03 ♰ Il male in terra
Avrebbe dovuto sentirsi in colpa. Afferrò la spazzola di legno, un tempo appartenuta a Pamina, e ne sfilò i capelli biondi rimasti intrappolati, gettandoli sul pavimento. Separò con cura le ciocche di capelli corvini, spazzolandole dal basso verso l'alto, concentrato. Una volta districati, lasciò cadere i capelli sulle spalle, ammiccando al suo riflesso. Uno spesso strato di kohl nascose la neonata malizia nei suoi occhi. Una volta scurite le palpebre, si avvicinò allo specchio, ammirando il risultato. Allungò elegantemente la mano, prendendo il girocollo dorato posato sul letto. Dopo esserselo allacciato piegò il capo in avanti, usando altro kohl per colorare le radici dei capelli, azzurre. Quando fu soddisfatto del risultato, Jamil si mise in piedi, spostandosi silenziosamente per la stanza, in cerca di qualcosa che potesse rifletterlo nella sua interezza. Mancava uno specchio. Sentì i braccialetti d'oro tintinnare ai polsi. Non si era mai sentito così bene. Una volta trovata una finestra abbastanza lucida, ci si mise davanti, posando le mani sulle guance. Si trovò molto bello. Le carneficine dovevano essere state il segreto di bellezza di Domina per molto tempo.
Osservò con la coda dell'occhio la tazza sul comodino. La prese tra le mani. A giudicare dal suo aspetto non doveva essere appartenuta alla principessa della notte. Era grossolana, priva di qualsiasi decorazione, sul fondo c'era perfino un alone di tè, e un po' d'acqua ormai fredda. Dovevano essere i rimasugli del sonnifero che Sarastro gli rifilava quotidianamente. Ripensò a lui e Khalil, all'ultimo tè insieme, quando si erano ripromessi di scappare insieme. Scagliò la tazza contro il muro, macchiando la parete e il pavimento. Uno dei cocci rimbalzò, tagliandogli la guancia.
«Ti odio, Khalil» mormorò, mordendosi il labbro inferiore. Si rese conto con imbarazzo di aver perso l'abitudine di parlare. Posò una mano sul taglio, tentando di arginare il bruciore. Aggrottò la fronte, trattenendo i singhiozzi. Si era ripromesso di non dedicargli altre lacrime, ma gli risultava difficile. La vita all'Accademia continuava, mentre lui era eternamente fermo ai quindici anni, ancora congelato nel cortile. Erano uomini e donne, ma quando si guardava allo specchio non vedeva il coraggioso eroe che la scuola avrebbe dovuto formare. Melody e Keiichi dovevano aver avuto il loro lieto fine. Kay stava bene, Khalil aveva deciso di darsi alla bella vita con una donna bellissima. Ryuu l'aveva spinto in un pozzo senza ragione alcuna. Non aveva il diritto di vendicarsi? Sentì il kohl appiccicarsi alle sue guance, mescolarsi al sangue ormai rappreso. Forse era infantile desiderarli tutti morti. Sapeva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio, ma d'altronde non immaginava nemmeno di distruggere un intero regno per ripicca. Eppure l'aveva fatto, e non se ne pentiva. Forse era più cattivo di quello che credeva. E forse era un bene.
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«Non riuscirai mai a convincermi che mia madre fosse una bacchettona» rise Dario, rotolandosi sul letto. Aveva preso un tagliere affinché la drammatica cameriera della Fata Turchina potesse fargli compagnia anche sulle lenzuola.
«E invece ti assicuro di sì. Ha una casa molto spartana. È tutto risicato al minimo. Deprimente. Però è quasi tutto blu, quindi sembra di stare sott'acqua. È l'unico pro» ribatté la Lumaca, facendo per avvicinarsi al suo protetto.
«E questa?» domandò, allungandosi verso la voglia del ragazzo. L'uomo le avvicinò la mano per fargliela vedere. La Lumaca rimase in silenzio, pensierosa.
«Ho sempre pensato di averla presa da mia madre» mormorò Dario, sorpreso. La riguardò. Questa volta era informe, ma non ne era particolarmente deluso. Preferiva un dubbio indecifrabile a immagini che sarebbe dovuto saper interpretare, ma che puntualmente si dimostravano impenetrabili.
«Oh, no. Lei non ha nulla di simile. Ne sono sicura perché l'ho vista nuda. Devi averla presa da tuo padre» rispose lei, guardandolo con affetto. Improvvisamente il ragazzo ritirò la mano. Quella che aveva sempre percepito come una delle poche cose in comune con sua madre si rivelava essere invece un indizio sull'identità di suo padre. Ma la verità è che non gli era mai interessato. E sicuramente l'affetto per lui non sarebbe sbocciato con una semplice voglia.
«Non lo conosci?» chiese cautamente la Lumaca.
«No. Non ne ho mai parlato con mia madre. E a dire la verità non sono nemmeno così curioso a riguardo... alla fine non si è mai fatto vivo» spiegò l'uomo, distratto.
«Magari non sapeva di te» propose l'animale, poi tacque immediatamente. Se avesse avuto le mani si sarebbe coperta la bocca. Fortunatamente il ragazzo non parve farci molto caso. Si mise a sedere sul bordo del letto, avvicinando il tagliere con un dito.
«Devo risolvere così tante questioni. Ma non ne ho voglia. Non sono problemi miei» si lamentò, stiracchiandosi pigramente.
«Questa è la vita di noi aiutanti, caro. A meno che tu non sia così drammatico da voler diventare protagonista, ti conviene rispettare i ruoli che ti sono stati assegnati» borbottò saggiamente la Lumaca.
«Come sei vecchio stampo» rise Dario. «E comunque puoi stare tranquilla, non ho nessun'intenzione di scalare la piramide sociale»
«Fai bene. Non vale mai la pena»
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Non riusciva a leggere la frase dipinta sul muro. Per quanto si sforzasse, le lettere si mescolavano l'una con l'altra, danzavano via, lo deridevano. Stava, senza alcun'ombra di dubbio, sognando. Jamil si mise a sedere sul letto, liberandosi dei cuscini a suon di gomitate. Si guardò attorno, spaesato. Non era la prima volta che gli capitava di trovarsi in un sogno lucido, o addirittura catapultato in un reame diverso dal suo. Stropicciò gli occhi, con le palpebre pesanti. Avrebbe voluto rimettersi a dormire, ma quando ci si sveglia in un sogno, l'unica soluzione possibile è seguirlo. Si convinse ad uscire dal letto, abbassando lo sguardo verso delle gambe snelle. Non ci fece caso e si alzò, allungandosi verso la tisana che Sarastro aveva lasciato sul comodino. Era fredda, ora. Infilò il naso nella tazza, respirando gli aromi gelidi dell'infuso. Chiuse gli occhi, ancora propenso ad addormentarsi. La camera era tutta in disordine. Era nelle stesse condizioni di quando ci era entrato per la prima volta: gioielli e accessori accatastati, macchie di vernice sul pavimento, hobby insulsi sparpagliati qua e là. Normalmente avrebbe tentato di fare ordine, ma era un sogno, e non sarebbe servito a niente. L'unica differenza era un enorme specchio appeso al muro. Rendeva la camera invivibile. Ogni suo movimento veniva ripetuto all'infinito, ogni difetto moltiplicato. Fu in quel momento che si rese conto di non essere affatto sé stesso. A ricambiare lo sguardo non vi era il suo riflesso, ma una graziosa e spaurita biondina, che lo guardava con occhioni lucidi. Si passò una mano tra i capelli, e lei fece lo stesso. Abbassò lo sguardo: aveva dei morbidi ricci biondi tra le dita.
«Oh» esclamò, sorpreso. Riconobbe una sottile ma decisa somiglianza nella sua voce e in quella della donna che gli aveva rovinato la vita. Si morse il labbro e tornò a sedersi sul letto, stringendo le gambe. Voleva svegliarsi, quindi si lasciò cadere di schiena e chiuse gli occhi, tentando di manifestare il suo ritorno nel mondo reale. Non accadde nulla, ma udì un rumore. Una porta che si apriva. Allungò il collo, immaginando il corridoio del palazzo. Invece vide un'altra stanza. Si alzò e ci entrò. Era la stessa stanza da dove era appena uscito, ma come la conosceva lui. Lo specchio era sparito, rimpiazzato da un buco nel muro. La vernice viola della parete si stava scrostando. Il letto era fatto, e qualcuno ci stava dormendo sopra. Fece un passo indietro, poi deglutì e si avvicinò. La tisana era sul pavimento, la tazza ancora tra le sue mani, appesa alle sue dita. L'altro braccio, sul letto, era in posizione scomposta. Aveva i capelli sciolti e la bocca schiusa. Stava guardando sé stesso. Non ebbe nemmeno tempo di ragionare, di capire cosa fosse successo, interrotto da passi. Venivano dal bagno. Gettò un'ultima occhiata a sé stesso, poi aprì piano la porta.
Inorridì. Sarastro era lì, nudo, seduto sul bordo della vasca.
«Finalmente sei arrivata» proclamò, allungandosi verso di lui. Pamina, o Jamil, gettò un'ultima occhiata al ragazzo addormentato, poi non riuscì a dire più niente, soffocata dalla lingua dell'uomo.
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«Ma io non voglio tornare all'Accademia» si lamentò Kay, puntando i piedi sul terreno. Khalil lo spinse con più forza, sognando tacitamente di potergli dislocare le spalle e lasciarlo là, agonizzante.
«Mi dispiace deluderti ma fare il Gran Maestro è il tuo ruolo. E tra l'altro, te lo sei pure scelto tu. Non so se ti ricordi di quando ci hai congelati tutti e poi hai firmato con il sangue il contrattino, eh?» ribatté il principe, digrignando i denti. Non solo si era dovuto occupare di eliminare il cadavere che naturalmente non aveva ripreso le sembianze di Kay, ma doveva anche convincere il principe delle nevi a sloggiare da casa sua senza farsi vedere da sua madre.
«Tutti sbagliano. A me è capitato un errore più grande della media perché sono più importante» spiegò il ragazzo. «E poi i tuoi genitori mi stanno simpatici. Sicuro che io non possa rimanere qui? Sai, non ho mai avuto un padre» aggiunse, optando per la storia strappalacrime, genuinamente convinto che potesse funzionare.
«Si vede che non l'hai mai avuto. E sai perché? Perché, se non ricordo male, l'hai ucciso con le tue manine fatate. Ora sali sul tappeto volante prima che io cambi idea e ti spinga di sotto» ringhiò il vampiro, costringendo un dolorante Kay ad accomodarsi su quello che ormai pareva più uno straccio.
«Non è una cosa molto carina da dire, ne sei consapevole?» domandò l'uomo, guardandolo risentito.
«Lo so, è per questo che l'ho detta. Senti, Kay, non lo sto facendo per cattiveria, ma l'Accademia sta andando allo sfacelo senza qualcuno come te ad avere il comando. La gente tenta di andarsene in continuazione e noi siamo tutti senza diploma. Magari congelala di nuovo ed elimina la gente fastidiosa così possiamo finire quest'agonia» suggerì, facendo cenno al povero tappeto di avviarsi.
«Questo includerebbe te. Ma hai ragione. Serve il mio famoso pugno di ferro. E poi mia madre non sarebbe contenta se tornassi a casa senza un diploma» commentò. Khalil scosse la testa. Pensava ancora di tornare a vivere con sua madre?
«Tu non sali?» chiese il principe delle nevi, voltandosi. Era l'unico seduto sul tappeto, e l'altro lo guardava trionfante dal balcone.
«Perché dovrei tornare? C'è una psicopatica che crede di essere incinta di mio figlio, ho accidentalmente fatto un torto a Domina e non ho nemmeno più i miei capelli. Che dovrei fare lì?»
Kay tentò di scendere. «Tua madre ti ha visto con i capelli lunghi fino ad oggi. Non credi che si farebbe domande scoprendo che questa notte ti sei tagliato i capelli alla cieca?» chiese. Khalil alzò gli occhi al cielo.
«Quanto ti odio» borbottò, salendo sul tappeto con un salto. L'oggetto sospirò tristemente, rimpiangendo i passeggeri con meno massa muscolare.
«Evviva, si va all'Accademia» cinguettò Kay. Khalil sperò di non arrivarci mai.
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Era difficile che gli piacesse qualcuno. Bowie non aveva memorie di qualcuno che avesse trovato, anche remotamente, davvero simpatico. Probabilmente si trattava di deformazione personale: la gente che ingaggiava un sicario raramente era motivata dal vero amore, e questo confermava la sua teoria che fosse impossibile innamorarsi davvero di qualcuno, senza riserve. Angel era contento di stare con sua moglie, e lui era contento di vedere suo fratello felice. Detto questo, non era propriamente corretto dire che non trovasse nessuno simpatico. Adorava Darling, ed era per questo che non poteva che complimentarsi per l'accorata decisione di lasciarla indietro. Mentre il suo viziato destriero si godeva la radura, il cowboy si districava tra i rovi, armato di un solo coltellino. A motivarlo vi era solo la ricompensa promessa, e il soppresso desiderio di un po' di compagnia. Tranciato l'ultimo rampicante, si trovò dinnanzi ad un enorme giardino. Allungò il collo, ammirando tutte le bellissime piante mai viste prima. Si fece strada tra gli enormi petali di fiori sconosciuti, che decise saggiamente di non annusare, raggiungendo una serie di arbusti carichi di frutti esotici. Ancora inebriato dal profumo, alzò lo sguardo verso il palazzo. C'era una sola finestra su quella facciata, e non gli ci volle molto a dedurre che dovesse trattarsi della stanza di qualcuno tenuto nascosto. Il balconcino sembrava essere stato studiato per permettere solo la vista del giardino. La cosa era alquanto tetra. Perché nascondere la verità, cioè che il mondo non era solo un cortile fiorito, ma anche una foresta di rovi? A dir la verità, viste da vicino le piante non erano nemmeno così ben curate.
Si nascose dietro un tronco, poggiandosi con la schiena alla corteccia. Doveva completare quest'ultima commissione, e poi sarebbe potuto tornare dalla sua famiglia e vivere il resto della sua vita con loro. Si trattava di un ultimo sacrificio, e poi avrebbe passato le sue mattinate nei campi, a guardare suo fratello invecchiare con sua moglie e sua figlia. Per un breve, brevissimo istante, gli parve di provare un certo rimorso per quella che avrebbe dovuto essere la sua vita se Angel non si fosse ammalato. Avrebbe trovato marito, avuto figli? Scacciò quei pensieri e tacque, in attesa che la finestra si aprisse.
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«Secondo me dovremmo andarcene dall'Accademia, Melody» bofonchiò Keiichi, alla ricerca dei suoi calzini. «Non succede niente di niente. Non seguiamo lezioni, passiamo tutto il tempo insieme e stiamo anche ingrassando perché non mi porti a camminare»
«Non ti porto a camminare? Mica sei un cane. E poi stiamo qui perché siamo sotto una specie di dittatura, per quanto sia noiosa. Anzi, forse saresti un cane. No, se fossi un animale saresti un granchio» ribatté la ragazza, approfittando della distrazione dell'uomo per cacciare i suoi calzini sotto il letto. Erano rari i momenti in cui poteva conversare liberamente con il suo caro fidanzatino, e la sua voglia di passeggiare come un anziano non l'avrebbero fermata.
«Innanzitutto, non sarei un granchio ma un qualcosa di magnifico. Tipo un pavone. Secondo, mi annoio e non voglio sprecare la mia vita chiuso qui dentro perché Domina non sa curarsi da sola le ustioni» bofonchiò, cercando sotto le lenzuola. Il letto era tutto sfatto. Melody dormiva con la stessa pace di un guerriero in battaglia.
«No, saresti un granchio. Un granchio reale. A proposito, vuoi sentire una battuta su Kay? Jamil me l'avrà raccontata un milione di volte il primo anno.» cercò di distrarlo la fanciulla, perdendosi nei ricordi per un brevissimo attimo.
«Se proprio devo» ribatté il corvino, rassegnandosi ad alzarsi in piedi senza calzini. Si pentì immediatamente della sua decisione, perché schizzò sul letto, attaccandosi con la schiena al muro.
«E tu vorresti andartene? Non hai nemmeno il coraggio di metterti i sandali senza calzini» lo derise la ragazza. La sua fobia dei germi era ridicola. Specialmente per qualcuno che possedeva poteri magici legati al fango.
«Mi sembra il minimo. Chi è il pazzo che mette i sandali senza calzini? Comunque, raccontami la battuta, giullare, o mi passerà la voglia. E comunque non sarei un granchio» ribadì l'uomo. Doveva prenderne un altro paio.
«Qual è il dolce preferito di Kay? La ghiaccia reale! Ora non fa molto ridere parlare di ghiaccio. Però era tutto molto più divertente quando era Kay a voler fare il cattivo di turno. Ora ho la sensazione che tutti vogliano uccidersi» esclamò Melody, ma la battuta perse ogni parvenza di allegria nel momento in cui fu pronunciata. La ragazza mise il broncio.
«Dubito che abbia mai fatto ridere in primis. È una battuta terribile. Però concordo, Kay era molto più rispettabile prima. E poi è stato quasi divertente quando sei venuta a pregarmi di aiutarti a salvare la situazione. Ricordo la tua disperazione, le tue suppliche. Ero davvero l'unico a poter aiutarti» ricordò Keiichi, annuendo ai suoi ricordi sfalsati.
«Non è che sia andata proprio così» commentò la ragazza, ma l'uomo era ormai perso nei suoi pensieri. «Soffri di manie di protagonismo» bisbigliò, guardando fuori dalla finestra. Solo qualche anno prima il mondo era a colori. Quando si affacciava dal balconcino vedeva un mondo pieno di possibilità e gioia. I giorni passavano tra le chiacchiere e gli amici. Ora erano rimasti in pochi. Valeva la pena continuare a rimanere all'Accademia? Forse dovevano abbandonare la loro fiaba mai iniziata e trasferirsi altrove. Nel mondo vero.
«Okay, ma volendo andare via, dove andremmo?» aggiunse. Keiichi si fermò a pensare, rovistando nel cassetto. Era un tipo ordinato, lui. Invece Melody aveva mischiato tutte le loro cose, e ora trovare i suoi calzini era diventata un'impresa.
«Ti troverai un lavoro, ovviamente. E comprerai una casa. Un castello, preferibilmente» rispose il corvino, come se fosse una cosa scontata. Melody si accigliò.
«E tu?» domandò lei. «Baderai ai miei figli mentre io porto il pane in tavola?»
«Questa cosa sta iniziando a suonare un po' strana» borbottò, estraendo un paio di calzini, vincente.
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Fu uno scricchiolio appena percettibile a svegliarlo. Doveva essersi assopito sotto l'albero. Bowie si riaggiustò il cappello e, senza alzarsi, gettò un'occhiata al proprietario del balconcino. Rimase interdetto, confuso, abbagliato. Si era immaginato un orco, o una creatura orripilante. E invece affacciato alla ringhiera c'era quello che gli pareva essere una delle più belle creature mai create. Lo vide tamponarsi gli occhi lucidi. Avrebbe preferito ingoiare un proiettile piuttosto che vederlo struggersi così. Si fermò, preoccupato.
Non aveva mai provato una sensazione simile nel vedere qualcuno. Davanti agli occhi non aveva un principe da rapire, aveva un angelo. Balbettò qualcosa, troppo piano affinché qualcuno la udisse, poi si nascose nuovamente dietro il tronco, dibattendo il da farsi. Doveva parlargli, questo era certo, ma doveva anche portarlo via dal palazzo. Cercò di pensare ad Angel, ad Angelica, a Debbie, a tutti i suoi fratelli e zii e nipoti, ma nessuno di loro era abbastanza da sopprimere quei nuovi sentimenti. Si mise in piedi, spazzolò via la terra dai jeans, si sistemò i capelli e si fece avanti.
Jamil era poggiato con i gomiti alla ringhiera, perso nei suoi pensieri. Si era dato una sistemata, certo, ma non era bastata a cancellare l'orrore dell'incubo. Si morse il labbro inferiore, preoccupato. Significava qualcosa? Sarastro lo teneva in pugno, ma perché? Abbassò lo sguardo, confermando che le gambe fossero le sue e non quelle di Pamina. Nel farlo non poté che notare una presenza misteriosa nel giardino. Deglutì. Normalmente sarebbe corso da Sarastro per avvertirlo e per sapere cosa fare, ma non ne era più così sicuro. Sorrise gentilmente, imbarazzato.
«Mi dispiace, non ho potuto fare a meno di notarvi» esclamò Bowie, chinandosi. Si tolse il cappello. «Siete la cosa più bella che io abbia mai visto prima» aggiunse, controllando la reazione del principe con la coda dell'occhio.
Jamil si guardò attorno, confuso. Con chi stava parlando? Era l'unico sul balcone. La cosa gli parve assurda, quindi decise di chiarire. «Dici a me?» domandò piano, ancora disabituato alla sua voce. Notò con sollievo che era la sua, e non quella della principessa della notte.
«Con chi altro, se no?» rispose il cowboy, perplesso. Se si fosse svegliato incantevole come quello sconosciuto, ne sarebbe stato consapevole. Doveva essere molto umile.
«Oh, grazie mille. Come...come siete finito qui?» biascicò il jinn, trattenendo l'impulso di correre via e urlare affondando la faccia in un cuscino. Gli parve irreale, assurdo quasi.
«Stavo viaggiando, sta calando la notte e ho pensato di chiedere ospitalità in questo palazzo. Non mi ero reso conto di quanto fosse impervia questa salita» fischiettò l'uomo, sperando di suonare abbastanza convincente.
«Oh, certo, è molto ripida. Io sono arrivato qui su un carro trainato da sei leoni...alati...» rispose Jamil, realizzando a metà frase che ciò che diceva non doveva essere molto plausibile al forestiero. Bowie alzò un sopracciglio, ma non si fece troppe domande.
«Posso avere l'onore di sapere con chi sto parlando?» domandò il cowboy, sfoderando tutta la sua eloquenza. Si chiese se stesse facendo una buona impressione. Non riusciva a concentrarsi quando quegli occhi magnetici si focalizzavano su di lui. A dir la verità, era rimasto così incantato dal suo sguardo da non averlo visto nella sua interezza. Abbassò lo sguardo, pentendosene immediatamente. Non riusciva a concepire come potesse sfuggirgli che il principe fosse praticamente nudo. Rimase a guardare le sue gambe, e nel momento in cui distolse lo sguardo il ragazzo doveva aver risposto, perché gli stava sorridendo, in attesa di una risposta.
«Temo di non aver sentito» balbettò. Jamil si coprì con un braccio, vagamente accigliato.
«Ho detto che mi chiamo Jamil. E voi?»
Bowie sentì il suo cuore spezzarsi. «Siete un principe?» domandò, piano. Il ragazzo dovette aver percepito il cambio di tono, perché il sorriso svanì nel nulla.
«Perché?» mormorò, inclinando il capo. Bowie poté giurare di aver visto le sue orecchie abbassarsi, come quelle di un cane bastonato.
«Ecco, vedi...vedete. Ascoltatemi bene. Sono stato mandato qui da una certa Domina Asteria, che temo conosciate, per rapirvi e portarvi da lei» ammise, piantando la punta dello stivale nel terreno. Non aveva mai provato vergogna per il suo lavoro come in quel momento.
«Capisco» commentò Jamil, gelido. «E perché me lo state dicendo?»
«Non posso farlo. Siete un angelo. Non avevo mai provato sentimenti simili per nessun altro prima, nemmeno per la mia famiglia. È...è successo prima nelle fiabe, no? Anche il cacciatore ha avuto pietà di Biancaneve, io, ecco...volevo...mettervi in guardia?» biascicò il cowboy, tentando di riguadagnarsi l'affetto del principe. L'unica risposta fu il rumore della porta che sbatteva. Di Jamil, nessuna traccia.
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«Temo proprio che arrestarlo sia l'ultima opzione. Se ha ucciso, come temo abbia già fatto in passato, lo condanneranno all'impiccagione» blaterò Arturo. Bucefalo sospirò. Erano ore che ascoltava lo stesso discorso, in continuazione.
«Se solo avessi qualche prova a suo carico per fare giustizia...ma che dico, fare giustizia significherebbe ucciderlo. Non posso farlo» esclamò l'uomo, scuotendo il capo, funerario. L'asino udì un nitrito e subito alzò la testa, incuriosito. Gli sembrava di averlo sentito prima.
«Magari è il cavallo di Bowie» aggiunse, entusiasta. «Dovremmo essere sulle sue tracce, allora»
Darling si stava abbeverando in un laghetto, con il manto bianco illuminato dalla luce del tramonto. Sebbene la gamma dei colori proposta dalla sua vista non fosse eccezionalmente dettagliata, Bucefalo fu sicuro di aver trovato la sua compagna. In un moto di ribellione disarcionò Arturo e corse da lei.
«Grazie» commentò lo sceriffo, di nuovo a terra.
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Non credeva di potersi abituare al suo volto, ma eccola là, di fronte al suo riflesso. Fortunatamente non si trovava davanti ad una semplice finestra, o un gioiello che potesse restituirle la sua immagine, ma al grandioso specchio parlante. Aveva passato tutto il giorno rinchiusa nella sua camera, con le tapparelle chiuse, le tende a coprirle. Ogni spiffero era stato tappato con fazzoletti e drappi, in modo che nessun raggio di sole potesse raggiungerla. Ancora non riusciva a credere che Jamil fosse riuscito a metterle i bastoni tra le ruote. Strinse i pugni fino a far sanguinare i palmi, poi si passò la lingua sui denti. Si schiarì la voce e accarezzò l'unica ciocca di capelli rimasta.
«Specchio, specchio delle mie brame... ma no, direi che siamo abbastanza in confidenza da poter saltare tutti questi spiacevoli convenevoli» commentò la donna, passando una mano sporca sulla superficie dello specchio che rabbrividì, per quanto un oggetto possa farlo.
«Sì?» domandò lui, guardandosi attorno. Non sapeva mai cosa aspettarsi da quella donna. Qualsiasi richiesta arrivava senza preavviso, ciascuna più crudele della precedente.
«Non preoccuparti, non ti chiederò nulla di troppo difficile. Voglio solo sapere come sta andando tra Jamil e il tipo che ho mandato a prenderlo» canticchiò giuliva. Stando ai suoi calcoli, se l'uomo non aveva trovato intoppi nel viaggio, e si era assicurata che non ne trovasse, doveva essere arrivato al palazzo di Sarastro.
«Bene. Molto bene» rispose lo Specchio, abbastanza preoccupato. Socchiuse gli occhi. «Per lui» aggiunse sottovoce. Non fu abbastanza discreto.
«Cosa intendi con "per lui"?» chiese civettuola la donna, guardandosi le unghie rimaste. Forse avrebbe dovuto pulirle.
«Potrebbe esserci stata una situazione imprevista, ma non del tutto...sconosciuta, ecco» ribatté lui, augurandosi di non finire sul pavimento in mille pezzi. A Pamina era successa la stessa identica cosa. L'uomo mandato a rapirla si era invaghito di lei, e alla fine l'aveva sposata. Sperò che non fosse una ferita aperta per Domina.
«Cosa intendi?!» strillò la regina, afferrando la cornice. «Parla e basta!» intimò, guardandolo dritto negli occhi. Lo Specchio si fece coraggio.
«L'uomo che hai mandato, Bowie, ha raggiunto il palazzo di Sarastro. È arrivato sotto la stanza di vostra sorella, in cui ora alloggia Jamil, e ha aspettato che si presentasse qualcuno. Fatto sta che ad uscire dal balcone è stato proprio Jamil, di cui si è innamorato a prima vista. Non solo non ha avuto il coraggio di rapirlo, ma ha anche confessato tutto» spiegò, attendendo la sua fine.
«Non posso crederci. Non è possibile. Come ha fatto ad innamorarsi di quel coso là? È possibile? Gli piacciono le bestie? Dovrebbe vedere me, innamorarsi di me ed obbedire a me» esclamò la donna, con le mani sulla testa. Girò su sé stessa.
«Mi spiace deluderla, ma a differenza sua Jamil ha ancora una faccia considerabile tale. E dieci dita. E tutti i capelli» mugugnò lo Specchio, questa volta sicuro di non poter essere sentito.
«Non importa. I sentimenti sono futili. Lo fa per salvare suo fratello. Manderò uno schiavo a dirgli che se non obbedirà ai miei ordini suo fratello morirà per mano mia» decise la regina, soddisfatta della sua decisione. Non avrebbe potuto rifiutare.
«Quale schiavo?» domandò lo Specchio, sorpreso. Domina rimase in silenzio. Diede un pugno al muro.
«Io lo odio. Lo odio, lo odio, lo odio. Perché mi sta facendo tutto questo?» domandò, intrecciando le mani, genuinamente confusa.
«Se non sbaglio l'hai torturato, poi gli hai rubato il fidanzato. Magari è un tipo permaloso» commentò lui. Rimase deluso dall'assenza di spalle. Avrebbe potuto alzarle e farle capire che non era particolarmente coinvolto nel suo desiderio di vendetta.
«Permaloso? Ha distrutto il mio regno, da cima a fondo. Ha interrotto i miei contatti con Seth. Ha ammaliato l'uomo che ho mandato a rapirlo. È più che permaloso. È diabolico. È il male incarnato» si lamentò la donna. Lo Specchio alzò gli occhi al cielo.
«Ma da che pulpito viene la predica...» si limitò a commentare. «Credo che tu possa comunque provare a comunicare con Seth. Si sarà spaventato solo perché non è abituato alla sua faccia»
«Deve presentarsi a questo Bowie e dirgli che non mi interessa dei suoi sentimenti verso quel mostro. Lo voglio qui, vivo. Mi serve. Voglio tornare bella. Devo tornare bella»
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Dario si rigirò nel sonno. Questa volta era candido, pulito. Gli parve di aver sognato solo un lenzuolo bianco, che coprisse l'intero paesaggio. Allungò il braccio verso il comodino, assicurandosi che la Lumaca fosse ancora lì, e che non avesse tentato la fuga durante la notte. Una candela era rimasta accesa. Fece per spegnerla con le dita, e le ombre della fiamma rivelarono la nuova forma della sua voglia: un cappio.
«Confortante» mormorò, poi si riaddormentò.
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Dunque Domina era sulle sue tracce. Ci aveva messo pochissimo a ricevere la notizia, e ancor meno ad organizzare la sua vendetta. Ma perché aveva mandato qualcuno a rapirlo, e non ad ucciderlo? Forse voleva torturarlo di suo pugno, e non lasciare che qualche sicario si prendesse il piacere di spellarlo. Uscì nuovamente sul balconcino, per assicurarsi che l'affascinante sconosciuto fosse sparito. Si poggiò alla ringhiera, ispirando l'aria pulita. Si sentì uno sciocco ad aver creduto, anche per un singolo attimo, alle avances di quello che sembrava un contadino. Si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. Se non altro lo aveva avvertito del pericolo imminente. E se anche quello fosse stato un trucco per fargli abbassare la guardia? O, magari, era stato un gesto genuino, come quello del cacciatore nei confronti di Biancaneve. Al pensiero che un uomo si prodigasse nei suoi confronti il suo cuore saltò un battito, e si sorprese a sorridere.
«Con chi stavi parlando?» domandò una voce sgradevolmente familiare. Il buon umore di Jamil svanì immediatamente, lasciando il posto ad un sentimento altrettanto spiacevole. Puntò i gomiti sulla ringhiera, poggiando le guance sui pugni stretti.
«Con...» mormorò in risposta, realizzando l'errore solo a metà frase. Tacque, nella futile speranza che l'uomo non se ne accorgesse. Sentì le dita ossute di Sarastro posarsi sulle sue spalle, raggiungere le clavicole. Trattenne un conato di vomito nel sentire il fiato caldo dell'uomo sul collo.
«Con?» lo esortò il sacerdote, afferrandogli i capelli per le radici, costringendolo a inclinare il capo e guardarlo negli occhi. Aveva gli occhi chiari, acquosi. Gli ricordarono l'occhio diverso di Bowie. Si coprì la bocca con una mano libero, davvero deciso a non vomitare. Sarastro non lo lasciò andare, in attesa di una risposta.
«Con nessuno» piagnucolò Jamil, trattenendo le lacrime. Il sacerdote gli asciugò gli occhi umidi con la mano libera. Aveva delle dita molto strane. Le unghie erano lunghe e spezzate. E adesso erano sulla sua faccia. Perché non poteva esserci Domina al posto suo? Le avrebbe fatto bene.
«Va bene» rispose l'uomo, lasciandolo andare all'improvviso, in modo da fargli sbattere la testa sulla ringhiera. Aspettò che il jinn si rialzasse, pronto a difendersi. Lo guardò asciugarsi il sangue dal naso e barcollare verso di lui. Rimase fermo, insicuro sul da farsi. Non sembrava volerlo colpire.
Jamil tirò su col naso, poi si gettò tra le braccia di Sarastro. Strizzò gli occhi, pronto ad un altro colpo. L'uomo gli accarezzò la schiena, piano. «Cos'ha lei che io non ho?» singhiozzò, affondando il viso nel petto dell'uomo.
«Cosa?» domandò Sarastro, confuso. «Di cosa stai parlando?» aggiunse, improvvisamente preso da un terrore esistenziale. La paura si sciolse in adrenalina, e per un breve secondo valutò di gettare il ragazzo dal balcone. Ma non c'era modo che sapesse quello che succedeva di notte, giusto?
«Di Pamina!» urlò il jinn, staccandosi da lui. Il sacerdote lo guardò dritto negli occhi. La scena era surreale, un dipinto, quasi. Riusciva solo a vedere solo il sangue, in qualsiasi stato esso fosse. La luce della luna si rifletteva sui capelli di Jamil, illuminandoli di una luce bluastra e malaticcia. Lo sguardo era così intenso e furioso di gelosia che l'uomo ebbe in dubbio che fosse un sogno.
«Pamina?» ripeté l'uomo, indietreggiando. Sorrise istericamente, insicuro sul da farsi. «Stai cercando di distrarmi dal fatto che puoi...puoi parlare di nuovo?» mormorò, sebbene fosse sicuro che la conversazione avesse preso ormai una piega diversa, dalla quale era impossibile tornare indietro.
«Cos'ha Pamina che io non ho» ripeté il ragazzo, fermo. «Se ami lei, perché mi tieni chiuso qua?»
«Perché Pamina è morta, Jamil» strillò l'uomo, prendendo per le spalle e scuotendolo violentemente, tentando di enfatizzare il bisogno che aveva di vederla, toccarla. «Non sono un mago abbastanza potente da riportarla indietro. Mi serve la tua magia» ammise, indietreggiando. Si prese il viso tra le mani. Aveva chiesto ad Apofi come fare, ma non era certo di riuscirsi. Era disposto ad accontentarsi di quelle notti fugaci.
Il ragazzo sbatté le ciglia, poi lo spinse a terra, con forza. Estrasse vincente il pugnale che il sacerdote portava sempre con sé. Sulla lama c'era incisa una scritta, la stessa del sogno.
«È dalle ombre che nasce la vita. L'oscurità è la culla del mondo. La notte è vostra madre» mormorò, passando il dito nell'incavo delle lettere. Sarastro si rialzò a fatica. Era chiaro che il pugnale fosse appartenuto a Pamina, Domina ne aveva uno identico.
«Non uccidermi» lo pregò ipocritamente il sacerdote. Non sarebbe morto per una ferita da taglio, ma forse era bene salvaguardare uno degli ultimi cimeli della donna che amava.
«Non voglio uccidere te» rispose tristemente Jamil, puntandosi la lama al petto.
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