Capitolo Cinquantasei (passato)
Lei
Arrivammo al villaggio, erano le due del pomeriggio e faceva un caldo asfissiante. Mi misi sopra un albero che era posto dietro alla mia vecchia casa, dall'alto vedevo completamente il retro.
Nell'orto che era delimitato da una staccionata di legno, erano presenti due bambini che giocavano allegramente. Il più grande aveva i capelli biondi credo che fosse Zacinto, ormai non riuscivo più a riconoscerlo. Invece l'altra era una bambina più piccola, aveva i capelli castani a scodella proprio come ce li aveva Zacinto quando andava alla materna, ipotizzai che fosse Marica l'ultima volta che la vidi era in fasce.
Ridevano felici e si mettevano a giocare con la terra, utilizzando delle palette che avevano in mano. Nel mio essere sentii una punta di gelosia, era l'infanzia che io non avevo mai avuto. Un corvo persisteva nel saltellare in maniera agitata sulle tegole del tetto, continuando a gracchiare rumorosamente. Mi stava decisamente irritando, se avessi avuto una fionda gli avrei lanciato un sasso per farlo star zitto.
Il sole in cielo verso le otto era già in fase calante, non mancava molto al tramonto. La mamma uscì dalla porta posteriore, comunicando a entrambi di rincasare per la cena. La donna era decisamente invecchiata, nei suoi biondi capelli a caschetto iniziavano a trasparire timidamente i primi capelli grigi. La sua postura si era leggermente ingobbita e di statura si era rimpicciolita.
Avevo notato che aveva preso diversi chili, rendendo la sua figura più morbida e molto meno slanciata rispetto a prima. Le sue rotondità si accentuarono maggiormente sulla pancia e sui glutei. La sua pelle era molto spenta e i suoi occhi avevano un'aria stanca.
Questo suo decadimento se lo meritava. Prima di tutto per avere a fianco un uomo del genere, in secondo luogo non si era mai degnata di andare in un paese al di sotto della montagna e chiamarmi con un apparecchio telefonico, se non per contattare saltuariamente Licerio.
Anche se mi avesse cercato gli avrei sicuramente buttato la cornetta in faccia.
Per lei sono sempre stata invisibile, ignorando quello che mio padre si permetteva di fare, magari era d'accordo pure lei con tutto questo. Che donna debole e infima, una nullità di persona.
L'allegra famigliola entrò nella dimora mettendosi tutti a tavola in maniera composta. Subito dopo si aggiunse il bastardo, torreggiando a capo tavola. Nella umile casina regnava il silenzio assoluto, tutti rigidi e nessuna risata, nemmeno uno scambio di battute. Una noia. Mia madre si mise a servire il bastardo versando nel piatto la vellutata di patate, per poi dedicarsi ai figli e infine si mise a impiattare la pietanza nella sua fondina.
In questo momento la mia invidia nei confronti dei miei fratelli, scemò drasticamente. Quando ci mettiamo a tavola io, i miei compagni e Licerio c'è sempre del dialogo. Però non fu così divertente quando una volta per vendicarmi (non mi ricordo neanche più per cosa), misi nel piatto del maggiordomo delle arachidi di cui lui era allergico.
Licerio dovette andare all'ospedale. Sapendo di averla fatta grossa, cercai di allontanarmi per qualche tempo, ma lui mi trovò subito e mi riportò a casa trascinandomi davanti a tutti per un orecchio.
La punizione fu ancora più severa, sento ancora il mio sedere dolorante. Mi fece attaccare sulla schiena un cartello con su scritto"Prendimi a calci", tutta la servitù si divertì con quella meschina vendetta.
C'era Matteo e Mauro che continuarono tutto il giorno a darmeli. Le ore passarono e la famigliola andò a dormire. Si avvicinava la mia occasione. Diocle dopo poco tempo mi diede l'okay. Indossai la maschera antigas e lui si trasformò nella sciabola.
Scesi furtivamente dall'albero percependo con i polpastrelli le dure scanalature del sempre verde.
Scavalcai la staccionata, percorsi la minuscola macchia verde e mi arrampicai sul tubo di scolo, saltando in seguito sulla finestra saliscendi di camera mia, feci pressione e riuscii ad aprirla.
Era rimasta come me l'avevo lasciata, naturalmente più impolverata e spoglia. La libreria di legno era quasi completamente vuota, solo nell'ultimo ripiano erano presenti i minuscoli libri che utilizzavo alle elementari per imparare l'italiano e a scrivere nel mio dialetto.
Le coperte del letto osservandole in controluce, si vedeva perfettamente che avevano tre dita di polvere. Picchiettai le lenzuola senza fare rumore, in modo da togliere l'eccesso. Le pareti erano prive di ganci per quadretti. Solo ora mi resi completamente conto di quanto non abbia mai vissuto questa camera. Sempre trattata come un ospite indesiderato.
Ripresi la mia concentrazione, non dovevo assolutamente discostarmi dal mio obiettivo principale.
Con passo felpato aprii la porta, percorsi un paio di scalini e mi sporsi dalle scale per notare dove il bastardo si fosse diretto.
La cucina e il salotto erano avvolti nell'oscurità, invece la luce dello studio dell'omuncolo era accesa. L'unica a fare rumore era il ticchettio della vecchia sveglia posta in cucina, ad accompagnare il concerto c'era il rubinetto che mia mamma non aveva di certo chiuso correttamente.
Come sempre mi chiedevo cosa facesse rinchiuso tutte quelle ore in quella stanza il "grande capo villaggio". Ritornai furtivamente di sopra, sfilai dai pantaloni delle fiale che avevo portato con me, era una nuova invenzione della famiglia Lùf.
Un'arma in cui in alto al piccolo coperchio, bastava schiacciare un bottone e dai fianchi del siero usciva un gas potentissimo per stordire le persone. Entrai prima nella camera di Zacinto e Marica, premetti l'arma e la lasciai nell'ambiente. Feci altrettanto nella stanza di mia madre.
Tagliati fuori i possibili testimoni. Ritornai al piano inferiore e mi misi di fianco alla porta di legno dello studio per origliare.
«Sì farà come dico io, lei ci tiene a sua sorella e a suo fratello. Giocherò ancora un po' con lei, è così divertente vederla soffrire» disse con tono beffardo.
Non sapevo con chi stesse parlando, stava per caso usando un telefono? Non erano banditi gli oggetti tecnologici?
Decisi che era ora di mettere fine a tutto ciò, presi un bel respiro e materializzai una piccola barriera che includeva solo il suo studio, nessuno da fuori non avrebbe sentito nulla.
Non era così facile creare delle preghiere così sofisticate, era da poco che ero riuscita ad utilizzarne con discreta maestria e precisione.
Da anni sentii che i miei progressi nei poteri angelici e nelle prestazioni fisiche erano rallentati, ma non ne capivo il motivo. Tolsi la maschera gettandola in un angolo del corridoio ed entrai nella stanza per poi riuchiuderla.
Lui mi fissò sorpreso per poi mutare la sua sua espressione, scrutandomi con uno sguardo di sfida.
«Ti sono mancata?» inclinai la testa con fare innocente.
Finalmente lo spettacolo avrebbe avuto inizo.
L'omuncolo biondo si alzò di scatto e si avvicinò lentamente, dovevo star calma tutto sarebbe filato liscio come l'olio.
«No, per niente» disse, i suoi lineamenti divennero decisamente più duri.
«Ma come? qualche minuto fa hai detto che ti diverti così tanto con me. La demenza senile sta progredendo piccolo bastardo?»
«Bastardo? Ti sembra il modo di chiamare così tuo padre?» mi guardò con una certa sufficienza.
«Tu non sei mio padre.»
Quando mai si è comportato in quel ruolo nei miei confronti?
Il suo sguardo si assottigliò ulteriormente divenendo ancora più freddo, del suo solito ghigno sardonico non ce n'era più traccia.
«Che cosa sei venuta a fare qui bambolina ?»
Entrambi ci stavamo ancora studiando, tentando di prevedere la mossa dell'altro.
«A darti personalmente la mia risposta» affermai.
«E quale sarebbe?» vidi spuntare delle piccole protuberanze dalla bocca.
«Questa!» estrassi la sciabola e la conficcai nel suo fianco destro, lui orlò dal male e contorse il suo viso dal dolore, non si aspettava un attacco così improvviso.
Finalmente la fortuna iniziava a girare dalla mia parte, ci stavo credendo. Estrassi la lama e mi rimisi a colpirlo, ma lui la fermò e la bloccò. Cercai di liberare la spada dalla sua presa ma le sue mani sembravano delle morse.
L'umano tese la mano libera e non so come mi scaraventò al muro. Non riuscivo a muovermi, ero distante a un metro dal pavimento, come se fossi bloccata. Cercai di far ritornare normale Diocle ma non ci riuscii.
Il bastardo aveva un ghigno malefico dipinto sul volto, si avvicinò a me repentinamente. Cercai di trattenere le urine per la paura. Questa volta era veramente la fine.
Dalla sua schiena uscirono delle ali bicolore e più precisamente una nera e una bianca, erano orrende nulla a che vedere a quelle lucenti di noi immortali.
Le poche piume "appassite" di cui era munito, sembravano le foglie degli alberi durante il periodo autunnale. I suoi occhi avevano preso una tonalità rossastra.
Un forte senso di colpa ancestrale mi pervase. Avevo capito che era diverso da qualsiasi immortale presente, infatti non lo era, un miscuglio di due razze, un discendente creato con l'inganno di qualche demone o angelo, che sedotto dal desiderio di una prole avrà circuito qualche umano o umana con il suo fascino.
Un meticcio, era così che la mia società lo chiamava e che Leam si impegnava sin da quando ero ancora la Dea (Dio come mi chimano gli umani nelle loro false sacre scritture) di questo mondo a farli fuori sin dalla nascita, come se fosse la sua unica prerogativa che oramai era sfociata in una ossesione.
Intanto il bastardo prese una bocceta dal colore trasparente, subito dopo la versò sopra al mio amico che era ancora rimasto una sciabola. Dalla lama si sentirono delle urla di dolore, l'odore di carne bruciata stava innondando la stanza.
Cercai di parlare ma non emisi neanche una parola.
Il meticcio mi avvolse la mano intorno al collo stritolandomi con tutta la forza che gli fosse possibile.
«Che cosa volevi farmi bambolina?» si mise a ridere, il suo volto assunse un'espressione distorta a tratti priva di lucidità.
Utilizzai le mie energie rimaste per poter muovere il braccio sinistro, riuscii nel mio intento ferendolo in profondità all'occhio sinistro con una lama che avevo nascosto nel bracciale.
Lui mi mollò e io caddi a terra.
«Tu grandissima...» indietreggiò pieno di dolore.
Con uno schiocco delle dita, Diocle ritornò normale e si alzò dolorante, aveva tutta la schiena ustionata. Dissolsi immediatamente la barriera.
Dovevamo andarcene il prima possibile.
Feci cenno al biondo e aprii la porta.
«Pensi veramente di sfuggirmi?» urlò il bastardo alzandosi disorientato e con l'occhio sanguinante.
Il bastardo stava per raggiungermi, quando Diocle gli diede due pugni in successione sul viso e lo lasciò per terra dolorante.
Mi caricò sulla spalla e scappammo.
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