02 ♰ Tempi bui

Sarastro percorse il corridoio in silenzio, guardando le pareti tremare e incrociarsi fra loro, creando muri impossibili. La scena si era svolta in modo paradossale: Jamil aveva semplicemente creduto che si stesse lavando le mani nella vasca da bagno, ed era tornato a dormire. Sembrava rimasto più turbato dallo scambio di nomi che dalla buffa interazione notturna. Poggiò le spalle al muro, ispirando ed espirando profondamente, cercando di trovare un po' di contegno. La sua preoccupazione principale doveva essere la Messa al Bando del Chaos. Sapeva che qualcuno degli adepti stava già dipingendo l'effige da bruciare, ma nessuno sembrava essersi dedicato alle offerte per Ra. Pensieroso, decretò che i bambini erano ancora troppo inesperti per sacrificare una bestia, e gli dispiacque immaginare di doverlo chiedere agli adepti più anziani. Improvvisamente ebbe un'illuminazione. Decise di affidare il compito a Jamil, in modo da farsi perdonare per le strane intrusioni notturne. Non importava che fosse un buon macellaio, avrebbe semplicemente dovuto portare una caraffa di sangue alla statua del dio. Lui stesso aveva assolto il compito, quando era ancora alle prime armi. Ricordò con affetto i suoi primi passi nel mondo sacerdotale. Si strofinò le mani tra loro, soddisfatto della pensata. Si affrettò a tornare nella sua camera, sotto l'attento sguardo di Apofi.

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Bucefalo era un lento ma fido destriero. Era la prima volta che Arturo si cimentava in un inseguimento, ed era piuttosto sicuro che non dovesse coinvolto in un pedinamento da parte di banditi. Giocò nervosamente con la spilla che aveva al petto, guardandosi le spalle. Era inesperto, ma non stupido, e non gli ci volle molto a capire che quei furfanti stavano aspettando un suo passo falso. Decise che avrebbe provato a parlargli. Magari si sarebbero spaventati nel vedere la stella appuntata al petto.

«Ti spiacerebbe fermarti?» chiese gentilmente all'asino. L'animale, che ci teneva alla pelle, finse di non sentirlo, e continuò a trotterellare. Non fu necessario, perché uno degli uomini gli si affiancò, fumando una consumatissima sigaretta.

«Buongiorno, sceriffo» esclamò in tono derisorio, togliendogli il cappello. «Sta per caso andando a fare una scampagnata nel regno delle fiabe?»

«Sono all'inseguimento di un pericoloso criminale» ribatté Arturo, sperando in qualche modo di sviarli. Bucefalo, percepito il pericolo, affrettò il passo. Ma non poteva competere con i cavalli di quei furfanti, e lo sapeva benissimo. Per un attimo pensò di fingersi morto e lasciare che il padrone gestisse la situazione com'era solito fare: male.

«Ah, certo...» rispose un altro, avvicinatosi dalla parte opposta. Prese la mira, poi sparò in mezzo alle gambe del povero asino, che cercò di scalciare via il pericolo, ma finì semplicemente per disarcionare il suo cavaliere, correndo via. Rimasto a terra, Arturo deglutì, alzando le mani prima che potessero anche solo minacciarlo.

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Jamil riconobbe immediatamente che portare le offerte fosse il ruolo più solitario del rito. Mentre i suoi compagni bruciavano l'effige di Apofi, bevendo e danzando al suono dei sistri, lui era bloccato a far da mangiare a divinità sconosciute. Per l'occasione erano state invitate ad unirsi anche le fanciulle del villaggio. Le guardò divertirsi con invidia. Si inchinò di fronte alla statua di Ra, cercando di nascondere il fastidio. Sapeva che il dio non avrebbe apprezzato un'offerta fatta in mala fede, travasò quindi il contenuto della caraffa in un calice d'oro, e ci aggiunse vicino un cesto pieno di datteri e albicocche essiccate. Resistette alla tentazione di prenderne una, guardando annoiato i piedi del dio. Era una statua molto bella, ma pur sempre di poca compagnia. Il dio era raffigurato in posizione eretta, con la testa di falco e il disco solare che lo sovrastava. Percepiva la tranquillità che emanava, diametralmente opposta all'affascinante confusione che esalava Apofi. Il dio gli aveva ordinato di offrire delle bevande anche a Seth, si prodigò quindi a cercare un secondo calice in cui versare il sangue. Non fu difficile trovarne uno: la stanza per le offerte era sempre tenuta in perfetto ordine. Non era solamente un segno di rispetto verso le divinità, ma anche un modo per scacciare Isfet, il chaos. Trovato quello che cercava, si voltò verso l'offerta che aveva già posto. I datteri erano spariti, e qualcuno aveva bevuto. Non aveva mai immaginato che le offerte poste agli dei venissero realmente percepite, e ne rimase un po' turbato. Pose il secondo calice accanto al primo, e li riempì entrambi. A quel punto li vide svuotarsi con i suoi stessi occhi, e, incredulo, li riempì una terza volta.

Il principe sollevò lo sguardo, e le granitiche pupille di Ra seguirono i suoi movimenti con la caraffa. La statua del dio allungò lentamente la mano, suscitando un gelido terrore nel jinn, ancora inginocchiato. Con gli occhi sbarrati, Jamil lo vide riprendere colore, finché non fu costretto a distogliere lo sguardo per via del luminoso disco solare che portava sul capo. Il dio prese il calice tra le mani, e ne bevve avidamente il contenuto.

«Seth» esclamò Ra, con voce estremamente giovanile. Il jinn non poté fare a meno di spalancare la bocca, preso alla sprovvista. Si stropicciò gli occhi, convinto di star sognando. Ne aveva viste di cose strane, a partire dalle incursioni notturne di Sarastro, sempre immotivate, ma non aveva mai visto una statua prendere vita.

«Seth» ripeté il dio, questa volta più scocciato. «Muoviti, manifestati. Spicciati» aggiunse, tentando di sollecitare la sua apparizione. Improvvisamente un asinello si fece strada nel templio, immediatamente dirigendosi verso il secondo calice. Lo spinse per terra con uno zoccolo, leccandone il contenuto direttamente dal pavimento. Ra aggrottò la fronte, anche lui perplesso dalla presentazione del dio.

«Non percepisco la necessità di farmi bello di fronte a uno schiavo» ribatté tranquillamente l'animale. Jamil non se la sentì nemmeno di dissentire, e si limitò a versare altro sangue nel calice di Ra. Improvvisamente gli fu chiara la ragione per cui Domina si era consacrata a lui, mettendo da parte Apofi. In realtà la cosa non gli dispiacque affatto: se per una volta non fosse stata lei ad essere la prediletta, avrebbe potuto esserlo lui. Dopotutto il dio si era affidato a lui, e non alla Regina della Notte, nonostante gli interessi comuni. Perso nel ricordo della notte precedente, dimenticò di versare altro sangue a Seth, che reagì da perfetto dio della violenza. Prese le sembianze di un levriero, spingendo Jamil sul pavimento. Lo tenne fermo con le zampe sulle sue spalle, ringhiando. Ra lo spinse via con un calcio, e il dio guaì, ferito.

«Non saresti forse il dio degli stranieri? Ti sembra forse un uomo nato e cresciuto nella terra del Sole? O somiglia, forse, ad uno spirito nativo del deserto, sotto la tua stessa giurisdizione? Abbeverati dal calice come uomo o cessa di essere fastidioso come una bestia» ribadì Ra, porgendo il suo bicchiere per altro sangue. Jamil servì prima lui, poi ne versò altro nel secondo calice. Questa volta Seth lo prese tra le mani. Il principe mai aveva visto una creatura così terrificante. Fino al torso gli parve di vedere un uomo, ma non riuscì a percepire alcun volto se non una massa scura con un paio di occhi cremisi. L'abbigliamento di entrambi ricordava molto quello visto indosso ad Apofi il giorno prima, ma non bastò a rincuorarlo. Doveva avere delle corna, ma era davvero difficile distinguerle dal muso.

«Smettila di fissarmi, o ti tramuterò in uno scarabeo, e lo offrirò in dono alla Regina della Notte» sbottò Seth. Il commentò infastidì molto Jamil, ma non si permise di reagire. Riempì, ancora una volta, il suo calice. Ra si mise seduto nell'anfratto dove un tempo era stata riposta la sua statua. Il principe colse il suo affaticamento come un buon segnale, e gli versò altro sangue.

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Nemmeno le sue paternali sembravano aver fatto cambiare idea alla banda di furfanti, che dopo averlo legato come un salame, rovistavano beatamente tra i suoi averi. Bucefalo era fuggito, ma Arturo non lo biasimava. Se non l'avesse fatto, probabilmente l'avrebbero preso e portato via. Era un'animale molto intelligente: sapeva che, se ne fosse uscito vivo, sarebbe venuto a cercarlo. Sbuffò per spostarsi una ciocca di capelli dagli occhi, ma quello che doveva essere il capo lo prese come un affronto.

«Vuoi che ti stacchi quegli stupidi baffi di dosso?» chiese, impilando le monetine sottratte all'uomo. Lo sceriffo le guardò, mogio. Le aveva messe da parte per comprarsi un gelato, ma suppose che il dolce avrebbe dovuto aspettare. Nemmeno per un momento immaginò che la cosa potesse finire veramente male.

«Beh, no. Mi chiedo perché facciate i bruti con le persone più deboli. Sapete, conosco qualche famiglia che ha bisogno di braccianti per la stagione. Potreste, anzi, dovreste andare lì a lavorare, anziché rischiare di finire in prigione» suggerì tranquillamente.

«Forse non hai capito, bellino. Rubiamo perché vogliamo diventare ricchi senza lavorare» rispose un altro, nascondendosi sotto una ridicola bandana a strisce.

«Non è molto corretto nei confronti di chi vuole lavorare onestamente» continuò l'uomo, imperterrito. A quel punto il capo, nervoso, sollevò il fucile, puntandogli la canna sulla guancia. Arturo tacque, pensieroso. Tutto sommato aveva condotto una bella vita. Gli dispiaceva solo non essere riuscito a vendicare la sua bellissima, vaporosa buganvillea.

«Ew! Ma poi chi è che legge ancora Ranch Romances?» chiese un terzo bandito, sollevando il giornalino con la punta delle dita, schifato. Il gesto si guadagnò le risa di tutta la combriccola. Uno sparo gli fece saltare il cappello, distruggendo il clima festoso della banda.

«Io» bofonchiò Bowie, estremamente seccato. I cinque uomini si guardarono tra loro, indecisi sul da farsi. Sebbene non fosse così vicino, il nuovo arrivato sembrava molto alto. Qualcuno giurò di averlo visto sulle locandine con i ricercati. L'abbigliamento, di per sé, non era affatto amichevole. Perfino i jeans erano tinteggiati di nero. «Qualche problema?» aggiunse, socchiudendo un occhio per prendere meglio la mira.

«Non so se ti conviene venire ad infastidirci con una pistoletta di quel genere» sbottò il capo. Gli altri quattro risero. Arturo sorrise, però non poté che concordare con i criminali. La pistola di Bowie era un assemblaggio di diversi modelli, e poi il capo della banda aveva un fucile.

«Quanti colpi ha, sei?» chiese un altro.

«Sì», rispose il biondo, famoso per le sue risposte estremamente contratte. «Sei»

«E uno l'hai sprecato» commentò il capo, alzando un sopracciglio, spostando la canna del fucile da Arturo allo sconosciuto, socchiudendo gli occhi anche lui.

«Me ne restano cinque e, se la vista non mi inganna, voi siete proprio cinque» commentò Bowie.

«Uno per ognuno...io ne ho quindici tutti per te» rispose il capo, ma prima di poter sparare cadde a terra, colpito alla sprovvista dal compagno, intimidito. Arturo sbiancò alla vista di tutto quel sangue. Nonostante facesse lo sceriffo, la sua era una cittadina abbastanza tranquilla. Subentrò in quel momento l'idea che potesse essere tranquilla solo per lui. D'altronde nessuno si rivolgeva mai allo sceriffo se non per minuscoli furti o riparazioni, che segnalava alacremente. Temette che la gente del posto si facesse giustizia da sola. Agonizzante, il capo bestemmiava.

«Tu, cane rabbioso, figlio di puttana, maledetto cencio lebbroso...» farneticò, guadagnandosi una smorfia da parte del prigioniero, che immaginò di multarlo per tutto quel linguaggio colorito. «Vedrai che il diavolo ti trascinerà all'Inferno per i peli del culo!»

Lo sceriffo scosse la testa. «Non è modo di parlare questo» commentò solamente, prima che il furfante spirasse tra atroci dolori.

«Risparmiami! Ho moglie e figli!» vaneggiò il traditore. Alzò le mani in segno di resa, presto seguito dai suoi compagni. Bowie inclinò il capo, fingendo di pensarci su.

«Beh, ecco...se vi risparmiassi non ne ricaverei niente, capite. Non si può campare così» commentò, mantenendo la pistola puntata, e toccandosi il mento con l'indice della mano libera. I quattro pentiti immediatamente svuotarono le tasche, poi si alzarono e fuggirono via. Il cowboy rimise la pistola nella fondina, scuotendo il capo. Si avvicinò all'accampamento, intascandosi tutto quello che era rimasto, inclusi i soldi del povero Arturo. Lo sceriffo sospirò.

«Non farci l'abitudine» bofonchiò il ragazzo, frugando nelle tasche del morto. Ne estrasse un pacco di sigarette semi-nuovo. Soddisfatto, ne mise una in bocca. Si limitò a masticarne un po' l'estremità, senza accenderla.

«Non ti smentisci mai!» lo sgridò Arturo. «Rubare da un morto!»

«Toglimi una curiosità, questi fumetti sono miei?» chiese Bowie, ignorando tutto il resto e sollevando uno dei giornaletti. Si erano macchiati di sangue. La cosa lo scocciò e non poco, considerando quanto li aveva pagati.

«Sì. Mi ha detto Oliver di riportarteli. Ti consiglio particolarmente quello che hai in mano...ha una storia interessante. Peccato tu non possa leggerla» lo stuzzicò l'uomo. Il cowboy lo ignorò.

«Non ho tempo per queste cose...ho una commissione» bofonchiò, sicuro di ottenere una reazione spropositata da parte dell'uomo. Lo osservò con la coda dell'occhio, e Arturo non si smentì.

«Commissione? Ma quale commissione! Guarda che ho un mandato d'arresto col tuo nome di battesimo scritto sopra!» strillò.

«Devo rapire un principe...ma poi torno. Tu non ti preoccupare, il gelato poi te lo offro io» concluse il giovane, spettinandogli i capelli. Richiamò Darling con un fischio, ignorando perfettamente le cortesi imprecazioni del prigioniero.

«Sai, Arthur, il mondo è diviso in due parti. Quelli che fuggono, e quelli che non riescono ad acciuffarli» sospirò, quando il cavallo apparve all'orizzonte. «Indovina da che parte stai?»

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Quel viaggio avrebbe dovuto essere una pausa dal mondo reale, eppure Khalil non riusciva a togliersi dalla testa le questioni all'Accademia. Non riusciva a credere che Shinju si fosse davvero fatta convincere di essere incinta. In quel momento ricordò con molto imbarazzo la promessa di sposarla, e si coprì la faccia con le mani, rischiando di perdere l'equilibrio sul tappeto volante. Ricordò poi Domina ricoperta di panna, e il sogno erotico con Jamil. Scosse la testa, rimproverandosi. Era sempre stato una persona lasciva, ma non credeva che a vent'anni si sarebbe ritrovato in fuga da due ex fidanzati instabili e una principessa che sosteneva di aspettare un figlio da lui. Non che non fossero arrabbiati a ragione. Si mordicchiò il pollice. Era più grave tradire o bruciare qualcuno? Giustificò il tutto convincendosi che si trattava pur sempre di una Mai, una cattiva. Le streghe vengono sempre punite alla fine della storia. Il problema era che la storia era appena iniziata. Nello specifico, si trattava appena del secondo capitolo. E poi non aveva agito insollecitato! Gli aveva reciso quindici anni di crescita! Se non l'avesse attaccato lei per prima, non l'avrebbe mai spinta nel caminetto. Eppure riconosceva di essere stato piuttosto sadico nei confronti della donna. Sospirò, cercando di immaginare delle scuse convincenti per Jamil. Forse avrebbe dovuto indagare sulla sua posizione, ma Dario era riuscito solo a dirgli che il loro ultimo incontro era stato nel deserto. Magari era tornato nel regno dei jinn? Vide, nella penombra, tanti lumini accendersi sotto di sé. Sorrise. Agrabah era bella anche di notte.

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Apofi si introdusse indisturbato nel palazzo deserto. Osservò dall'alto la folla in festa, intenta a bruciare la sua effige. Fece una smorfia, dirigendosi verso le segrete. Un giorno avrebbe ribaltato i ruoli, e sarebbe stato lui a dirigere la cerimonia. Si sarebbe divertito ad ardere le immagini di Ra e Seth. Avrebbe costretto le figlie del dio del sole ad assistere. Perso nelle sue sadiche fantasie, raggiunse la sede del mio settemplice cerchio lunare: la camera di Sarastro. Ricordava molto bene la creazione dei due cerchi, ma ai suoi tempi avevano altri nomi. Il settemplice cerchio solare, prezioso reperto ambito prima da Astrifiammante e poi da Domina, era chiamato Occhio di Ra. Quello su cui avrebbe presto messo le mani, invece, era l'Occhio di Horus. Solitamente non sceglieva sacerdoti, ma sacerdotesse. Riteneva che le donne incarnassero meglio il vero chaos. Aveva sempre fatto affidamento sul Regno della Luna, di società matriarcale, ma l'avvento di Astrifiammante aveva causato un radicale cambiamento nei culti tradizionali. L'aveva soppiantato con Seth! Non gliel'avrebbe mai perdonata. Il Regno della Luna ad adulare il protettore di Ra, dio del sole! Era una sciocchezza fatta e finita. A dire la verità, era rimasto affascinato da Jamil per via di sua zia. Doveva essere stata qualcosa noto come L'Occhio di Jalina, che gli aveva ricordato la sua vecchia gloria. L'aveva spinto a cercare aiuto, e a completare il suo piano secolare di vendetta contro gli usurpatori divini.

Sapeva che Domina desiderava la notte eterna più di qualsiasi altra cosa, ma, per ripicca, decise che non avrebbe mangiato il Sole, ma il settemplice cerchio lunare. Avrebbe messo in difficoltà Sarastro, e avrebbe fatto in modo che i sogni delle due regine non vedessero mai la luce. Ridendo per via del suo stesso umorismo, si guardò attorno. Era una camera estremamente spartana, in linea col personaggio. Un letto di legno senza lenzuola, un armadio di mogano, ma senza alcun vestito all'interno. Il pavimento era forse la cosa più rifinita all'interno della stanza. Una piastrella di marmo era montata diversamente dalle altre. La sollevò con la coda. Sotto vi era l'occhio di Horus. Una semplice pietra circolare, con disegni radiali. Se la ricordava molto più bella, ma forse doveva essere anche colpa della polvere. Il sacerdote non si era sforzato a nasconderla. Alzò gli occhi al cielo, poi spalancò le fauci, ingoiandola. Soddisfatto, fece per andare via, gongolando su quanto fosse stato semplice gabbare il culto del Sole. Incrociò lo sguardo di Sarastro, a braccia incrociate.

«Io non lo sputo, sappilo» rispose, consapevole di avere la forma di un cerchio. «Per riaverlo dovresti tagliarmi in due, ma sono un dio. Avresti delle serie difficoltà. Quindi se ti sposti, magari...» bofonchiò, cercando una via di uscita.

«Tu devi essere Apofi» commentò il sacerdote, senza distogliere lo sguardo. A quanto pareva non suscitava lo stesso fascino anche sugli uomini anziani. Buono a sapersi.

«Conosci molti serpenti parlanti?» chiese l'animale, alzandosi in piedi. «Io mi preoccuperei di andare a controllare come procede la festa in giardino. Sai, ho sentito che le ragazze con i menat tendono ad ubriacarsi più facilmente»

L'uomo rimase fermo. La cosa infastidì Apofi, e non poco, a quel punto valutò davvero se valesse la pena mangiarlo o meno.

«Che ne so, trovati qualcosa da fare. Magari invoca Ra e balla per lui. È una cosa che gli fa molto ridere. Smamma, coso» strillò, completamente snervato dall'impassibilità dell'uomo che aveva davanti.

«Come posso riportare in vita la donna che amo?»

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Le ore spese a far ubriacare le due divinità avevano dato i loro frutti. Ra, completamente perso, scoppiò improvvisamente a ridere sonoramente, svegliando Seth. Il dio, riprese le sembianze canine, si era addormentato sotto l'influenza dell'alcool.

«Ma questo non è sangue!» esclamò, tenendosi la pancia. Quando l'altro non rispose, gli assestò un calcio ben piantato.

«No? E cos'è allora?» chiese Seth, guardando il liquido rosso sparso per tutto il pavimento.

«È birra tinta di rosso! Che trucco intelligente!» commentò il sovrano degli dei, dimentico del fatto di esserne lo stesso autore. Ne rimase così impressionato che tacque per lunghi istanti.

«Dovremmo premiarlo o castigarlo?» chiese l'altro, accucciato ai suoi piedi. La birra lo aveva reso mansueto e letargico.

«Di certo ha avuto un gran coraggio. Fingiamo di dormire entrambi: deciderò in base a cosa farà» proclamò Ra, ed immediatamente chiuse gli occhi. Il levriero lo seguì a ruota, ed entrambi attesero con pazienza che Jamil facesse il suo ritorno. Il principe non ci mise molto a riapparire. Raccolse le ceste vuote, impilandole in un angolo, poi le sostituì con altre, piene di frutta fresca. Questa volta si trattava di uva, albicocche, fichi e perfino una ciotolina di miele. Passò uno straccio sul pavimento bagnato, premurandosi di pulire tempestivamente il marmo, affinché non assorbisse la tinta della birra. Controllò infine che i calici fossero pieni, poi prese le ceste vuote e le portò via.

Le due divinità aprirono gli occhi.
«È certo che volesse farci ubriacare, ma non sembra abbia fini maligni nei nostri confronti» disse Ra, abbassando lo sguardo sul suo fido servitore.

«E allora perché farci bere così tanto?» si chiese Seth, più astuto del sovrano.

«Te l'ho detto, per farci ubriacare. L'ho trovato intelligente e rispettoso. Intendo premiarlo per il suo coraggio. Io esaudirò un suo desiderio, e tu ne esaudirai un altro» asserì il capo degli dei. Il levriero non parlò. Attesero che Jamil tornasse, e quando il principe varcò la soglia della stanza, i due si fecero trovare in piedi, entrambi in forma antropomorfa. Seth pensò con disgusto che avrebbe potuto colpirlo al volto, se solo avesse sollevato un ginocchio.

«Sei stato furbo» commentò Ra, in tono non propriamente amichevole. Di certo non poteva negare di non sentirsi, anche se in piccola parte, umiliato dal ragazzo. «In pochi hanno il coraggio di sfidare gli dei. Per la tua audacia, sarai ricompensato. Chiedi quello che vuoi» aggiunse, abbassandosi all'altezza del suo interlocutore. Naturalmente Jamil si indicò la gola, cercando di comunicare il desiderio di una voce.

«Un muto che chiede una voce. Originale» commentò Seth, ma il dio del Sole subito esaudì la richiesta del ragazzo. Improvvisamente imbarazzato, il jinn si schiarì la voce, realizzando quanto fosse disabituato ad esprimersi.

«Dato che hai ingannato entrambi, anche Seth esaudirà un tuo desiderio. Sentiti libero di chiederlo con la tua voce» aggiunse il capo degli dei, profondamente irato dalla mancanza di partecipazione da parte del suo servitore.

«E sia» commentò il dio, egualmente scocciato. «Cosa vuoi, schiavo?»

«Desidero che questa notte una violenta tempesta si abbatta sul Regno della Luna, sterminandone la popolazione. Che il palazzo e le città sprofondino tra le sabbie del deserto. Che nessuno sopravviva, nemmeno il più innocente degli infanti. Che ogni mausoleo, che ogni templio eretto in onore della Regina della Notte e del suo amante venga spazzato via dal vento e dall'acqua» proclamò Jamil, con gli occhi luminosi di una nuova crudeltà.

«Non posso esaudire questo desiderio!» sbottò Seth, estremamente turbato. Tutti i suoi templi erano nella capitale, e Domina Asteria era la sua adepta più fedele. Perfino il dio della violenza esitava a farle del male. La cosa innervosì oltremodo Jamil.

«Devi esaudire questo desiderio. Sei il mio servo, ricordi?» intervenne Ra, ribadendo al cane che sarebbe sempre appartenuto ad una casta sociale più bassa. Era condannato ad ubbidirgli. «Accontenta la sua richiesta, o ti tramuterò in uno scarabeo e ti offrirò in dono alla creatura. A quale nome rispondi?» domandò il dio del Sole.

«A quello di Javimyial, principe dei jinn. Ma da stanotte, anche a quello di Jamil, Re della Notte»

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Steso sul letto, Dario fissò il soffitto con gli occhi spalancati. Doveva essere alla sesta, o settima, tazza di caffè. Non era sicuro che fosse la miglior scelta a livello di salute, ma doveva ammettere che fosse piacevole rimandare l'incontro con sua madre. La cosa lo agitava, ma non doverle parlare valeva l'ansia che stava accumulando. Non era sicuro di volerle credere. La cosa lo scombussolava: la mancanza della fata aveva innescato un circolo vizioso. Non le credeva perché durante l'assenza aveva smesso di credere alle persone. Percepiva i loro veri intenti, e quasi mai si riflettevano nelle loro parole. E in quel momento realizzò che da ormai diverso tempo faticava a rispondere correttamente alle persone. Il giorno prima, parlando con Khalil, non era stato in grado di fornirgli le risposte che voleva. La cosa lo preoccupò. Si morse le labbra, poi si grattò la guancia. Gli piacque sentire sotto le unghie la barba incolta, ma tastandosi il viso realizzò il prossimo arrivo di uno sfogo d'acne. Succedeva quando era nervoso, ma d'altronde poteva dire di essere mai stato lasciato tranquillo?

Afferrò il suo taccuino, lasciato ad impolverarsi sul comodino, e lo aprì ad una pagina a caso. Ci scrisse qualche annotazione sul tempo, abbastanza stabile per tutta la settimana. Descrisse le tende blu che aveva di fronte, lo aggiornò sulla situazione dei suoi compagni di sventura. Khalil era partito davvero, alla fine. Mugugnò, infastidito. Si augurò che finisse anche lui in prigione. Ogni tanto si svegliava preoccupato, credendo di essere ancora nelle segrete di Agrabah. Fortunatamente l'incubo era finito, ma non poteva dire di aver ancora superato quello strambo viaggio delle meraviglie. Si guardò la voglia, e questa volta la soprese a cambiare forma. Prima, come al solito, era una macchia informe. Poi prese le forme di un cavallo, anzi, no, un asinello. Lo capì dalla forma degli occhi. Poi di quello che gli parve essere un fucile, infine prese le sembianze di un sole stilizzato. Sorrise.

«Va a vedere che oggi c'è il Sole» rise, poi sorseggiò l'ennesima tazzina di caffè.

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La prima goccia d'acqua scivolò silenziosamente lungo il cornicione del palazzo. Quando raggiunse il terreno, le sue sorelle erano già in viaggio. Qualche bambino alzò la testa al cielo, meravigliato. Le donne allungarono la mano fuori dalla finestra, chiedendosi se fosse il caso di rientrare i panni stesi. Qualche damigella della regina si rifugiò nel templio di Seth, furtivamente rubando qualche dattero dalle offerte. Una di loro si tagliò con un rametto. Una folata di vento trascinò via un pallone, ma nessuno si fece avanti per recuperarlo. Le madri chiamarono i loro bambini, invitandoli a rientrare. Il primo fulmine colpì il centro della piazza. Da quel momento la pioggia si fece più forte e insistente, costringendo anche gli uomini più ostinati a cercare riparo. Il terreno si fece molliccio, e qualche bella fontana iniziò a sprofondare nelle umidità della terra. Qualche fregio cadde dal palazzo, atterrando a pochi metri dalla testa delle guardie. Si alzò il vento, sradicando tutte le piante dai loro vasi. Quelli ancora rimasti fuori si infilarono negli anfratti più protetti, coprendosi la testa con le braccia. Un secondo fulmine colpì il palazzo, dilaniando le decorazioni dipinte a mano.

Non molto lontano, ma molto più in alto, Jamil si godeva lo spettacolo. Si rendeva conto che quello che stesse facendo fosse sbagliato, e molto atipico per una persona come lui. Sapeva di essere osservato da Seth, naturalmente contrario alla sua decisione. Gli piacque avere tutto quel potere. Il suo odio era ragionevole. L'uccello in gabbia non ha forse il diritto di odiare i suoi fratelli che si librano in cielo? Non è dunque naturale per lui desiderare che si abbatta sulla terra una carestia e che, mentre i suoi compagni muoiano di fame, lui si nutra dalla mano padrona? Mugugnò al pensiero di avere un padrone, ma trovò anche migliore l'ipotesi di ripararsi dalla tempesta nel palazzo di Sarastro che morire annegato. Tecnicamente nulla li teneva più legati, ma faticava comunque ad andarsene. Non che gli avessero riservato un trattamento di favore che lo spingesse a rimanere nel Regno del Sole.

Il terreno tremò, ingoiando porzione del palazzo di Domina. Il vento gli sferzò il viso. Jamil sorrise. Improvvisamente la pioggia cessò. Lunghi tuoni annunciarono che la pace non era ancora tornata sovrana. Jamil si distese sulla sabbia, chiudendo gli occhi. Aveva un udito abbastanza fine da poter sentire le urla dei bambini, i pianti isterici delle donne che avevano perso tutto, gli edifici crollare.

«Non date la colpa a me, date la colpa a voi stessi» mormorò, guardandosi le unghie. Non riusciva a provare pietà per quei mostriciattoli nemmeno volendo. Avevano voluto una regina assente e incapace? Si sarebbero dovuti adattare alle conseguenze. Non gli sembrava che la popolazione avesse fatto tante storie quando il regno dei jinn era stato sigillato. Il terreno sprofondato si era riempito d'acqua, creando una trappola mortale da cui era impossibile sfuggire. Qualche coraggioso si arrampicò sugli edifici inclinati, cercando di raggiungere terreni più stabili. Seth non parve intervenire.

«Non pensarci nemmeno» strillò Jamil, spingendo gli audaci nell'acqua con una folata di vento. «Il mio desiderio era chiaro. Nessuno deve sopravvivere. Il Regno della Luna cessa di esistere stanotte»

Vide un bambino annaspare, ma non riuscì a provare alcuna tenerezza, immaginandolo entusiasta per il matrimonio di Domina. Sua madre cercò di recuperarlo, nuotando verso di lui. La cosa mandò il principe sulle furie, ma non ebbe cuore di dividerli. Li spinse uno verso l'altro con la corrente. Chinò il capo, improvvisamente tristemente annoiato dallo spettacolo. Si voltò e si diresse verso il castello di Sarastro. Avrebbe atteso. Ma cosa?

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Bucefalo era tornato, esattamente come previsto. Stava lentamente ma inesorabilmente masticando le corde, e questo voleva dire che forse sarebbe riuscito a liberarsi.

«Ma guarda te! Avevo proprio ragione! È un mascalzone fatto e finito quello là, te lo dico io. Rubare da un morto, avere una pistola, addirittura un fucile. Ha fatto finta di niente, ma anche se lo tiene allacciato dietro la schiena si vede. E ha fatto tutto il pistolero, l'uomo vissuto...» si lamentò. Arturo scosse la testa, devastato.

«E viene da una famiglia così onesta, così sincera! Non posso crederci. Come dirò a Caroline che il bambino che ha cresciuto con così tanto amore è in realtà un criminale di prima classe?» continuò, poi abbassò lo sguardo sul cadavere. Tentò di spostarlo con un piede, abbastanza schifato.

«Questo è quello che succede a rubare. Cielo, già me lo immagino morto. Povero Bowie» pianse, in parte perché spaventato dal morto, in parte perché veramente in apprensione per il futuro del povero cowboy. «E nessuno che mi crede, poi!»

Bucefalo riuscì finalmente a liberarlo dalle corde, e l'uomo immediatamente schizzò in piedi, saltandogli sopra. «Mi spiace molto che quest'uomo non possa ricevere una degna sepoltura, ma non credo sia il caso di rimanere qui. Vedo degli avvoltoi sopra di me da un bel po'»

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«Cosa c'è per cena, Jamil?» domandarono i bambini, accerchiando il principe mentre si destreggiava con i vassoi. Qualcuno pensò bene di minacciarlo con la fionda, desideroso di essere il primo a mettere le mani sui dolci. Il giovane si ostinò a tenerli in alto, sapendo perfettamente che abbassarli per far vedere loro la cena avrebbe comportato perderla. L'aveva imparato a sue spese.

«Abbiamo fame! Abbiamo danzato tutto il giorno. È stancante, sai» lo pregarono, e Jamil alzò gli occhi al cielo. Mentre si difendeva dai bimbi di fronte a lui, i più alti sfilavano le ciambelle dai vassoi, in punta di piedi. L'idillio generale fu irrimediabilmente rovinato dall'ingresso di Sarastro. Si limitò a sgridare tutti i presenti con un'occhiata, poi tenne la porta aperta per una madre e il suo bambino, entrambi fradici fino al midollo. La donna si sollevò la gonna e la strizzò sul pavimento appena incerato. I bambini guardarono Jamil, che si limitò a sospirare, pensando che l'avrebbe asciugato dopo. A turbarlo era la coppia, chiaramente scampata al massacro. Naturalmente non li avrebbe uccisi. Li aveva risparmiati una volta, l'avrebbe fatto anche la seconda. Si avvicinò, pronto ad offrire loro delle ciambelle calde.

La donna mormorò un "grazie" irriverente, ma quando alzò lo sguardo cacciò un urlo, terrificata. Si ritrasse immediatamente, stringendo a sé il bambino, egualmente spaventato. Tutti i presenti si voltarono, alla ricerca del mostro.

«Cos'è quel coso?!» strillò, e il principe si vide indicato. Abbassò le orecchie, ferito.

«È Jamil» rispose uno dei ragazzini, genuinamente perplesso. Leccò lo zucchero via dalla ciambella prima di offrirla al fratello.

«Non mi importa come si chiama, tenetelo lontano da me e dal mio bambino!» ululò ancora, coprendo gli occhi al figlio. Sarastro si vide costretto a scacciarlo con un cenno del capo. Jamil obbedì tacitamente. Avrebbe dovuto annegarli entrambi.

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Non avrebbe voluto farsi trattare da bambolina, ma non aveva molta scelta. C'era da sottolineare che nonostante non si stesse esattamente prodigando le sue cure, Domina non la stava trattando male. Ogni tanto le cambiava il panno umido sulla fronte, invitandola beffardamente a sedersi un po'. Seppur febbricitante, non stava soffrendo poi molto. A farle male era la parte poco più su rispetto alla ferita, completamente indolente. Provò a muovere le dita dei piedi, senza successo. Non aveva dubbi sulla riuscita dell'attentato. Si accarezzò il busto, sentendo il suo stesso tocco fino all'ombelico. Più giù, niente. La regina della notte sorrise.

«Una grave perdita, quella» commentò, coprendosi il viso con una mano. Miranda alzò un sopracciglio, per nulla divertita. Non avrebbe nemmeno saputo dire se l'altra si aspettasse realmente una risata alla squallida battuta.

«Non per me. Per te forse lo sarebbe stata» ribatté secca. «Non che tu abbia altri modi di ottenere qualcosa, ormai. Spero solo che non ti abbia bruciato anche quella»

Infastidita, la regina distolse lo sguardo, poi decise che non valeva la pena offendersi. Miranda era seduta sul balconcino. Non poteva spostarsi di sua volontà, ma aveva comunque preteso di prendere un po' d'aria, e Domina aveva pensato che potesse essere divertente assecondarla, almeno nei primi tempi. Le mise le braccia attorno al collo.

«Non temere, io sarò le tue gambe, e tu le mie braccia» cinguettò dolcemente.

«E la testa?» chiese Miranda. Le sembrava una domanda più che legittima.

«Quella ce l'abbiamo entrambe» rispose Domina, baciandole una guancia. «Non preoccuparti, penso a tutto io. Ho già mandato un sicario sulle tracce di Jamil, quindi basterà aspettare che lo scarichi qui e torneremo esattamente come prima»

«Beh, grazie mille, ma io ero esattamente come prima fino a ieri. E le nostre teste non valgono uguale: la mia ha ancora i capelli» ribatté la ragazza. Non si aspettava veramente che la perdonasse solo perché si stava prendendo fintamente cura di lei?

Si coprì gli occhi, immaginando di chiedere alla bionda di spegnere la luce, ma realizzò ben presto di non poterlo fare. Si voltò immediatamente verso Domina, per godersi la sua reazione. La regina della notte spalancò gli occhi, poi si coprì la bocca, orrificata. Il primo pensiero fu la delusione che doveva aver appena suscitato in sua madre, ovunque ella fosse. Il secondo, il più razionale, fu che qualcuno doveva aver attaccato il suo regno e aver vinto. Non poteva nemmeno immaginare che a distruggere il suo mondo fosse stato lo stesso patrono della città. Si asciugò rapidamente le lacrime, ancora incredula. Aveva ucciso Pamina, Tamino era morto. Che fosse stato Sarastro?

«Sembra che tu non abbia pagato abbastanza le tue guardie» commentò cinicamente Miranda, approfittando del momento di vulnerabilità della giovane.

«Oh, per l'amor di Seth...taci!» urlò, tappandosi le orecchie per non udire i festeggiamenti degli studenti. L'altra si stiracchiò pigramente, soddisfatta. La vide correre verso lo Specchio, affannandosi per raggiungerlo.

«Tranquilla, mica ti corro dietro» squittì ancora la giovane, guardandosi le gambe. Si augurò che non le venissero piaghe da decubito.

«Specchio, schiavo dei miei desideri, cos'è successo al mio regno, fiorente fino a ieri?» domandò, in singhiozzi. Si aggrappò alla sua cornice, come se volesse scuoterlo.

«Si direbbe che Seth abbia distrutto il Regno della Luna. Forse era ubriaco» commentò scocciato lo Specchio. Era assurdo che si permettesse di parlargli subito dopo aver mutilato la sua protetta. «Non è tutta questa grande perdita»

«Seth?!» strillò l'ormai ex regnante, mettendosi le mani sul capo, inconsciamente aspettandosi di trovare i suoi soffici ricci biondi. «Non capisco, ho sempre bruciato per lui parte del mio pranzo. Nei giorni del mio compleanno sacrificavo a lui buoi, pecore, schiavi!»

«Evidentemente non era abbastanza» rispose lo Specchio. «Se fossi stata realmente una sua protetta, dubito che ti avrebbe fatto saltare il pranzo»

Prima che la declassata sovrana potesse dire qualcosa, lo specchio si appannò contro la sua volontà, protestando. La donna vide apparire il familiare volto del dio, e tirò un sospiro di sollievo. Se l'avesse realmente odiata, non sarebbe di certo venuto a parlarle. Seth tentò di ripulire la superficie, ma dopo qualche tentativo fallito decise di annunciare prima l'accaduto.

«Quello che lo Specchio vi ha detto è vero. Sono stato io a distruggere il Regno della Luna, sotto ordine di Ra, a sua volta sotto ordine di un certo...Jamil. Non so cosa fosse. Insomma, come ben sa, oggi si è svolta la Messa al Bando del Chaos, festa che io ripudio totalmente. Ci ha offerto quelle che sembravano caraffe di sangue ma che, in realtà, erano colme di birra tinteggiata di rosso. Come fece Ra con sua figlia Sekhmet. Eravamo ubriachi, ed è rimasto così impressionato dal trucco che ha deciso di ricompensarlo facendo esaudire un suo desiderio a ciascuno di noi. A lui ha chiesto una voce, a me di distruggere il suo regno. Avrei voluto oppormi, ma sa, Ra è Ra. Non ci si può opporre al creatore degli dei» spiegò rapidamente Seth, continuando i suoi fallimentari tentativi di vedere il volto della ragione.

Domina scoppiò a piangere, disperata. «Dovrò ricostruire tutto!» singhiozzò, e Seth mugugnò qualcosa, facendosi coraggio.

«Veramente... tutto è perduto. Il paese è sprofondato negli abissi della terra» bofonchiò il dio, ottenendo solo urla isteriche da parte della regina. «Suvvia, non la prenda così male. Mi faccia asciugare le lacrime da quel bel faccino. Lo specchio è appannato, lo pulisca per me»

Ancora in lacrime, Domina ripulì la superficie con la manica, aspettandosi una lunga serie di complimenti e consolazioni. Accennò un sorriso. Seth, invece, urlò.
«Questa non è la Regina della Notte! Questo è un grottesco mostro non può certo essere la bellissima Domina Asteria che conosco!» strillò, e svanì immediatamente. Lo Specchio accennò una risatina, Miranda si lasciò andare a risa sguaiate.

«Jamil...» strillò l'ormai decaduta regina. «Aspetta solo che io metta le mani su di te!»

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Fortuna volle che il primo ad incontrare il vero Khalil fosse Kay. Il legittimo principe di Agrabah aveva preferito prendere una scorciatoia per la sua stanza, arrampicandosi sui cornicioni e saltando da un balconcino all'altro. Gli piacque molto poter riprendere a fare acrobazie, per anni messe da parte a causa dell'Accademia. Arrotolò, nonostante le sue proteste, il tappeto volante sotto il braccio, e si diresse verso la sua ala del palazzo. Non dovette nemmeno entrare nella sua camera per incontrare l'impostore, accompagnato dal suo bicchiere di latte mattutino. Khalil alzò un sopracciglio, poi posò lo sguardo sui lunghissimi capelli della sua copia, istintivamente allungando la mano per sentire i suoi. Corrucciò la fronte.

«Ti hanno tagliato i capelli?» domandò con naturalezza Kay, sorseggiando il latte. Si pulì le labbra con la manica del pigiama, e il principe si chiese se fosse quella l'impressione che aveva trasmesso al Gran Maestro.

«Tu che dici, Kay?» domandò il più alto, scocciatissimo. Qualcosa doveva essere andato storto nella creazione del principe delle nevi, perché sembrava essere nato senza alcun buon senso. Non solo si era intromesso nel suo palazzo, prendendo illegittimamente il suo posto, ma aveva anche l'estremo coraggio di fare battute sui suoi capelli e di pulirsi la bocca con uno dei suoi vestiti?

«Non credo sia il taglio che ti valorizza di più» continuò imperterrito Kay, poi fece una smorfia. «Come fai a sapere che sono Kay? Potrei essere chiunque. Potrei essere Jamil, per esempio. O Miranda» aggiunse, vagamente sorpreso. Non si aspettava certo di essere smascherato così rapidamente.

«Non conosco nessuno che beva latte freddo con così gusto» sospirò amaramente il principe, poi lo afferrò fermamente per un braccio. Per un attimo pensò a quanto fossero condizionabili i suoi genitori se avevano davvero creduto che qualche anno a scuola potesse cambiargli personalità così drasticamente.

«Almeno andiamo in camera a discuterne, non vorrei che qualcuno ci vedesse» aggiunse, e il principe delle nevi non ebbe ragioni per dissentire. Almeno non aveva immediatamente cercato un approccio violento, e questo bastava a farlo rimanere tra i Sempre. Attraversarono in silenzio il corridoio. Ogni tanto spiava il vero principe, domandandosi se dovesse sentirsi a disagio per averlo visto nudo.

«Non potresti riprendere il tuo vero aspetto?» chiese Khalil. «Credo sia più facile risolvere la situazione senza avere un clone attaccato alle calcagna»

«Ormai mi sono abituato» si lamentò l'altro, stiracchiandosi. «E poi come la spiegheresti a tua madre? Che hai improvvisamente deciso di tagliarti i capelli da solo? E poi come spiegheresti me?»

«Tu non sei contemplato nel mio piano, Kay» esclamò il principe, genuinamente sorpreso. «Devi andartene. Di tutti noi, saresti l'unico a dover stare all'Accademia. E invece sei a casa mia a fingere di essere me!»

«Non so dove andare» si lamentò il Gran Maestro, piantando i piedi a terra. Non aveva intenzione di sloggiare dal palazzo senza preavviso. Ormai si era abituato ad essere servito e riverito, e, sotto sotto, si era anche affezionato ai genitori del vero principe. Si era convinto che difficilmente avrebbe ritrovato all'Accademia un giocatore di scacchi come Aladino. Ed era bello potersi confidare con una madre, anche se non era la sua. Era un po' prepotente da parte sua chiedere di rimanere, ma non era la cosa peggiore che avesse mai fatto. Avrebbe potuto convivere con i sensi di colpa.

«A scuola!» strillò il più alto. «È il tuo compito sorvegliare l'Accademia. Hanno tentato di spodestarti più volte e ti sei sempre battuto per il tuo titolo. E adesso vuoi rimanere a casa mia da parassita? E smettila di essere me, riprenditi la tua faccia»

«Non voglio e non puoi costringermi a farlo» si impuntò il principe delle nevi. «E poi non voglio abbandonare i nostri genitori»

«I nostri genitori?» ripeté l'altro, esterrefatto dalla sua presunzione.
«Esatto» rispose il Gran Maestro, e Khalil non ci mise molto a mettergli le mani al collo. Prima che Kay potesse esalare l'ultimo respiro, entrambi chiusero gli occhi, infastiditi da un improvviso bagliore. Si guardarono attorno, alla ricerca della fonte di luce. Poi entrambi si precipitarono sul balcone, estasiati. Dopo lunghe, interminabili settimane passate nella completa oscurità, finalmente la Luna lasciava il posto al fratello maggiore. Le dune, al buio divenute trappole mortali, tornarono ad essere amichevoli montagne dorate, prive di alcun pericolo. Khalil inspirò profondamente, pregustandosi l'odore della calura che sarebbe sopraggiunta da lì a poco. Perfino il principe delle nevi, costantemente in fuga dal caldo, parve apprezzare particolarmente lo spettacolo. Subito l'altro si rattristò, convincendosi di aver perso il momento perfetto per un bacio.

«Molto bello, ma torniamo al punto. Dicevo, non voglio andarmene» pigolò Kay. Khalil lo spinse, facendolo accidentalmente cadere dal balcone. Si augurò che il cadavere non mantenesse le sue sembianze e corse via.

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«È un bellissimo tramonto, Keiichi» mormorò Melody, avvicinandosi al fidanzato, scivolando sulla ringhiera del balcone.

«Caso mai, è una bellissima alba» la corresse il principe, che non aspettava altro. Amava correggere le persone nel torto, ma non disprezzava nemmeno convincere le persone nel giusto di sbagliare.

«Ad ogni modo lo trovo il momento perfetto per concepire il nostro primo nato. Come ti ho detto ieri, Khalil non può essere il padre del bambino di Shinju. Quindi dobbiamo essere per forza noi i primi» spiegò la ragazza, cercando di convincerlo.

«Sarebbe divertente se Kay tornasse con un bambino» la stuzzicò Keiichi. «Anche se la vedo poco probabile»

«Non dirlo nemmeno per sogno! Dobbiamo essere i primi in tutto e per tutto. Già immagino i nostri figli prevalere sugli altri. Non sarebbe divertente?»

«Essere più grandi non significa necessariamente avere le capacità per prevalere sugli altri» mormorò il principe, pensoso.

«Giusto. Tu ne sei un chiaro esempio» concordò Melody, senza alcuna malizia. La cosa infastidì comunque il corvino, che si voltò drammaticamente verso la compagna. In quel momento la giovane notò la somiglianza dell'amato con un pinguino, almeno cromaticamente parlando. Ma non osò dire niente.

«Senti Domina come urla» rispose Keiichi, cercando di non dare troppo peso al commento della fidanzata. «Sembra che ce l'abbia con Jamil. Forse si è messo con suo marito»

Melody gli mise un braccio attorno alla spalla. Il corvino lo rifiutò prontamente, ma la ragazza persistette finché non si arrese.
«In realtà mi annoio, Keiichi. È per questo che insisto tanto sul volerti ingravidare. Non facciamo niente di niente, stiamo sempre insieme e questo mi rende felice. Ma se vuoi davvero dedicarti al male, forse dovresti iniziare ad uscire dalla stanza e compiere gesta eroiche e maligne»

«Scusa, hai appena detto che vuoi ingravidarmi?!»

«Io non voglio che la nostra fiaba finisca in modo ridicolo. Non voglio essere solo un personaggio secondario utilizzato per riempire il vuoto tra una scena importante e l'altra. Voglio riavere la mia rilevanza. Tipo quando ho tentato di uccidere Kay. Non dovrei essere così nostalgica di quei tempi. Non erano belli. Ma era tutto più facile per noi. Eravamo amici o nemici. Non c'erano tutte queste vie di mezzo. Forse dovrei andare a parlare con Ryuu. Dovremmo abbattere Kay una volta per tutte, ma fatto questo, cosa ci rimane? Siamo statici, Keiichi» sospirò la fanciulla, prendendogli una mano.

«Scusa Melody, ma temo di essere rimasto fermo al punto in cui hai detto di voler ingravidarmi»

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Improvvisamente indossare un pesantissimo pastrano nero non gli parve più quell'idea geniale avuta alla partenza. Sapeva benissimo che scoprirsi non era molto saggio nel deserto, ma d'altra parte credette veramente di essere in punto di morte. Si tolse perfino il cappello per farsi aria. Darling, annoiata, si voltò, tentando di mordere una gamba al padrone.

«Perché mi vuoi morto?» piagnucolò il cowboy, ancora ignaro dell'alba. Per ripicca l'animale prese a mordere la manica della giacca, lasciata a penzoloni. «Sei l'unica donna della mia vita e mi tratti così. A proposito, ti sei assicurata che Bucefalo liberasse lo sceriffo? Non vorrei averlo sulla coscienza...con questo caldo, poi. Di questo passo la sigaretta mi si accenderà da sola» bofonchiò. Si ritrovò a coprirsi gli occhi con la mano. Per un attimo pensò di aver perso la visiera del cappello.

«Ma non mi dire che è sorto il Sole» commentò, tanto per far conversazione. «Immagina la gioia dei ragazzi a casa, Darling. Scommetto che saranno già corsi tutti a tuffarsi nel fiume. Non sarebbe male farsi una nuotata, ora, sai? Però non credo valga la pena deviare dal nostro percorso. Credo anche di vedere il Regno del Sole, o quel che è» borbottò, segretamente invidioso di chi poteva godersi l'alba. Percepì solo una fastidiosa luce, dolorosa specialmente per l'occhio chiaro. Darling nitrì. Le mancava Bucefalo.

«Speriamo che quel cosino blu sia collaborativo. Voglio tornarmene a casa il prima possibile»

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Alla fine la voglia aveva indovinato. Dario sorrise, immerso nell'alba colorata. In un attimo tutte le sue preoccupazioni si sciolsero come neve al sole, e poté godersi il tepore della luce. Vide le piante improvvisamente rianimarsi, e tutto riprendere colore. Sarebbe stata dura ricominciare, ma era finita. Si chiese chi mai fosse la causa dell'improvviso ritorno del dì, ma decise di non pensarci troppo e, per una volta, di godersi semplicemente i risultati. Naturalmente l'idillio non durò a molto, turbato dalle urla furibonde di Domina. Anche lui al posto suo sarebbe stato arrabbiato con il mondo, ma fece fatica ad immedesimarsi nella donna. Che la perdita dell'empatia fosse il primo passo verso la guarigione? Suppose che fosse così, finché non gli si affiancò Shinju, singhiozzante. Alzò gli occhi al cielo ancora prima di sentirla parlare.

«Come farò? Non posso certo crescere questo bambino tutta sola! Non voglio fare la fine di mia madre, guarda come sono uscita io!» pianse la fanciulla, fingendo di non essersi resa conto di essersi accostata ad un papabile marito. Improvvisamente sorrise.

«Oh, ciao Dario!» lo salutò cordialmente, avvicinandosi a lui passetto per passetto. «Che bell'alba, hai visto?»

«Sì, molto. È bella soprattutto perché non si vede da molto tempo» commentò l'uomo, decidendo che la ragazza non fosse giunta per infastidire, come suo solito, ma per godersi lo spettacolo delle luci. Fu, naturalmente, immediatamente smentito.

«Ti andrebbe di crescere mio figlio?» domandò Shinju, senza alcun pudore. «Magari potrebbe anche somigliarti. Sai, è che ho solo altre quattro opzioni. E sono quattro polpi. Per quanto siano ben educati, non mi pare comunque il caso» aggiunse, nel vedere la faccia sconcertata del povero Dario.

«Non credo che funzioni così» sospirò il giovane, ma furono entrambi distratti dal passaggio di una lumaca. Era piuttosto grossa, e trovarono interessante come riuscisse comunque a bilanciarsi sulla sottilissima ringhiera.

«La pacchia è finita!» esclamò la Lumaca. «Moriremo tutti presto! Oh, ciao Dario. Tua madre mi ha parlato molto di te. È da quando sei nato che cerco di raggiungerti. Come stai?» chiese, cambiando radicalmente tono. La principessa fece una smorfia. Quella bestiola le aveva rubato le attenzioni del suo futuro marito.

«Bene ma...credevo seguissi mia madre. Non sei la sua cameriera?» domandò il giovane, confuso.

«Se l'avessi seguita fedelmente a quest'ora sarei in catene! Se ami qualcuno devi lasciarlo andare!»

Dario ci pensò. Chissà, forse era vero.

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