01 ♰ Quello che gli uomini non dicono
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La notte, culla dell'umanità, illuminava il deserto con lattiginosi raggi lunari, trasformando l'infinita distesa sabbiosa in un fondale marino inesplorato, sommerso dalla flebile luce biancastra. Quel lembo di terra mai reclamato, un tempo furioso e bollente, offriva le sue ormai gelide sabbie come comodo giaciglio per i viaggiatori, colto infine anche lui dalla solitudine. Nessuno si era mai degnato di dargli un nome, ma Bowie, nelle sue lunghe nottate di viaggio, l'aveva definito "fine del mondo". Era difficile per lui trovare un nome più appropriato a quel pezzo di strada. Perfetto confine naturale tra il regno delle fiabe e il suo paese natale, sanciva la fine del suo mondo conosciuto. Guardare i lumini accesi delle città lontane, mai dormienti, lo faceva rabbrividire. Immaginava che di lì a pochi giorni si sarebbe trovato lì, e avrebbe condotto una vita completamente diversa. Ispirò l'aria fresca, socchiudendo gli occhi e soffocando l'adrenalina. Nelle ore di cammino che lo separavano dal Regno del Sole, sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa.
Darling piantò gli zoccoli nel terreno, disarcionando immediatamente il suo cavaliere. Un po' ammaccato, Bowie rimase a mollo nella sabbia, cercando a tentoni il suo proverbiale cappello. Una volta recuperato, si rimise in piedi, furioso.
«Devi smetterla di fare così. Un giorno potrei fare una brutta fine, e ti sfido a trovare qualcuno con la mia pazienza!» esclamò il cowboy, aggrottando le sopracciglia. «Avresti potuto semplicemente farmi sapere che ti sentivi stanca. Quando morirò, non ci sarà nessuno a darti zollette di zucchero, Darling»
Una volta concluso il discorso, Bowie abbassò lo sguardo, aspettandosi da parte della compagna di viaggio se non rimorso, almeno un certo pentimento. L'animale si limitò a sdraiarsi, per nulla toccato dal commovente rimprovero del padrone. Il cowboy si limitò a sbuffare, poi si mise a sedere anche lui, concedendosi qualche instante prima di preoccuparsi di dover accendere un falò.
«Non rimanere sdraiata troppo a lungo» aggiunse borbottando, ma Darling era ormai profondamente addormentata. Sapeva che per svegliarla sarebbe stato sufficiente socchiudere gli occhi, cosicché, spinta dal desiderio di infastidirlo, si sarebbe alzata per togliergli il cappello. Non sentiva abbastanza freddo per giustificare la fatica di trovare legna; estrasse quindi un taccuino e si ripropose di disegnare l'animale addormentato. Prima che la matita potesse tracciare alcuna linea, estrasse dal taschino un paio di occhiali da vista e li indossò, sprofondando in un profondo imbarazzo. Tento di scrollarselo di dosso ritraendo Darling, convincendosi che fosse meglio rimanere all'erta, e questo includeva vedere il terreno attorno a lui. Sospirò scocciato quando il disegno non venne come desiderava, e decise che avrebbe fatto meglio a dormire.
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«Qualcuno ha bussato» strillò Diamond, correndo verso l'unico adulto nei paraggi. Oliver, secondogenito della famiglia Young, nonché unico uomo con un barlume di buon senso, si guardò attorno, sperando che qualcuno dei ragazzi sparsi per la casa prendesse iniziativa e aprisse la porta. Quando nessuno di loro alzò un dito sospirò rumorosamente, poi si mise in piedi e si diresse verso l'ingresso a grandi passi. Prima che potesse aprire, uno dei bambini entrò dalla finestra, senza fiato.
«È lo sceriffo! Secondo me hanno arrestato Bowie! Adesso lo impiccano! Sono sicuro!» strillò, e qualcuno dei cugini sollevò il capo, preoccupato. Guardarono il più grande, ma l'uomo scosse la testa in disappunto.
«Smettila di dire sciocchezze» commentò solamente, e il tono fu abbastanza serio da far desistere il ragazzo dalla sua campagna di diffamazione del cugino. Aprì la porta, ma prima ancora di poter vedere il volto dello sceriffo si trovò dinnanzi un'enorme pianta grassa. Sorrise, rasserenato.
«Oh, perdonami, Oliver. Pensavo che sarebbe venuta ad aprirmi la signora di casa. Le ho portato questa bellissima pianta. Non ha bisogno di molto, ma ho immaginato che potesse stare molto bene nel vostro salotto. È anche molto resistente. I bambini non potrebbero distruggerla neanche volendo. Ho anche cucito una bambola di pezza per Ally, ma non avevo più stoffa rosa, quindi è tutta blu. Spero comprenda» attaccò immediatamente l'uomo.
«Sono sicuro che apprezzeranno. Prego, Arthur, entra pure. I ragazzi credevano che tu fossi venuto per far arrestare Bowie» ribatté il più alto, tenendo aperto la porta per lo sceriffo, che fece il suo ingresso senza troppi complimenti. Si guardò un po'attorno, poi posizionò la pianta dove credeva potesse star meglio. Si strofinò le mani, pulendosele del terriccio rimasto attaccato al vaso. L'ospite fece per andare in cucina e prendere qualche biscotto, ma rimase bloccato sul posto nell'udire la risposta.
«Oh, non si sbagliavano. L'ho visto ieri sera al saloon, poi è scappato via. Ho ragione di credere che oltre ad aver pestato le mie piante, abbia commesso altri crimini. Perciò sono venuto ad avvertirvi che andrò a catturarlo» esclamò gioiosamente Arturo, mettendosi le mani sui fianchi. I più piccoli si guardarono, eccitati. Oliver inarcò un sopracciglio, per niente sorpreso dalla natura di furfante del fratello.
«I presupposti ci sono sempre stati» commentò, scuotendo la testa. «Me lo ricordo benissimo. Rapiva le bambole di Minnie e Mery e le legava alle rotaie dei trenini. I miei trenini» borbottò, poi mise una mano sulla spalla dello sceriffo, facendogli cenno di aspettare un attimo. L'uomo rimase là impalato, mentre Oliver andava a cercare qualcosa nelle camere più interne della casa. I bambini lo guardarono incuriositi.
«Se lo prendi lo impicchi?» domandarono. L'eccitazione dell'esecuzione svanì immediatamente al pensiero che la vittima potesse essere il loro amato cugino. «Angel ci rimarrà malissimo» aggiunse gualche bimba, cercando di intenerire lo sceriffo.
«Dipende da quello che ha fatto. Le mie sono solo supposizioni» ammise Arturo. Non aveva realmente ragione di inseguire Bowie, ma la sua bellissima buganvillea sembrava non riprendersi più dall'affronto subito anni prima, ed aveva intenzione di vendicarla. Il fratello del ricercato riemerse quasi immediatamente, con un paio di fascicoletti colorati tra le mani.
«Ha dimenticato qui gli ultimi due volumi di Ranch Romances. Ti dispiace riportarglieli? Visto che nemmeno sa leggere, potrebbe evitare di sprecare quindici centesimi a fumetto. A meno che non li rubi, ovviamente» mormorò, mettendoglieli in mano. Lo sceriffo li sfogliò allegramente, ignorando la faccia sconcertata dell'altro.
«Oh, questo mi manca! Lo leggerò lungo il tragitto» esclamò, sorridente. «Bene. Allora io vado. Tanti auguri a tutti. Oliver, salutami tua moglie e il piccolo Andy. Ora vado, Bucefalo mi aspetta»
I presenti lo seguirono con lo sguardo, tutti in gravoso silenzio.
«Perché cavalchi un asino e non un cavallo?» domandò una bambina. «I cavalli sono più veloci»
«E gli asini più forti. Non credere che tuo fratello sia un peso piuma. E poi un temibile ladro mi ha rapito il cavallo, perciò...»
Un bimbo si avvicinò all'altro. «Sono stato io» sussurrò. «Sono io il ladro di cavalli»
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Posò la testa sul braccio, nascondendo il viso nell'incavo del gomito. Normalmente avrebbe sentito il rumore del suo respiro, ma tutto taceva. Abbassò lo sguardo, contemplando il paesaggio sotto di lui. Gettò un'occhiata nella direzione del bosco di acacie, alla ricerca di templi nascosti. Era un'attività che solitamente lo intratteneva solo per qualche minuto: dopodiché provava un certo magone per tutti i luoghi che non avrebbe mai visitato, e distoglieva lo sguardo, annoiato. Si rimise dritto, poi si sporse dalla ringhiera, in punta di piedi. In lontananza, gli alberi cedevano il passo ad un terreno aspro, giallastro. Jamil si domandò chi mai fosse capace di vivere in un luogo così scabro ed ameno, e si rattristò immediatamente. Ed infine, proprio quando i suoi occhi non gli consentivano di indagare più a fondo, il brullo terreno mutava nella dorata sabbia del deserto. Improvvisamente preso da vertigini, il principe fece qualche passo indietro, salvo pestare la coda dell'odiosissima gatta di Sarastro, Fajr. Attirato dal piagnisteo della bestiola, Sarastro si precipitò su per le scale. Il principe, infastidito dal pelo della gatta, prese a starnutire incontrollabilmente, tentando in qualche modo di allontanarsi da lei. La gatta prese a strofinarsi contro le sue caviglie, causandogli una dolorosa orticaria. Immediatamente Jamil si portò le mani al collo del piede, cercando in qualche modo di placare il fastidio. Entrambi drizzarono le orecchie nell'udire il suono della chiave che girava nella serratura. All'idea di venir nuovamente punito per la poca furbizia di Fajr, Jamil decise di fuggire, almeno per una serata.
Prese dunque le sembianze di un pappagallino e volò via. Sentì i passi di Sarastro, le sue continue domande alla gatta, il rumore delle sue fusa. Al ritorno, si farebbe fatto coprire dai tre genietti.
Mentre sorvolava i templi che poco prima aveva ammirato da lontano, pensò a quanto fossero stupide le sue preoccupazioni. Si posò su un ramo, ispirando l'aria fredda e carica di sabbia. Da quel punto poteva ammirare il vastissimo deserto che lo separava dal resto del mondo. In quel momento si rese conto di una cosa così ovvia da sembrare buffa. Se in una direzione c'era Agrabah, cosa c'era dall'altra? Riprese le sue sembianze, desideroso di mettersi in piedi e spiare cosa poteva nascondersi dietro quel mare dorato. Ma la pigrizia ebbe la meglio, e decise di rimanere seduto, dondolando le gambe. Sospirò, felice. Se Sarastro non avesse tenuto prigioniera la sua voce, in quel momento avrebbe spiccato il volo e sarebbe ritornato di buon grado all'Accademia. Abbassò lo sguardo, in parte annoiato dal paesaggio sempre uguale. Nascosto dalle fronde degli alberi, vi era un piccolo altarino di pietra. Incuriosito, scese dall'albero, con l'intento di esplorare la costruzione abbandonata. Era piuttosto sicuro che sotto tutti quei rovi dovesse esserci un nome, magari quello del dio che veniva adorato. A giudicare dalle condizioni e dalla quantità di muschio cresciuta sulle pietre, giudicò che dovesse trattarsi di un altare molto antico, antecedente a quelli dove si recava Sarastro. L'unica cosa rimasta immacolata era un candido pavimento di marmo. Era quello ad aver attirato la sua attenzione. Un albero era perfino cresciuto tra un mattone e l'altro, e sovrastava l'intera struttura, imponente. Tese le orecchie, improvvisamente turbato da uno strano fruscio.
«Ci reincontriamo» proclamò una voce suadente, dalla cadenza serpentina. Jamil si arrovellò a cercare di capire chi mai potesse essere, e se stesse parlando con lui. Solo in quell'attimo ricordò l'enorme serpente che l'aveva spinto verso il castello di Sarastro. Dunque Tamino non l'aveva veramente ucciso. Rabbrividì nel ricordare le enormi fauci spalancate della bestia. Incapace di comunicare qualsiasi dubbio, il ragazzo si limitò a piegare leggermente il capo con aria interrogativa. La domanda che voleva far trasparire era una sola: chi sei?
«Io sono colui che cinge il mondo» rispose la voce. «Io sono Apofi, dio del Chaos, del male e delle tenebre. E tu sei Jamil, il principe dei jinn, adepto del culto del Sole»
Prima che il ragazzo potesse protestare, contestando l'ultima frase, il dio fece schioccare la lingua contro il palato, ottenendo un suono stranamente umano. «O meglio, non ancora. Sembra davvero che tu non riesca a superare la prova del silenzio, nonostante tu sia muto» commentò la serpe, derisoria. Il terrore che Jamil aveva provato fino a quel momento defluì in un vago broncio.
«Oh, ti prego, non offenderti. Amo scherzare» rise Apofi. «Sono segregato in questa foresta da millenni, il minimo che potresti fare è sorridere alle mie battute» sospirò, scendendo dal ramo per avvolgersi al braccio di Jamil, che a quel punto non lo rifiutò. Sebbene avesse spesso avuto a che fare con serpi e rettili, notò con piacere che le squame del dio avevano la stessa morbidezza del velluto. Sorrise leggermente, ma solo perché gli solleticavano la pelle. La tenerezza del momento svanì immediatamente, rimpiazzata da un clima gelido, misteriosamente calato su di loro come la prima neve.
«Domani, tu compirai la mia vendetta» proclamò il dio, improvvisamente serio. «Siamo vittime delle stesse persone: Domina Asteria e Astrifiammante, le illegittime sovrane del Regno della Notte. Per millenni prima di loro, i governanti della Luna hanno adorato me, ma mai abbastanza da interrompere il rituale maligno congiurato da Ra nei miei confronti. Era pur sempre qualcosa. Ma Astrifiammante, maledetta regina dal cuore corrotto, ha trovato più conveniente cercare la protezione di Seth, dio della violenza. Quello che le sciocche non hanno considerato è che io ed io solo posso garantire loro l'eterna notte e che Seth, per quanto adulato possa essere, rimarrà il misero servitore di Ra. Non si rivolterà mai verso il suo padrone, possa Domina Asteria bruciare parte del suo pranzo per il resto della sua vita!»
Improvvisamente interessato, Jamil spalancò gli occhi, con una smorfia incuriosita. La testa del serpente era vicina al suo orecchio, e ogni sibilo dell'animale lo faceva rabbrividire. Era un momento stranamente intimo, ma non se ne sentì completamente disgustato. Capì cosa s'intendeva con "fascinazione del male".
«Spezzare un cuore è un delitto altrettanto ignobile. Corrompere un uomo per soddisfare la propria lussuria è un crimine oltremodo disgustoso. Per tentare di ottenere cosa, poi? Soldi, immortalità, piacere? Tutto questo le sarebbe stato garantito nell'Aldilà, se solo si fosse comportata bene» aggiunse Apofi. Il principe si rese conto che il dio gli stava dicendo esattamente quello che avrebbe voluto sentirsi dire, ma gli piacquero le lusinghe, e rimase sorridente. Dedusse di essere caduto nelle grinfie del potere ipnotico delle serpi, ma non poté dire di non esserselo meritato.
«Non hai nulla da perdere, caro Jamil. Impedisci che domani prenda luogo la Messa al Bando del Chaos, ed io ti mostrerò la mia riconoscenza in modi che non puoi nemmeno immaginare» sussurrò, e questa volta la voce provenne proprio dalla bocca del serpente. Sorpreso, il jinn sussultò, cercando in parte di sottrarsi allo strano contatto. Percepito il disagio, l'animale assunse sembianze umane. Jamil, preso alla sprovvista, si allontanò di qualche metro, senza fuggire. Era pur sempre curioso di osservare Apofi. Il dio indossava una gonna di lino, coperta da una maglia di minuscoli anelli d'oro. Il petto era scoperto, ma adornato da squame verdi che risalivano lateralmente dai fianchi alle braccia, completamente coperte. Aveva un pesante girocollo d'oro, decorato con linee rosse e blu, che percorrevano le curve del gioiello. Non indossava né bracciali né cavigliere. Lunghi capelli neri sfuggivano dalla Pschent, la Corona Doppia, solitamente indossata da Seth, usata come copricapo in chiaro segno di disprezzo del dio. Rigirava tra le mani una croce ansata, che fissava morbosamente. Quando sollevò lo sguardo per incontrare quello di Jamil, il jinn immediatamente si voltò altrove. Il gesto non era stato dettato dal desiderio di rispettare il dio, quanto dall'improvvisa voglia di sfuggire da quell'incontro sfortunato. Rimpianse immediatamente le crudeli paternali di Sarastro, e desiderò averne supplicato il perdono.
«Desidero farti un dono, pegno della mia fiducia» proclamò Apofi, sollevando un arco dipinto, apparso magicamente tra le sue mani. Prima di poter anche solo realizzare lo schiocco della corda tesa,
Jamil cadde in ginocchio, trafitto dalla freccia. Sfiorò con il dorso della mano il gelido pavimento di marmo, lasciando che il luminoso colore della pietra gli ferisse la retina. Gli parve di essersi disteso in un mare di latte, illuminato solo dalla flebile luce emessa dal dio. Inarcò la schiena e distese il capo, convinto di potersi puntellare sulla freccia che lo aveva trafitto da parte a parte. Chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime gli inumidissero la fronte e scivolassero fino all'attaccatura dei capelli. Udì, gioioso come il suono delle campane, il tintinnio dei suoi orecchini. Rimase inerte, finché il tenero tepore del sangue sgorgante dalla ferita non lo rasserenò, ed ebbe l'impressione che quel dolce calore si espandesse in tutto il corpo, conducendo la sua mente nei momenti più disparati, illudendolo di essere in mille luoghi diversi contemporaneamente. Gli parve di essere sotto il sole cocente del meriggio, quando la calura rendeva impossibile ogni pensiero e la mente prendeva le forme di una candida tela bianca, incapace di produrre alcun'immagine. Il freddo del marmo lo riportava alle lunghissime estati trascorse assieme alle sue zie, spese sdraiate sul pavimento di legno ruvido e pieno di schegge, quando l'unico sollievo per l'insopportabile caldo era avvinghiarsi attorno alla vasca di porcellana, attendendo impazientemente la sera per potersi immergere nell'acqua fresca. Ansimò, tastandosi il petto alla ricerca della freccia, ma questa si era ormai disciolta in fumo dorato. La pelle era ancora calda, e fu sorpreso di non trovare alcuna ferita. Si sdraiò su un fianco, tenendosi su con l'aiuto del gomito. Apofi aveva ripreso le sue sembianze serpentine.
«Impedisci che domani prenda luogo la Messa al Bando del Chaos, ed io ti ricompenserò» proclamò il dio. Come al solito, la bocca della serpe non si mosse, ma la sua voce rimbombò nel templio, scuotendo le pareti. Nonostante la potenza con cui Apofi pronunciava ogni parola, Jamil era sicuro di essere l'unico a poter sentirlo. Questa piccola attenzione gli riscaldò il cuore, e alzò lo sguardo con occhi adoranti, domandandosi cosa fosse necessario per ricreare nuovamente quella sensazione.
«Un giorno verrai salvato da Sarastro. Ma fino a quel momento, a proteggerti saranno solo in due: la tua mente e il tuo corpo» commentò gelidamente il dio, anticipando i suoi dubbi. «Domani, prima che i sacerdoti diano fuoco alla mia effigie, offri a Ra e Seth delle bevande. Questo è tutto ciò che ti chiedo» concluse, guardandolo negli occhi. Jamil distolse lo sguardo, ricordando le pupille verticali che conferivano a Khalil quell'aspetto serpentino. Si domandò se fosse davvero così semplice fermare un rito propiziatorio di tale importanza. Annuì piano, incapace di rivolgere nuovamente lo sguardo ad Apofi. La deliziosa estasi provata qualche attimo prima era stata ormai rimpiazzata da uno spiacevole magone, e il principe rabbrividì all'idea di dover tornare dal sacerdote che lo teneva prigioniero.
«Fatti forza» lo incitò amorevolmente il dio, girandogli attorno. «Non sarà per sempre. Condividiamo lo stesso affronto da parte della Regina della Notte, e vedrai, non passerà impunito» lo rincuorò ancora, avvolgendolo nelle sue spire. Jamil chiuse gli occhi, e quando li riaprì scoprì con sorpresa di trovarsi all'interno della sua stanza. Si guardò attorno, ma il dio era sparito. Solo un flebile suono di passi segnava ancora la sua presenza. I tre genietti irruppero nella camera, con spazzole e stoffe pregiate tra le mani. Il rumore piatto e secco dei sandali di cuoio si fece sempre più distante, e il giovane capì che il suo incontro con il dio si era concluso.
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Aveva desiderato che succedesse qualcosa, e il suo desiderio era stato esaudito nel peggiore dei modi.
«Shinju dice di essere incinta, ma non è possibile! Dario, devi credermi. Il mio cuore non batte più, il mio sangue è stagnante...nemmeno mi si alza, come faccio ad averla ingravidata?» borbottò Khalil, enfatizzando come suo solito ogni parola. Il castano tacque, pensieroso. L'idea di doversi prendere cura anche di un neonato lo turbava, ma d'altronde non aveva alcuna ragione per non credere al principe. Quello che diceva era vero: il suo sangue era stagnante. Gli aveva anche, con molto imbarazzo, poggiato l'orecchio sul petto per sentire il battito. Si augurò di non diventare anche lui bersaglio dell'ira di Jamil. C'era poco spazio per delle ipotesi.
«Non puoi spiegarlo a lei come l'hai spiegato a me?» domandò, alquanto seccato. Non trovava Khalil inerentemente cattivo, ma il suo atteggiamento era oltremodo fastidioso. Quello che un tempo poteva essere considerato gaio entusiasmo era mutato in insopportabile appiccicume. Se non altro aveva perso l'abitudine di toccare, accarezzare ed intrecciare capelli altrui.
«Crede che io sia semplicemente incredulo. E la cosa spaventosa è che ha veramente il ventre gonfio. Ti dico la verità, Dario, se torno da lei mi convincerò anche io che sia veramente in dolce attesa» commentò l'uomo, sconsolato. «Non la posso nemmeno più vedere. Preferivo Domina» bisbigliò, senza intenderlo davvero. In qualche modo apprezzava di più essere la marionetta che il marionettista. E poi l'amore della Regina della Notte era diverso da tutti gli altri sentimenti romantici. Il suo era speciale, era importante. Domina era importante. Tutti gli altri erano semplicemente meno di lei. Non lo pensava con malizia, ne era genuinamente convinto, come tutti gli altri studenti dell'Accademia. Nemmeno deturparle il viso era servito a trasformarla nella brutta strega che voleva che fosse. Adesso sfuggivano tutti da lei, disgustati dal suo aspetto, ma bastava che lei aprisse la bocca una volta sola per trasformarsi in una saggia donna, fonte di consigli. Lo sapeva perché Ryuu era già caduto nella trappola. Scosse la testa.
«Mi fa proprio senso» aggiunse, debolmente.
«Lasciala» rispose fermamente Dario, che stava iniziando a provare lo stesso sentimento nei confronti dell'uomo.
«È quello che farò» risolse Khalil, posando la testa sulle ginocchia. «Mi sembra di vivere un incubo. Fa tutto schifo, ed è tutto così stagnante. Avrei dovuto farlo molto prima, ma credo proprio che andrò a cercare Jamil. Chissà che fine ha fatto» mormorò, indeciso. Si domandò se lo pensasse davvero o se stesse semplicemente sputando frasi di circostanza una dopo l'altra.
«Scommetto che sarà felicissimo di vederti» commentò sarcasticamente l'altro, sollevando un sopracciglio. «Occupati prima del tuo ipotetico figlio. Dopo nove mesi non si accettano più resi. Farete meglio a chiarire la cosa il prima possibile»
«Hai ragione. Ma se Jamil fosse in pericolo?» chiese, tentando di sviare il discorso. «Magari è chiuso in qualche segreta, in attesa di essere salvato. E poi non sa niente di me e Domina. E di me e Shinju. E di me e del bambino. Perché stiamo assumendo che sia un maschio? Magari è una femminuccia»
«Certo che sa di te e Domina. Ha anche discusso con tua madre. Vuole ammazzarti» riassunse sinteticamente Dario, cercando di indurre nel principe un barlume di buon senso.
«Gliel'hai detto tu?!» strillò Khalil, alzandosi in piedi. L'altro non poté a meno di paragonarlo ad un serpente che scatta per intimorire la sua preda. «Perché?! Avremmo dovuto parlarne con calma, gliel'avrei spiegato normalmente. Adesso lui penserà di farmi schifo, magari inizierà a seguire qualche dieta drastica che solo lui conosce o che ne so, tenterà di andare a letto con un uomo anziano. Non la prenderà bene»
Non trovò la sfuriata del principe totalmente irrealistica. «In primis, non sono stato io a dirglielo, ma Keiichi. Quindi se vuoi fare la paternale a qualcuno, falla a lui. Ammesso che tu riesca a scollarlo dalla sua Melody». Le ultime parole furono pronunciate con una smorfia. «E, seconda cosa, Jamil non è il tipo da sedurre un anziano. Non è nemmeno riuscito a sedurre te, a quanto pare. Ma poi che schifo, Khalil! Perché mi fai immaginare queste cose?» si lamentò l'uomo. «E anziché condividere queste tue paranoie con me, non puoi semplicemente andare da Shinju e dirle che non sei l'uomo che cerca?»
«Non riuscirei, perché l'unica cosa che mi verrebbe da dirle è che mi fa schifo» borbottò il castano. Improvvisi singulti interruppero il discorso. Khalil si allungò verso la porta, solo per trovarci una distrutta Shinju accovacciata. Mentre singhiozzava, si teneva il ventre. Il principe fu sicuro di aver visto un bel paio di gambe di donna svoltare l'angolo. Improvvisamente la faccenda si fece chiara.
«Questo è peggio di quello che pensassi!» strillò la principessa. «Tu non mi tradisci, tu mi odi! Cosa sono per te, solo un'incubatrice? Mi metti incinta e fuggi?» domandò tra le lacrime la ragazza. Solitamente molto empatico, Dario dovette trattenere qualche risolino.
«Per l'ennesima volta, Shinju! Tu non sei incinta! Non c'è nessun bambino, te lo stai sognando! Cielo, se avessi fatto sesso con te me lo ricorderei!» urlò di rimando Khalil, prendendola fermamente per le spalle ed impedendole di colpire la testa contro la porta.
«Ma il mio bambino...» pigolò ancora la donna, poi decise di assumere un contegno dignitoso. Si rimise in piedi, scrollandosi di dosso le mani del principe. «Ebbene, quando nascerà saprai che non mi sbagliavo!» esclamò, improvvisamente ferma sulla sua decisione.
«Quando partorirai cosa, le illusioni che ti ha messo Domina in quella testolina vuota che ti ritrovi? Ci sono delle piccole, adorabili condizioni che devono accadere per rimanere gravide, e non ce n'è stata nemmeno una!». Dario non si trattenne e rise, con conseguente occhiata diabolica da parte della principessina. Khalil si limitò ad una smorfia, nemmeno troppo scocciato.
«E va bene, allora ti lascio! Troverò il mio uomo» concluse la bionda, sollevando il mento.
«Buona fortuna a trovare qualcuno che ti segua anche in bagno. E, per inciso, ti sto lasciando io!» strepitò il principe, spingendola via e chiudendosi la porta alle spalle. «Problema risolto» sospirò, poggiando le spalle contro la parete. Quando alzò lo sguardo, notò Dario steso di traverso sul suo letto, profondamente addormentato. Stupito dall'improvvisa botta di sonno, si limitò a mettergli addosso una copertina ed uscire silenziosamente, pronto ad inseguire la principessa.
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Solitamente l'ambiente in cui si incontravano era diverso. La Fata Turchina si faceva trovare su una comoda sedia a dondolo, lui si risvegliava seduto su una poltroncina di velluto blu, in mezzo al loro c'era un bel tavolino di mogano con thè e dolci. Questa volta, oltre all'essere stato richiamato al sonno senza alcun preavviso, erano entrambi seduti in quella che, ad un primo sguardo, pareva essere una grotta. Dario osservò silenziosamente la madre e i suoi lunghissimi capelli turchini. Li ricordava puliti e vaporosi, ma in quel momento erano unti e appiccicati alla fronte. Anche i begli abiti che indossava solitamente erano spariti, rimpiazzati da un sacco di iuta. Alla caviglia aveva un grosso anello d'argento, presumibilmente parte di una catena spezzata. Perfino la sua bacchetta magica pareva chiedere pietà. Prima che potesse chiederle qualcosa, la Fata Turchina sbottò.
«Bambino mio bello, per caso il tuo caro amichetto blu Jamil è all'Accademia con te?» chiese. Nonostante il tono dolce e flautato, la donna digrignava ardentemente i denti.
«Vi conoscete?» domandò Dario, preoccupato.
«Ma certo! Io sono blu, lui è blu. È naturale» esclamò, calcando la "u" per troppo tempo. Il ragazzo sospirò, senza nemmeno premurarsi di nascondere il fastidio. A quanto pareva, il mondo non ruotava attorno al Sole, ma attorno ad un jinn di un metro e cinquanta. «Rispondimi» lo sollecitò la donna, con quello che credeva essere un richiamo gentile, ma che la fece sembrare una completa sciroccata.
«No. E non so dove sia. Comunque io sto bene» commentò burberamente Dario. «Grazie per averlo chiesto, mamma»
«Chiamami pure Allegra, tesoro. Ormai sei grande! Non hai più bisogno di qualcuno da chiamare mamma. Vedi, la ragione per cui in questo ultimo anno non sono stata presente, è che il tuo caro amichetto genio mi ha venduto come schiava» ammise. L'uomo sbatté le ciglia. Negli ultimi giorni aveva sentito di tutto e di più sull'amico, ma questa gli mancava. Tutto d'un tratto non gli fu più difficile immaginarlo a sedurre un vecchio.
«Prego?» disse solamente, con sguardo vacuo. Che tipo di schiava, poi?
«Oh, è stato terribile. Assolutamente terribile. Vedi, ero nel regno dei jinn, in un negozio di ingredienti magici. Sai che io non frequento questo genere di luoghi, ma un bimbo tanto, tanto malato aveva bisogno di una piuma di fenice. Dunque, entro in questa bottega e sento una vocina fastidiosa. Era Jamil, che mi ha subito additata come tua madre. Mi ha chiamato madre spregevole, mi ha accusato di non amarti...oh, è stato terribile. Cosa gli hai detto su di me per averglielo fatto pensare?» domandò Allegra, con occhi lucidi. Dario si limitò a guardare il suo riflesso nelle lacrime.
«Niente di che...» mormorò, ma pensò tristemente a tutte le volte che si era confidato con l'amico.
«Oh, ma non sono arrabbiata con te. Ci mancherebbe. Il mio povero pulcino. Dicevo...quando mi ha visto ha fatto di tutto per farmi notare dalla viscida proprietaria del negozio. Naturalmente nel vedere una fata si è meravigliata, e ha deciso che mi avrebbe usata come schiava. Ha anche tentato di prendermi i capelli per farci pozioni! Jamil è scappato a gambe levate dopo la marachella. Non me la sento nemmeno di arrabbiarmi con lui, povero caro. È ancora un bambino. Quanti anni vi passate, poi? Tu sei molto più grande di lui!» esclamò la fata.
«Due giorni» commentò il ragazzo. Tutte le volte che si era addormentato e non aveva trovato sua madre a confortarlo, a ricordargli che tutto quel dolore un giorno gli sarebbe stato utile, a rincuorarlo e a spingerlo nella giusta direzione, non erano state colpa sua. Si era sempre comportato come doveva, solo per venire abbandonato due volte. Si era lasciato andare, perdendo il suo più grande dono, per colpa di Jamil? Improvvisamente capì il desiderio comune di volerlo vedere morto. Tutte le fatiche che si sobbarcava per gli altri non erano mai state inutili, sua madre era semplicemente stata impossibilitata a vederlo. E gli voleva bene. L'aveva fatto addormentare di proposito, solo per potergli parlare il prima possibile. Sembrava addirittura appena sfuggita dalle grinfie della jinna. Gli bruciavano gli occhi per la vergogna. Come aveva potuto anche solo pensare che la Fata Turchina, sua madre, abbandonasse un bambino, il suo bambino, senza ragione alcuna. La bontà non veniva mai sprecata. Le sue buone azioni confluivano nell'amore di sua madre, che un giorno gli sarebbe ritornato indietro. Ne era assolutamente sicuro. Sua madre era la persona più buona dell'universo.
«Hm?» domandò Allegra, confusa.
«Ci passiamo due giorni» chiarì Dario, con lo sguardo vacuo.
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Nella loro personalissima bolla di pace, Keiichi e Melody si godevano la presenza l'uno dell'altra, sdraiati ognuno sul proprio letto.
«Dovremo fare un figlio, ad un certo punto. Voglio un erede» proclamò il corvino, senza nemmeno distogliere lo sguardo dal muro. «Ho già scelto il nome»
«Per me potremmo farlo anche ora» ribatté tranquillamente la ragazza. «Ma non sono sicura che sia un maschio. Credo che sia un calendario per queste cose»
«Mi sembra logico che io non lo voglia in questo preciso istante. Piuttosto, hai sentito la nuova? Shinju aspetta un bambino, e il padre è Khalil» squittì il principe, osservando la reazione di Melody con la coda dell'occhio. Si aspettava una sorta di disgusto, invece la vide sospirare e mettere le braccia dietro la testa.
«Ci hanno battuto sul tempo...» mormorò, genuinamente scocciata al pensiero di vedere Khalil padre prima di lei. «Ma ne sei proprio sicuro? Ti ricordo che Khal è un vampiro, quindi tecnicamente non può avere figli»
«Ti dico di sì! Se non ti fidi del tuo futuro marito, di chi mai potrai fidarti? E poi adesso si fa chiamare Haidar. Rispetta le sue scelte» ribatté il corvino, seriamente infastidito dalla mancanza di fiducia che la ragazza riponeva in lui. Melody gli tirò un cuscino.
«Ma se tu stesso l'hai chiamato Khalil un attimo fa!» rispose la giovane, scuotendo la testa. Il principe si tolse il cuscino di dosso, valutando come reagire. Non ce ne fu bisogno, perché delle urla isteriche li attirarono entrambi fuori dalla camera, ancora in pigiama. Si guardarono, tacitamente ritornati in pace, poi si concentrarono sulla sfilata di Shinju, inseguita dall'oggetto della loro litigata.
«Ti dico che aspetto un bambino! Che ne sai tu del mio corpo! Guarda, ho il ventre gonfio. Cosa potrebbe essere mai se non un bimbo?» ululò la fanciulla, pronta ad attaccare il suo ormai ex fidanzato. «E poi hai detto che mi avresti lasciato, quindi farai meglio a lasciarmi in pace!»
«Potrebbe essere qualsiasi cosa, da un'intossicazione alimentare ad una colite spastica! Shinju, se sei realmente incinta è perché mi hai tradito, visto che io sono infertile!» strillò l'uomo di rimando, con somma sorpresa della coppia spettatrice.
«Che ti ho detto?» bisbigliò la ragazza, aggrappandosi al braccio di Keiichi. Per un attimo temette che la principessa, non avendo altri uomini scapoli a cui affidarsi, puntasse al suo.
«Il traditore cornuto» commentò solamente il corvino, ridendola sotto i baffi. L'idea di vedere il principe struggersi per un tradimento era molto divertente. Gli dispiacque solo di non esserne stato testimone in prima persona.
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Lo spettacolino della coppia aveva condotto fuori dalla sua camera perfino Aedus. Il rumore gli impediva di dormire, e necessitava veramente di un pisolino. Inizialmente si era ripromesso di chiedere ad Atena di trasformarli entrambi in, che ne so, un paio di gufetti, e farli tacere, ma era rimasto incuriosito anche lui dalla faccenda della gravidanza ingiustificabile. Il suo primo pensiero fu che Zeus avesse messo il suo zampino nella questione, e questo bastò a fargli ponderare con più calma l'idea di strappare la trachea all'amabile coppietta. Si domandò se fosse necessario intervenire prima che la furia di Era distruggesse l'Accademia, ma poi stabilì che non avrebbe fatto nulla a meno che non gli fosse stato esplicitamente richiesto.
Fece per rientrare nella stanza, ma incrociò lo sguardo di Ryuu. Doveva essersi timidamente avvicinato a lui mentre stava valutando cosa fare.
«Ciao» esclamò il principe, allungando a sproposito le vocali finali. Imbarazzato, arrossì e distolse lo sguardo. Stava facendo tutto da solo. «Tu sei un oracolo, vero?» aggiunse, dopo un lungo silenzio.
«Sì» rispose il ragazzo. Piegò il capo di lato, in modo da poter spostare la frangia che gli copriva gli occhi. Ryuu rimase colpito dalla sua incredibile pigrizia. Non aveva mai visto qualcuno che riducesse così al minimo i suoi movimenti.
«Mi servirebbe una mano» esclamò, sospirando all'involontaria ironia. «Domina mi ha detto che io e il mio fratellastro Jamil ci rivedremo, ma non so se stesse mentendo o no»
Aedus si domandò perché gli importasse tanto. Non era come chiedere il fato di una battaglia per stabilire come ricostruire la città.
«Credo che tu possa tranquillamente aspettare e vedere cosa succede» rispose. Non gli andava proprio di disporre tutto il necessario per un rito.
«Nemmeno se ti porto una bottiglia di vino e ti canto una ninna nanna?» domandò Ryuu, ma nel momento in cui il ragazzo aveva rifiutato, la possibilità di insistere era svanita dalla sua mente. Voleva solo tentarlo e vedere cosa succedeva.
Aedus si mise seriamente a riflettere. Amava particolarmente le voci rilassanti. Per quanto tentasse di nasconderla gracchiando il più possibile, il principe aveva una bella voce flautata, che avrebbe potuto tranquillamente accompagnarlo tra le braccia di Morfeo. Poteva essere il miglior modo per recuperare il sonno perso a causa della fastidiosa coppietta, che, peraltro, continuava ad urlare. Non pensò nemmeno alla bottiglia di vino, troppo preso a fantasticare sulla ninna nanna promessa da Ryuu. Così preso che socchiuse gli occhi, addormentandosi sul posto.
Il principe provò a svegliarlo toccandogli gentilmente il braccio, ma non ottenne alcun risultato.
«Sei davvero straordinario, Aedus» commentò solamente.
Tese le orecchie. I due litiganti si erano allontanati, ma con un po' di attenzione riusciva a capire cosa dicessero. Sembravano sul punto di separarsi definitivamente. Khalil parve addirittura minacciare una partenza. Shinju rispose che non le importava. Ryuu sospirò tristemente. Era certo che la fuga del principe sarebbe andata a buon fine, e che non si sarebbe fatto alcun male. Provò una certa invidia nei suoi confronti. Sembrava che tutto gli andasse bene, sempre.
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«Quindi come lo chiameresti il primo figlio?» domandò Melody, rigirandosi tra le dita una ciocca di capelli corvini. Keiichi le diede uno schiaffo sulla mano.
«Innanzitutto, non toccarmi i capelli con quelle luride mani unte. Potresti passarmi qualsiasi cosa. Comunque vorrei chiamarlo Akihiko. Significa principe della luce» ribatté il principe, sospirando quando la ragazza gli rimise comunque le mani tra i capelli. Dedusse che fosse impossibile addomesticarla.
«Forte. Se dovessimo avere una figlia vorrei chiamarla Piper. O Dolores» rispose Melody, estremamente seria.
«Dovrai passare sul mio cadavere»
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Non appena aprì lo sgabuzzino, il tappeto si mise a fargli festa. Khalil sorrise, solleticato dalle nappe. Si dispiacque di averlo lasciato segregato per così tanto tempo, e si ripromise che non si sarebbe mai più comportato in quel modo. Ispirò l'aria gelida dell'Accademia, chiedendosi se l'avrebbe mai più sentita, o se avrebbe più rivisto i compagni che l'avevano accompagnato per tutta l'adolescenza. Tentò di scrollarsi la malinconia di dosso, ma il magone era semplicemente troppo forte. Provò un'infinita nostalgia nel percorrere il corridoio, ma la scuola non aveva più nulla da offrirgli. Era sicuro che Domina non l'avrebbe fermato, e che Miranda non si sarebbe nemmeno accorta della sua scomparsa. Valeva la pena tentare di trovare Jamil, e parlargli. Di Shinju non gli importava più niente. Se davvero fosse nato un bambino all'Accademia, l'avrebbe saputo. Salì sul tappeto, e guardò il castello farsi sempre più piccolo.
Non era sicuro di sapere quale fosse la sua meta. Forse avrebbe potuto fare un salto ad Agrabah, salutare i suoi genitori, rivedere casa sua. Gli parve un'idea eccellente. Necessitava di stare attorno a persone che lo avrebbero sempre amato, nonostante tutto. Non voleva sfuggire dai suoi peccati, ma era convinto che rimanere ancora a lungo all'Accademia potesse ledergli. In fondo, aveva passato lì dentro un anno più del necessario. Gli insegnanti erano scomparsi, le lezioni diventate un'assurdità. Non era più un'Accademia, ma una dittatura dettata da chi possedeva il Narrastorie in quel momento. E a dirla tutta, gli sembrava che ogni attimo trascorso in quella scuola fosse un passo in più verso il baratro. Ironicamente, aveva lasciato nella sua camera gran parte delle sue cose. Sicuramente per una questione di logistica, ma anche perché ritenne che fosse utile prendersi un attimo e riflettere sulla necessità di avere tutta quella roba. Tutto quello che aveva nel suo armadio poteva essere ricomprato. I giornaletti potevano essere facilmente rintracciati, i ferri per lavorare a maglia erano forse una delle cose più comuni al bazar. L'unica cosa veramente inestimabile era avvolta al suo collo, e dormiva. Khalil le accarezzo la testa, e Kaa tirò fuori la lingua.
«Sei stanca?» domandò, quasi aspettandosi una risposta. Dopotutto, i serpenti erano animali estremamente intelligenti. Non si sarebbe stupito se un giorno la sua principessina si fosse messa a parlare. Anzi, ne sarebbe stato estremamente felice. «Se un giorno dovessi incontrare qualcuno che esaudisce desideri, gli chiederei di renderti immortale» squittì. Kaa, disturbata dal suo sonno, si limitò a tentare di mangiargli la testa.
«Chissà se voi mangiate veramente il latte. Me lo sono sempre chiesto. Solo che tu sei bianca bianca, rischieremmo di perderti. Devo farti abbronzare un po'»
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Domina non era inerte. Non molto tempo prima, portare le persone dalla sua parte era più semplice. Bastava che la guardassero con superficialità, che si fermassero all'apparenza innocente di una bellissima principessa. Non era fondamentale che si fidassero ciecamente di lei. Era importante che facessero quello che gli veniva chiesto. Al resto avrebbe pensato lei. Adesso era diventato più complesso. Solamente Shinju l'aveva genuinamente confusa con una misteriosa vecchia. Non la biasimava nemmeno: era una principessa del mare, l'ultimo luogo al mondo dove potesse bruciarsi qualcuno. Gli altri, piano piano, avevano iniziato a riconoscerla. Non aveva mai speso alcuna parola sul suo aguzzino, ma il sospettato principale era chiaro a tutti. Non si era fidata di Miranda nemmeno per un'istante, ma l'aveva trovata intelligente, ma soprattutto utile. Quando le aveva riso in faccia per via del suo aspetto, si era ripromessa di fargliela pagare.
Ogni volta che la spiava sembrava letargica, bloccata su questa sua smania di trovare Kay. Trovava molto più sensato mettere prima le mani sulla lampada magica e assicurarsi che nulla potesse andare storto che catturare il Gran Maestro. Avrebbe potuto continuare a tentare di uccidere il principe delle nevi per tutta la vita, ma non sarebbe mai morto. Non riusciva davvero a contemplare una sciocchezza simile da parte di quella che sembrava essere la miglior stratega all'Accademia. Non che ci credesse davvero. Per quanta attrazione potesse provare nei suoi confronti, rimaneva inferiore a lei. Alla fine dei conti, chi era riuscito nel suo obbiettivo? Lei, la Regina della Notte. Oltre a fare scelte discutibili, Miranda era anche estremamente prevedibile.
Chiaramente, era nella stanza dello specchio, a blaterare qualcosa. Domina le fece il verso. Tra le mani aveva l'arma della sua vendetta: uno spesso bastone di legno. Originariamente manico di una scopa, aveva ritenuto che non fosse il caso di farsi vedere in pubblico con quel tetro mantello nero e con una scopa. Avrebbe dato a tutti l'impressione di essersi finalmente rivelata per quel che era, e quest'immagine non si sarebbe slegata da lei nemmeno ritornando bella e punendosi con dieci anni di finta bontà.
«Credo che sia bene trovare Kay prima di fare qualsiasi cosa. Deve firmare il libro e lasciarmi il comando. E poi vedrò cosa fare» commentò ad alta voce la donna. La regina alzò gli occhi al cielo. Aspettava pazientemente che Miranda chiedesse qualcosa allo specchio, in modo che questo non potesse riflettere quello che aveva alle spalle, dandole modo di attaccare.
«Quello che vuoi tu» rispose lo specchio. Si guardò furtivamente attorno. Solitamente un comportamento simile avrebbe dovuto allertare la ragazza, che invece in quel momento aveva posato la testa sul tavolo, chiudendo gli occhi. Si sistemò meglio sullo sgabello.
«Sono così stanca, ma non voglio addormentarmi» si lamentò, con la voce impastata. «Dimmi cosa c'è di nuovo all'Accademia, devo rimanere sveglia» aggiunse, gettando pigramente un occhio al suo mentore.
«Khalil è scappato. Naturalmente assieme a Kaa» commentò lo specchio, aspettandosi una reazione da parte della ragazza.
«Mhmm...» bofonchiò la ragazza. «Davvero? E da dove?» chiese, allontanando lo sgabello dal tavolo ed alzando la testa. Non che le importasse davvero. Prima era stata più severa con i fuggitivi perché non aveva il supporto dei governanti. Ora che era incondizionato, non aveva alcuna ragione di preoccuparsi. Forse sarebbe stata più turbata se a fuggire fosse stato qualcun altro. Khalil non era esattamente l'esempio di un leader che guidava una rivoluzione. Le sembrava solamente che il principe fosse fuggito per ritornare tra le braccia della sua povera mammina. C'era stato un momento in cui le era servito tenerlo sotto il suo controllo, ma persa Domina era inutile continuare. Non avrebbe mai dovuto farsi condizionare dalla Regina della Notte. Si alzò, avvicinandosi alla parete.
Accadde in qualche attimo. Quando la superficie dello specchio si appannò per mostrare il balcone da cui era scappato Khalil, Domina si slanciò in avanti, lasciando cadere il bastone. Aveva trovato un'arma ben più pericolosa. Il rumore allertò Miranda, che indietreggiò, voltandosi di scatto. La Regina della Notte aveva lo sgabello in mano. La rossa, per nulla preoccupata, alzò un sopracciglio.
«Mancano le sedie in cucina? Avresti sempre potuto chiedere» commentò, ma lo Specchio percepì un triste presagio nell'aria. Così sicura di poter vincere, Miranda abbassò la guardia, e quel breve istante bastò a farsi trascinare a terra. Domina non era molto forte fisicamente, quindi l'unica cosa su cui poteva contare era la velocità. La bionda la colpì dietro le ginocchia, facendola scivolare con il viso per terra. Si assicurò che non battesse la testa troppo violentemente. Subito le montò a cavalcioni, cercando di impedirle di alzarsi, ma soprattutto di mettersi a pancia in su. Le passò il dito sulla schiena, fermandosi più o meno all'altezza dei gomiti. La giovane sotto di lei tentò di divincolarsi, ma la determinazione della regina ebbe la meglio. Avrebbe anche potuto urlare, ma nessuno sarebbe venuto in suo soccorso.
Domina afferrò lo sgabello, e la colpì ripetutamente nel punto che aveva scelto. Miranda tentò disperatamente di liberarsi dalla presa, intuendo il vero scopo dell'attentato. Non voleva ucciderla. Provò a trascinarsi in avanti facendo forza con le mani sulle pietre del pavimento, ma le sfuggì la presa. Non riusciva a vedere bene per colpa della botta alla testa. Iniziava a vedere doppio. Le piastrelle si moltiplicavano, non riusciva più a distinguerle l'una dall'altra.
Dall'altra parte, Domina ansimava, affaticata. Solitamente ferire qualcuno era molto più elegante. Un taglio netto era la miglior gioielleria che una donna potesse indossare. Il contrasto tra la pelle recisa e il rosso del sangue racchiudeva in sé la vera bellezza del male. Ma il suo obbiettivo non era uccidere, non era mutilare. E l'unico modo per ottenerlo era maciullare le vertebre della ragazza sotto di lei. Non voleva lasciarla totalmente paralizzata. Voleva solo insegnarle una lezione: le belle ragazze non perdono mai.
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I tre adorabili genietti confermarono la sua versione a Sarastro. Il sacerdote avrebbe voluto ritagliarsi un po' di tempo da solo con Pamina, ma i tre paffuti diavoletti non sembravano aver intenzione di sloggiare. Uno dei tre, non avrebbe saputo identificare quale, aveva tirato fuori un barattolo enorme, molto più grande di lui, e aveva impiastricciato tutto il viso di Jamil con un unguento verdognolo. Infastidito dal loro continuo svolazzare, il sacerdote batté le mani.
«Credo che sia l'ora della nanna per tutti quanti» esclamò, cercando discretamente di spingerli verso la porta. I tre genietti si guardarono tra loro, confusi. L'uomo sospirò. Solitamente nemmeno lui riusciva a dire di no a quei tre faccini adorabili, ma quella sera era particolarmente desideroso, e rimase fermo sulla sua. Anche le tre pesti non sembravano voler cedere il posto. Dopo lunghi minuti di silenzio, trovarono un compromesso. Non se ne sarebbero andati finché non avrebbero ricevuto il bacio della buonanotte da Jamil. Normalmente il jinn avrebbe assolto il compito rapidamente, ma quella sera temeva realmente la solitudine. E se Apofi si fosse manifestato nuovamente? Dopo qualche insistenza da parte di Sarastro (ma soprattutto da parte dei genietti, che volevano il loro bacio), Jamil e il sacerdote rimasero soli.
«Vorresti una tisana?» domandò cautamente l'uomo. Riusciva a percepire qualcosa di diverso dal solito, e si mise a sedere accanto al ragazzo, aspettandosi che scoppiasse in lacrime o lo supplicasse di riavere indietro la sua voce. Jamil fece cenno di no con la testa.
«Un biscotto, forse? Normalmente non si potrebbero mangiare dolci, ma oggi sei molto malinconico. Posso fare un'eccezione per te, Pamina» sussurrò Sarastro. Jamil schizzò in aria. Resosi conto del fatale errore, il sacerdote tentò immediatamente di correggersi, senza ottenere però alcun risultato se non del puro terrore da parte del jinn. Si guardò attorno, terrificato dall'idea che qualcuno potesse averlo sentito.
«È stato un semplice lapsus» mormorò, tentando di salvare le apparenze. «Mettiti a dormire. Siamo entrambi stanchi» aggiunse, cercando gentilmente di condurlo verso il letto. Il principe decise di non fare storie e di assecondarlo, strofinandosi gli occhi. Era davvero stanco, e poteva essere stato veramente un errore in buona fede. Si infilò sotto le coperte, chiudendo gli occhi. Improvvisamente sentì sulle labbra un sapore dolce, simile a quello che spesso percepiva nelle bevande offerte da Sarastro. Provò ad allungare una mano, ma si era già intorpidita. Decise dunque di rimanere con il dubbio, giustificando il tutto con le estreme emozioni provate durante la giornata. Mentre scivolava in un sonno senza sogni, si domando cosa avrebbe mai dovuto fare per provare nuovamente quella magnifica estasi. Per un brevissimo attimo si chiese se fare l'amore somigliasse a quella sensazione. Avrebbe giustificato la sete di sesso dell'umanità. Quando fu certo che il suo respiro fosse regolare, e che il sonnifero avesse fatto effetto, Sarastro poté tirare un sorriso di sollievo. Era stato difficile rigirarsela, ma ce l'aveva fatta. Si stiracchiò, ma prima che potesse anche solo richiamare la sua bella dal regno dei morti, una voce femminile lo chiamò dal bagno. Riconosciuta la voce della sua amata Pamina, il sacerdote si trascinò vicino alla vasca. La ragazza lo attendeva immersa tra i petali di rosa. Si sfiorarono, ma prima che le loro labbra potessero toccarsi, la fanciulla gli sparì tra le mani.
Orrificato, l'uomo si voltò. Jamil lo fissava dritto negli occhi, capelli spettinati, un solo calzino, i segni del cuscino sul viso. Se il suo posto all'Inferno non era garantito, se lo era appena assicurato.
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