~Capitolo 11~
Beck
Stavo correndo per i sotterranei del carcere. I sandali della divisa colpivano le dure pietre della pavimentazione, mentre cercavo di ispirare la poca aria che ristagnava nell'ambiente.
Il mio collega, Algar, mi aveva appena avvertito che c'era stato un omicidio nella cella 427. La cella di Angelica. Non l'avevo lasciato finire di parlare ed ero subito schizzato giù per la voragine che portava ai carcerati.
Mi fermai qualche secondo per controllare frettolosamente la mappa. Un paio di corridoi mi dividevano dal cadavere della persona che avrei dovuto salvare. Sospirai, tentando di allontanare quel pensiero.
Eppure, non potevo impedirmi di rimproverarmi. Perché l'avevo lasciata da sola con quel criminale? Certo, non avevo voluto far saltare la mia copertura, ma in questo modo l'intero piano era fallito. E una vita innocente se n'era andata.
Continuai a camminare, sempre più avvilito. Quando arrivai di fronte alla cella, però, ciò che mi ero aspettato di vedere non c'era.
«Come è possibile?» sussurrai, stringendo i pugni intorno alle sbarre.
Il cadavere di Noah mi guardava con occhi vitrei.
Il sangue secco incrostava ogni angolo della piccola prigione, mentre l'odore della morte mi invadeva le narici. Il collo dell'uomo era deturpato da profondi segni violacei e un rivolo di bava colava dalla sua bocca spalancata, alla ricerca di un ultimo respiro mai arrivato.
«Non ci credo.» Osservai con pietà e disgusto quella scena.
Non avrei mai pensato che Angelica fosse capace di uccidere. Ancora sbigottito, rivolsi la schiena al corpo del detenuto e tornai ad addentrarmi tra i vari cunicoli.
Avevo ancora bisogno di trovarla.
Quando risalii, mi precipitai nella stanza dove le guardie solitamente si radunavano, sperando di racimolare qualche informazione. Appena entrai, notai come le uniche due persone presenti stavano, fortunatamente, parlando dell'accaduto.
«La ragazza l'ha strangolato?» chiese un demone dalla pelle scura.
«Sì, ma non si sa ancora il motivo.» rispose Algar, sedendosi accanto a uno dei tavoli appartenenti al mobilio spartano della sala.
Senza annunciare la mia presenza, entrai rapidamente, intervenendo a gamba tesa nella discussione.
«Io sono appena stato nella cella, una scena orribile.» I due demoni annuirono.
«Sì, lo stavo dicendo anche a Orion», Algar accennò all'altra guardia «non gli ha lasciato via di scampo. Probabilmente prima c'è stata una colluttazione parecchio violenta.»
Orion ridacchiò: «Quella ragazzina ha saputo difendersi.»
Io contrassi la mascella. «E a proposito di lei... adesso che le succederà?»
«L'hanno già portata nella Sala delle Torture.» sganciò la bomba Algar, quasi incurante. Mi si seccò la gola.
In quale mondo l'autodifesa veniva punita con la tortura? Capii di aver formulato una domanda stupida quando mi ricordai di essere all'Inferno.
Cercando di non sembrare troppo preoccupato, mi sedetti di fronte al demone. Mantenere la mia copertura e rimanere in piedi, allo stesso tempo, andava oltre le mie capacità attoriali. Il legno della sedia era ruvido e scheggiato. Sentivo la rigidità di quel materiale anche attraverso la casacca che portavo.
In quel momento, entrò uno dei generali presenti nella prigione. Si riconosceva per l'arroganza che sembrava emanare.
Senza fare alcun cenno di saluto, si piazzò al centro della stanza fissandoci a braccia conserte. I suoi occhi rossi scivolarono sui nostri tre visi, fino a concentrarsi sul mio.
Un sorriso sghembo gli incurvò il viso algido.
«Tu, nuovo arrivato.» esclamò
«Scendi nella sala delle torture e porta l'assassina in isolamento, cella 721. Poi rimani lì. Giorno e notte, fino a nuovo ordine.» Dalle facce dei miei colleghi demoni, capii quanto il compito a me assegnato fosse sgradito. Io, però, riuscivo solo a pensare a ciò che significava quell'ordine.
Angelica era viva! E io avevo la possibilità di andarla a prendere senza dare nell'occhio. Molto più di quanto avevo osato sperare.
«Sissignore.» abbassai la testa in segno di rispetto, per poi schizzare fuori dalla stanza. Finalmente sapevo dove trovarla e non mi sarei lasciato sfuggire l'occasione di aiutarla.
La Sala delle Torture, rabbrividivo solo al nome, si trovava nella parte più antica del carcere.
Si capiva dalle mura, che si sbriciolavano al solo tocco, dai supporti delle torce, arrugginiti e scuriti dal calore del fuoco, e dalle macchie di sangue rappreso mai lavate. L'aria era rarefatta, mentre i massi che componevano la pavimentazione si erano levigati col tempo. Dopo aver percorso diversi cunicoli, mi ritrovai di fronte alla porta che celava la sala delle torture.
Niente sembrava chiuderla dall'esterno, come se i demoni non fossero preoccupati che qualcuno potesse fuggire da lì.
Probabilmente, era vero. Deglutii, posando una mano che non riconoscevo sulla maniglia. Il color carbone della mia pelle si confondeva nella penombra. Il mio travestimento sembrava funzionare bene.
Quando aprii la porta, ebbi il terrore di quello che avrei trovato dall'altra parte. E la mia paura non fu delusa.
La stanza era un circo di oggetti mostruosi, posti per provocare un dolore dalle proporzioni inaccessibili. Un macabro insieme di lame e spine ricopriva quelle pareti impregnate di lacrime e sangue.
«Angelica!» urlai quando vidi la sagoma della ragazza accasciata in un angolo. I suoi capelli si confondevano con la rosa di sangue che le si era creata attorno. Il rosso violento che sporcava la sua pelle quasi mi accecò, mentre correvo verso di lei.
«Angelica... » sussurrai buttandomi in ginocchio accanto a lei.
Le presi il viso tra le mani, ma tutto ciò che potei vedere erano i solchi delle lacrime che aveva versato.
Sospirai e iniziai subito ad armeggiare con le corde che la sostenevano, tranciandole con violenza.
Subito, accolsi il peso del corpo della ragazza sul mio petto, mentre mi sporgevo verso la sua schiena, per osservare le ferite.
Brandelli della sua maglia erano rimasti attaccati alla schiena mutilata, mentre profonde striature vermiglie le colavano lungo i fianchi. Scossi la testa, valutando la gravità della situazione.
La carne viva lasciata scoperta continuava a sanguinare ma, prima di bendarla, dovevo trovare qualcosa con cui pulire le ferite. Osservai la stanza intorno a me e i miei occhi si posarono sul camino acceso, poco distante. L'unica soluzione.
Dopo aver preso la mia decisione, spostai i capelli della ragazza da un lato, in modo da scoprire completamente la schiena. Poi, la caricai su una spalla, rialzandomi con cautela. Con i pantaloni imbrattati di sangue non mio, mi avvicinai a uno dei tavoli e, con la mano libera, feci cadere a terra tutti gli utensili.
Infine, appoggiai Angelica sulla superficie ruvida, stendendola in posizione prona.
Deglutii nel vedere il bagno di sangue che ricopriva la sua schiena.
Nell'osservarla, mi resi conto di quanto non ci fossero limiti alla crudeltà. Dopotutto, era solo un essere umano, come facevano a non provare neanche un pizzico di pietà? Sapevano cosa voleva dire essere logorati dal rimorso? Oppure erano consumati dalla sete di sangue che contraddistingueva i demoni?
Che domande, ovvio che non gli importava niente di una mera anima mortale. Sospirai, tentando di fermare quei ragionamenti. Rimuginare sui trattamenti riservati ai prigionieri non era una buona idea, ma la mia mente non poteva fare a meno di domandarselo.
Anche mia madre era stata trattata in quel modo? Anche lei aveva ricevuto punizioni del genere? Anche lei era stata vittima della crudeltà di quegli esseri?
Fu quando i miei occhi si velarono di lacrime che capii di star perdendo solo tempo.
Quindi, mi feci coraggio, e iniziai a liberare le ferite dai brandelli di tessuto logoro. Le mie mani si sporcarono di sangue mentre, pezzo dopo pezzo, scoprivo la zona interessata.
Quando ebbi finito, osservai gli oggetti rimasti sul tavolo, per scegliere quello più adatto alla cicatrizzazione. Il mio sguardo scivolò sui lunghi spilli, per concentrasi su una lama abbastanza lunga e piatta, inserita in un manico di legno.
Mi mossi per prenderla, quando la mia attenzione fu catturata da un lampo scarlatto ai margini del mio campo visivo. Una frusta insanguinata, abbandonata sul pavimento. Stringendo i pugni dalla rabbia, l'afferrai e, in un impeto di disgusto, la scaraventai nel fuoco alle mie spalle. Osservai le fiamme divorare il cuoio della frusta.
Un gesto liberatorio, che mi permise di concentrarmi sul mio compito: salvare Angelica.
Presi la lunga spada che avevo adocchiato prima e la posai sul bordo del braciere che riempiva il camino, facendo attenzione a non bruciare il manico.
Poi, mentre attendevo che si scaldasse, presi la borraccia che portavo alla cintura e riversai il contenuto sulla schiena della ragazza. Purtroppo era quasi vuota, ma quel poco bastò per lavare via una piccola quantità di sangue.
Ritirai la spada dal fuoco e, titubante, iniziai a cauterizzare i profondi solchi che si aprivano sulla pelle di Angelica. Premetti la lama bollente sulla sua schiena, ringraziando il signore per il suo stato di incoscienza.
Non avrei voluto provocarle altro dolore. Deglutii, mentre la prima grande ferita si cicatrizzava e la pelle si richiudeva sopra la carne viva.
Ripetei il processo per altre tre volte, cauterizzando il resto delle lesioni.
Quando ebbi finito, Angelica era ancora incosciente. Mi asciugai il sudore dalla fronte. Dovevo cercare un modo per bendarla.
Non trovando niente di utile in quella maledetta stanza, mi sfilai la casacca che indossavo e, successivamente, la camicia, intenzionato a usarla per creare delle bende. Con il pugnale che portavo alla cintura la squarciai, realizzando delle lunghe strisce di tessuto. Ancora a petto nudo, avvolsi quelle bende improvvisate intorno al torso della ragazza.
Quanto avrei voluto avere il potere della guarigione, in quel momento. Sarebbe stato tutto molto più facile.
Quando ebbi finito il bendaggio, infilai nuovamente la casacca e la presi in braccio, stringendola al petto.
Mi faceva male pensare di portarla in un'altra cella ma, questa volta, ci sarei stato io a proteggerla. O, almeno, avrei potuto controllarla fino al termine della sua incoscienza.
La cella in isolamento non era diversa da quelle che già avevo visitato, con l'unica differenza che vi era un'unica brandina.
Appoggiai delicatamente il corpo di Angelica su quella misera imitazione di un letto, facendo attenzione che la schiena non dovesse sostenere il peso del corpo. A quel punto, mi sedetti sul pavimento della cella, osservandola in silenzio.
Il mio viso era allo stesso livello del suo, ancora contratto in un'espressione sofferente. Con la manica della casacca pulii il sangue che le colava dai capelli, ancora zuppi. Nel farlo, le accarezzai la guancia, sperando di non essere arrivato troppo tardi. Deglutii.
Quella situazione era solo colpa mia. Mi avevano dato un compito e io avevo fallito. Proteggerla era il mio dovere, come avevo fatto a essere così incosciente?
«Perdonami.» sussurrai con voce tremante «Perdonami se puoi.»
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