore, due fendenti dietro la schiena e sarebbe tutto finito.
Mi estraniai completamente dai miei sentimenti.
«Non è stato difficile come compito» parlò Matteo con le spalle rilassate.
«Già, finalmente possiamo tornare a casa» disse Mauro sereno.
Mi avvicinai furtivamente prima a Mauro da dietro le sue spalle, estrassi il coltello e tappai la bocca al mio amico.
Si dimenava con tutte le energie che aveva in corpo, scalpitando per la sorpresa. Si aggrappò con la mano sinistra al mio collo, incarnando le unghie nella mia pelle.
Invece con la mano libera mi diede dei pugni alla tempia pur di liberarsi.
Riuscii lo stesso a pugnalarlo due volte al petto. Mauro si girò nel guardarmi, i suoi occhi castani erano intrinseci del mio tradimento. Il suo sguardo si perse per un attimo, per poi scivolare via da questo mondo. Gli arti che erano avvinghiati alla mia nuca, slittarono sul mio volto e subito dopo caddero a peso morto.
Abbraciai per un istante il caldo cadavere e con gran fretta, l'adagiai in maniera più composta sui freddi gradini.
Un muto silenzio distanziava me dalla mia prossima vittima.
Mi avvicinai furtivamente a Matteo ancora completamente ignaro dell'accaduto. Recuperai il distanziato che si era formata, scendendo due gradini alla volta.
Ero a meno di mezzo metro di distanza, ascoltai la melodia dei suoi respiri complementare pronta a spezzarla. Stavo per attacarlo ma lui si girò prima del previsto.
Quando mi vide con il coltello in mano cercò di disarmarmi e ci riuscì, persi l'equilibrio e sbattei la testa contro i gradini fatti di cemento. Riuscii lo stesso a rialzarmi anche se del bruciore al capo si stava facendo sempre più lancinante.
Estrassi un altro coltello dai pantaloni, dovevo farlo prima di avere qualche ripensamento. Nessuna esitazione Angelica!
«Che cazzo stai facendo Angelica?» urlò il mio amico.
«Scusa ma lo devo fare. Il bastardo mi ricatta» gli urlai, seccando ulteriormente la mia gola già arida.
Mi avventai contro di lui.
Lui schivò i miei attacchi e riuscì a pugnalarmi alla gamba. La lama rimase nel mio arto inferiore, grazie a questo lui era di nuovo disarmato.
Questa ferita profonda mi spronò ad andare avanti, il dolore riusciva a non darmi la lucidità che mi serviva.
Nel collutamento riuscii a fargli perdere l'equilibrio e a buttarlo a terra.
Buttai il coltello sui gradini e avvolsi le mani sulla sua morbida gola. Cercai di strangolarlo con tutta la forza che mi era possibile. Matteo tentò in qualsiasi modo a rimanere aggrappato alla sua vita, il giovane mi graffiò le mani e mi strappò i capelli con foga combattendo come un vero guerriero.
Vidi riflesso nei suoi occhi castani il volto di un mostro. Il viso maligno così simile a quello del diavolo, era distorto e sporco di sangue.
Mi stancai da lui spaventata e priva di energia. Dalla ferita traboccava un ingente flusso di sangue causandomi forti allucinazioni.
Non ero più in grado di strozzarlo, non dopo quello che avevo visto, ma non potevo lasciare il lavoro a metà.
Allora presi un coltello dal manico ricurvo dalla tasca della giacca e pugnalai il mio amico al cuore.
Sevirono due fendenti per finirlo, usai talmente tanta forza da far scivolare la presa sulla lama, lacerandomi il palmo della mano.
Completamente priva di forze, lasciai la presa sulla gola che mi serviva per tenerlo fermo. I suoi occhi erano appannati e assenti. Matteo aveva le braccia alzate davanti a sé, cercando il mio volto e quando lo trovò le sue mani mi accarezzarono, incorniciandomi il viso ai lati.
«Angelica io ti amo» affermò con voce flebile e con gli occhi lucidi.
Furono le sue ultime parole.
Non c'era né vendetta e né odio nel suo sguardo.
Con ancora la mano insanguinata, appoggiai le mie dita tremanti sulla mia bocca, le prime lacrime dal sapore dell'ipocrisia bagnarono il mio viso.
Ero una vigliacca, sapevo che era sbagliato ciò che stavo attuando. Non mi sono ribellata a mio padre e questa ne è la conseguenza, il risultato di essere una debole.
Ero stata sbranata dal predatore più forte. Non merito di avere degli amici e non sono degna dell'amore di Matteo.
Sono diventata come Lui, un mostro di egocentrismo che uccide solo per i suoi scopi. Mi asciugai le lacrime miste agli schizzi di sangue che avevo su tutto il corpo.
Estrassi con riluttanza il coltello che avevo nella gamba. Urlai dal dolore e per poco non vomitai. La ferita sulla gamba continuava a sanguinare e anche la lesione alla testa pulsata ripetutamente.
«Guarda che casino hai fatto, aspetta che ti aiuto» affermò la voce nemica all'interno del mio essere.
Immediatamente le due ferite gravi che avevo nel corpo smisero di sanguinare e si cicatrizzarono immediatamente.
Mi guardai attorno per dare una degna sepoltura ai due cadaveri. Dietro alla chiesa trovai dei terreni incolti.
Trascinai per le caviglie e lungo il campo Mauro che oramai era diventato freddo e rigido. In seguito toccò anche a Matteo.
Materializzai tra le mie mani con grande fatica, una pala vecchia e arrugginita. Era il meglio di quello che ero riuscita a fare. Scavai la buca infilando il logoro strumento nell'arido terreno.
Una leggera pioggerellina cadde dal cielo bagnandomi il volto. L'acqua si mescolò con le mie lacrime amare.
Feci una fossa più che profonda . Adagiai con delicatezza i due cadaveri, chinai il capo e chiusi gli occhi in segno di preghiera poi ricoprii i corpi.
Camminai in maniera claudicante per tutta la lunghezza del campo, le fastidiose spighe delle graminacee selvatiche si attaccarono ai miei indumenti.
Ritornai vicino alla chiesa mi accorsi che due paia di occhi mi stavano fissando. Un sfortunato superstite che era presente in sacrestia era riuscito a scamparla.
L'umano con gli arti maciullati, stava strisciando fuori dalla struttura sconsacrata. Era soltanto una piccola svista.
Quando i nostri sguardi s'incrociarono, l'ambiente s'impregò di pure terrore per la vittima.
Un perfetto pretesto per sfogare la rabbia che avevo in corpo.
Il giovane tentò di allontanarsi dal pericolo. Sentivo il suo respiro irregolare e il suo corpo scalpitare anche da questa distanza.
Con un balzo atterai sulla cima dei gradini. Alzai la pala e incominciai a dargliela sulla testa. Continuai finché le mattonelle non si dipinsero di rosso, lembi di cervello s'incastonavano tra le scanalature del pavimento di cemento.
La mia violenza divenne cruda e persistente, finquando del cranio del povero ragazzo non ne rimase nulla.
Mi sciugai con il braccio il sudore della fronte. Quando alzai lo sguardo ritornando alla realtà, mi accorsi che Guglielmo si stava godendo lo spettacolo, seduto su dei ciottoli di cemento davanti alla mia figura. Il padroncino mi batté le mani per poi alzarsi, mantendosi sempre a dedita distanza.
«Accidenti che spettacolo! Lo sapevo che non mi avresti deluso. Sei così interessante» disse.
Buttai la pala dalla parte e sputai sul terreno.
«Che cosa ci fai qui?» parlai in modo aggressivo.
Lui inclinò la testa «Solo per noia. Licerio era dubbioso su i tuoi comportamenti e anch'io ti vedevo strana negli ultimi tempi. Così ho deciso di seguirti, ed è stata la scelta giusta» sorrise mostrandomi bianchi denti.
Mi avvicinai lentamente a Guglelmo. Mi dava sui nervi questo tizio, quanto mai l'ho salvato anni fa.
Alzai il dito impregnato di sangue davanti al suo naso, ma lui non si mosse, era troppo fiducioso che non gli facessi niente.
Disegnai ai lati della sua bocca un sorriso.
«Per uno che è sempre vissuto nella bambagia. Cosa ne vuole sapere di vivere nei bassi fondi? Non guardarmi come una cavia da laboratorio. Tu non sai niente di me.»
Lui alzò un sopracciglio «So molto sul tuo conto, ancora di più di te stessa» e se ne andò via, dopo aver pronunciato quella frase ambigua.
Lui
Ero sul mio trono, metà del castello l'avevo distrutto e dovevo ripararlo. La mia furia fu inimmaginabile.
Quel bastardo di suo padre l'aveva ricattata, non gli bastava averla rinchiusa in quel laboratorio? No, gli chiedeva di uccidere le sue persone più care.
Se non fosse protetto dalla barriera che circondava il suo villaggio. L'avrei già ucciso, Angelica inconsciamente l'aveva alzata prima che abbandonasse quel maledetto villaggio.
Avevo chiesto ai miei alleati di ucciderlo, ma niente era un osso duro. Mi venne un colpo quando Corvus, tornò agli inferi con metà del suo corpo complementare pieno di scottature.
Dopo che le avevano tolto i suoi occhi il suo potere angelico cresceva lentamente, questa cosa mi preoccupava parecchio. Suo padre era un meticcio, la cosa più disgustosa sulla terra, pensavo che questa piaga l'avessi debellata, ma a quanto pare non era così.
Mi imbestialii quando andò a casa dei Lùf, come si era permesso di toccarla? Quando sarà nelle mie mani ballerò sul suo cadavere.
Ero seduto sul trono in una posizione poco elegante, toccai il cranio di un meticcio che era attaccato ai braccioli della mia regale poltrona. Intanto Corvus mi fece vedere che cosa stava succedendo ad Angelica. Scossi la testa frustrato.
Il modo in cui privava la loro vita non era da Angelica. Sapevo che quelle azioni erano dettate dal mio sangue che era al suo interno.
Io e questo pianeta eravamo riusciti a rovinare l'essere più puro di tutta l'esistenza. Eppure egoisticamente, non ero in grado di rinunciare a Lei.
Ero come i tossicodipendenti in astinenza dalla droga. Anche se sapevo che le potevo provocarle dolore, anche se sapevo che potevo disintegragarla, al solo pensiero di lasciarla andare mi faceva impazzire.
Spazio Autrice
Ciao a tutti ;) mi scuso se questo capitolo è uscito troppo lungo ma era impossibile da dividere, pieno di avvenimenti e anche uno dei capitoli più tristi. Dal prossimo ritorneremo al presente :) ci vediamo il mese prossimo ;)
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