09 ☆ La fine del mondo (I)
Per chi avesse già letto: la scena finale é diversa e corretta :> quindi potete passare direttamente a quella
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Il primo istinto di Kay fu quello di nascondersi dietro il tronco di un albero, spiando paurosamente i due sconosciuti. Strizzò gli occhi e si accucciò, sperando di non essere visto. Cosa ci facevano due abitanti della Selva Incantata nei pressi di Gavaldon? Non era impossibile arrivarci? Deglutì e si sforzò di ragionare, ma non gli veniva in mente nulla. Se quella tremenda cittadina era un isolante, metteva freno anche alla sua neo acquisita conoscenza di Gran Maestro. Man mano che i due si avvicinavano, le loro fattezze si facevano più chiare e definite, e uno di loro gli sembrava quasi familiare. Inclinò il capo debolmente.
Thomas?
Sì, quello era Thomas, ne era sicuro. Ma come aveva fatto ad arrivare fino a Gavaldon? Dubitava seriamente che Dario gli avesse dato il permesso. Forse era scappato. Ma specialmente, perché era venuto a Gavaldon? Si soffermò sulla figura accanto a lui. Una donnina di poco più bassa di lui, con un colorito della stessa sfumatura delle pesche mature, grossi occhi dalle iridi cremisi e denti gialli. Notò con stupore che non muoveva le orecchie, ma forse era solo abituato a quelle che andavano per conto loro dei suoi compagni di classe. La donna abbassò il capo, e Kay si sentì almeno un po' minacciato dalle grosse corna. Poi, da lontano, lei lo indicò e scoppiò a ridere sonoramente.
«E tu stai cercando di convincermi che quello lì è il Gran Maestro?» rise Bellium, dando un'energica pacca sulla spalla del povero ragazzino.
«Ti giuro che lo é! Sei scettica solo perché non l'hai mai visto all'opera» ribatté indispettito il castano, incrociando le braccia sul petto. Anche se a guardare Kay circondato da tutte quelle pecore iniziava a dubitare anche lui di quello che diceva.
«Non sono scettica, sono proprio convinta» rispose la succube. «Ma io sono qui solo per il mio riscatto» bofonchiò. Poi abbassò lo sguardo su quelle nuvolette che circondavano il Gran Maestro, convinto di essersi nascosto così bene da essere praticamente invisibile.
«Cosa sono quelle cose?» domandò, indicandole e girandosi verso Thomas.
«Sono pecore» rispose lui, un po' perplesso dalla domanda.
«Che creature curiose. A cosa serve quella nuvola che hanno addosso? Sono per caso divinità?»
«Quella "nuvola" si chiama lana. Noi la usiamo per farci i maglioni e le coperte. Sono creaturine molto utili, sai? Fanno anche il latte. Il formaggio di pecora mi piace un sacco. E devo dire che costa anche un po'. E poi anche la carne di pecora non é malissimo» spiegò lui, sbattendo le ciglia.
«Creature interessantissime. Parlano?»
«Beh, no. Belano»
«Be-Belano?»
«È il loro verso»
La succube si abbassò. «Meravigliose. Sembrano molto morbide e sono carine»
«Se ti piacciono così tanto potresti chiederne un paio come riscatto. Scegli un maschio e una femmina, così poi avrai anche la possibilità di vederne una piccolina»
«Sono capaci di riprodursi?»
«Certo, perché?»
Bellium sospirò. «Noi succubi non possiamo riprodurci tra noi, perché gli incubi sono tutti infertili. Quindi di solito rubiamo lo sperma degli uomini»
Thomas trattenne un conato di vomito.
«Cos'è quella cosa che hai appena fatto?» domandò la succube.
«Trattenevo un conato di vomito» rispose lui, paonazzo.
«Okay. Dicevo, ma di solito non funziona comunque. Beate le pecore che possono riprodursi e far nascere del pecorino»
«Il pecorino é un...beh, non fa niente»
Kay si avvicinò cautamente, usando Damiana come scudo. Anche i due fecero qualche passo in avanti, ma prima che potessero salutarsi, una scossa fece tremare violentemente la terra. Gli uccelli della foresta si sollevarono in volo, strillando spaventati e interrompendo i loro canti. Gli animali cacciarono ululati, e diversi alberi caddero inerti. Il principe delle nevi strizzò gli occhi, e fu piuttosto certo di vedere giovani ninfe dei boschi cercare di salvare il proprio albero, mentre quelle più vecchie correvano verso i fuscelli deboli, tentando miseramente di evitare che cadessero e uccidessero le neonate ninfette. La cosa più terrificante di quel terremoto non era solo l'immensa potenza, era che non sembrava fermarsi.
Kay allungò il braccio verso Thomas, ma Bellium lo stava già tirando verso la Selva.
«Cosa sta succedendo?» chiese terrorizzato il ragazzino.
«Credo proprio che stia succedendo» mormorò lei, senza rispondergli davvero. Inizialmente lui pensò si fosse solo confusa, e si girò verso Kay, ancora bloccato a Gavaldon. Allungò la mano verso di lui, ma Bellium stava andando in tutt'altra direzione. Si voltò verso di lei, cercando di liberarsi dalla presa. Ma la succube non stava parlando con lui.
Davanti aveva un incube – credeva che le incubi si chiamassero così? — altrettanto preoccupata. Con la pelle verde foresta e una parrucca bionda sul capo, un po' storta e acconciata in due lunghe trecce, aveva afferrato le spalle di Bellium. Sbattendo le ciglia che coprivano i suoi brillanti occhi rosa, aveva iniziato a blaterare cose che Thomas non capiva.
«Che succede?» domandò nel momento in cui le due smisero di confabulare. Un albero era caduto proprio davanti a loro, e gli impediva di vedere Kay.
«Lo Zeniith ha problemi» spiegò breve e coincisa Bellium, senza mai lasciargli il braccio, anzi affondandogli le unghie laccate nella carne.
«Cos'è lo Zeniith?» piagnucolò il ragazzo.
L'incube sospirò. «Il pilastro che regge la Selva. Forse lo conosci con un'altro nome. Le fate lo chiamano Hin, i draghi Nakir. I demoni Zeniith. É il portale dei jinn, e regge la superficie. Voi umani lo chiamate l'Occhio»
«Perché ha problemi? Cos'è successo?»
«Non lo so con certezza. A quanto pare qualcuno non é riuscito a passarci...senti, coso, é troppo difficile da spiegare ad uno che non sa cos'è la magia e come funziona»
«E non si può risolvere?» piagnucolò Thomas, stringendosi a Bellium.
«Perché non ci avevamo pensato!» esclamò l'incube. «Ci staranno già lavorando gli afarit»
«Lo spero» mormorò il ragazzo, chiudendo gli occhi e sperando disperatamente che il terreno smettesse di tremare.
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Kay d'altra parte, aveva fatto la cosa che gli veniva meglio: scappare. Una volta che l'imponente albero della Selva era crollato e gli aveva impedito di vedere Thomas, era corso verso l'interno del villaggio, completamente nel panico e dimenticando che sicuramente sarebbe stato accusato del terremoto. Non pensava che avrebbe mai visto qualcosa di peggio della glaciazione da lui stesso provocata, ma a quanto pareva esisteva. Carolina correva verso di lui, completamente nel pallone. Gli si aggrappò addosso come un koala.
«Che sta succedendo?» scoppiò in lacrime. «La nostra casa é crollata!» esclamò, affondando la faccia sul petto di Kay e usando il suo maglioncino come fazzoletto per il naso, disperata.
«Non ne ho idea! Magari é un fenomeno naturale» mormorò lui, cercando di consolarla.
«Kay, i terremoti non durano così tanto. Sono dieci minuti, o anche di più, che la terra trema!»
«Io non so che fare!» spiegò il principe delle nevi, quasi irritato. Perché tutti si aspettavano che facesse qualcosa?
«Non puoi usare i tuoi poteri? Sei il Gran Maestro!» singhiozzò la bionda. «Mamma e papà sono sotto le macerie. Il papà di Thisbe é sotto le macerie! Fai qualcosa!»
«Non ho più nessun potere!» strillò l'uomo indietro, e vide la ragazza deglutire e cercare disperatamente di ricacciare indietro le lacrime. Non voleva spaventarla, specialmente in un momento così delicato. E invece ci era riuscito.
«Scusa» bisbigliò lei. Il ragazzo vide con la coda dell'occhio un albero dondolare pericolosamente, mentre tre donne dal colorito verdastro e lunghi capelli composti di liane e fiori cercare di reggerlo, facendo forza con la loro schiena. Fu un attimo, ma gli bastò per tirare via la ragazzina prima che la quercia cadesse. La bionda si seppellì ancora di più tra le sue braccia, mentre lui guardava le ormai due donne compiangere la terza, morente. Quel terremoto doveva cessare, immediatamente. Ma cosa poteva farci lui?
Si abbassò e attaccò l'orecchio al suolo. Prese un bel respiro. A prescindere da dov'era, era pur sempre il Gran Maestro. Si rialzò immediatamente, non appena sentì una sorta di scossa risalirgli su per l'orecchio e percorrergli tutto il corpo, prima di schizzare di nuovo nel suolo attraverso i suoi piedi. Ci ragionò rapidamente.
«È l'Occhio» mormorò. «È l'Occhio che non funziona!»
«Cos'è un occhio?» singhiozzò Carolina.
«Te lo spiego appena posso. Trova un posto senza alberi e senza edifici» disse lui, e corse verso il confine di Gavaldon.
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«Ti sto dicendo che é una pessima idea» mormorò Rossana, grattandosi preoccupata la testa. Non si ricordava nemmeno chi aveva suggerito a Xiaolong quella pessima idea di trasformarsi in un drago e sfondare la torre dov'era prigioniera Kazuha.
«Non ti preoccupare per me, bella» rispose la dragonessa, continuando i suoi esercizi di stretching senza curarsi delle possibili conseguenze di quel gesto esagerato.
«Non sono solo preoccupata per te. Hai idea di quanto sia grande quella torre? Se le dai un colpo con la coda getterai giù anche tutte le altre persone»
«Non vedo il problema» rispose l'ex insegnante, alzandosi dal tappetino.
«Che potrebbe cadere anche Kazuha» sbuffò la castana.
«E la recuperemo» ribatté l'altra.
La piratessa non poté che alzare gli occhi al cielo e sedersi sulla panca, mentre la dragonessa prendeva un bel respiro e si preparava mentalmente a prendere la sua vera forma.
«Scommetto che Keiichi non ci riuscirà mai» gongolò un po', poi si mese di nuovo a sedere a gambe incrociate. Rossana la guardò levitare in aria, concentrata. Proprio mentre una nebbia rossastra stava iniziando ad avvolgerla, la terra iniziò a tremare.
«Non mi avevi detto che tra gli effetti collaterali c'era un terremoto!» biascicò Rossana, cercando di mantenersi in equilibrio ed allontanandosi prudentemente dagli edifici circostanti.
«Infatti non c'è!» grugnì Xiaolong, interrotta a metà trasformazione. Riprese velocemente le sue sembianze umane.
«Questo é molto strano» aggiunse. «Molto, molto strano. Da quanto tempo sta durando il terremoto?»
«Una decina di minuti?»
«Male, molto male. È un terremoto anomalo»
«Cos...cosa intendi?» biascicò Rossana.
«Sei fortunata che io sia un'insegnante e sappia queste cose» esclamò la dragonessa, tirandola verso il centro, lontano da alberi e cose che potessero cadere.
«Cioè? Che succede?»
«Qui sotto c'è il pilastro della terra, il Nakir. È un conduttore di magia, ma non deve entrare in contatto con il terreno. Per questo usano la coppa di Pandora, un qualcosa che tiene il portale separato dal terreno per non causare terremoti»
«Si é rotta la coppa?» domandò confusa l'umana.
«Improbabile. Si é connesso un conduttore e sta scaricando tutta l'energia sul suolo. L'energia si muove in verticale se passa per un isolante, cioè la terra, quindi ha raggiunto anche il loro soffitto, cioè il nostro suolo. E quindi c'è un terremoto»
«Non ho capito molto bene»
Xiaolong sbuffò, irritata. Di solito la sua classe capiva al volo, ma spiegare la magia agli umani era più difficile.
«Gli unici conduttori per la magia sono le persone fatte di materia celeste o celestiale, dì come ti pare, tanto ti capiscono. Gli umani sono isolanti, i mezzosangue sono generalmente isolanti. Gli unici conduttori sono angeli, che sono morti, demoni e jinn. Forse anche un po' le fate, ma non sono una razza celestiale. Evidentemente uno di questi demoni ha toccato il Nakir, ci é rimasto appiccicato e la magia sta scendendo usando lui come percorso. Poi risale perché entra a contatto con un isolante»
«Ma gli isolanti non dovrebbero isolare?»
«Non con la magia!»
«E non possiamo fare niente?» esclamò Rossana.
«No. Devono risolverla loro. Se riescono a risolverla prima che si spacchi il terreno e la Selva vada a puttane»
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«Cos'è successo al tuo occhio?» mormorò Khalil, guardando la palpebra violacea di Domina, cercando di sembrare il più disinteressato possibile.
«Miranda mi ha tirato un pugno» rispose lei, facendo spallucce.
«Ti ha tirato un pugno?» domandò lui, anche più perplesso.
«A volte si arrabbia» spiegò la bionda, senza scomporsi più di tanto. «Speravo in una punizione un po' più romantica, se posso dire la mia. Ma che ci vuoi fare»
Il castano cercava disperatamente di non fare contatto visivo. Non sapeva nemmeno cosa ci aveva trovato per quei brevi tempi in cui si era perdutamente infatuato di lei. La sola sensazione che provava a stare accanto a lei gli strizzava lo stomaco e lo costringeva a respirare piano, cercando di non vomitare e di non farsi prendere dal panico.
«C'è qualcosa che non va, Khal?» chiese lei, sforzandosi di vedere la sua espressione.
«Niente. Niente. Sono preoccupato per te, ecco. Non é normale che Miranda ti prenda a pugni se ha una cattiva giornata»
«Sai, non è mica una principessina come voi. I cattivi si arrabbiano. I cattivi sono furiosi. E poi sono io ad aver sbagliato»
«Ada mi ha raccontato che...hanno provato a scappare. Perché l'hanno fatto?»
Domina sorrise. Anzi, rise proprio. «Pensi davvero che fare lo stupido ti salverà la pelle? Credi che io non sappia che hai fatto scappare Dario?»
«Pensavo di no?» rispose lui.
«Beh, e invece lo so» rispose lei, passandogli un dito sulla guancia. «E non solo lo so, ti posso anche assicurare che non servirà a nulla chiedere l'aiuto della tua mammina. Abbiamo il Narrastorie, Khalil. Chi potrà mai fermarci?»
«Sono sicuro che...»
«Certo. Jamil tornerà da te e scapperete insieme» lo prese in giro lei, strizzandogli le guance.
Il bicchiere sul comodino cadde a terra.
«Che succede?» mormorò Domina, guardandosi attorno. Tutti i mobili tremavano, e le cose cadevano a terra, spaccandosi in frantumi.
«Un terremoto» sibilò Khalil, alzandosi in piedi, ma la bionda fu più veloce a schizzare fuori e a chiudersi dietro la porta a chiave.
Il castano sospirò, e si affacciò alla finestra. In realtà non avrebbe dovuto avvicinarsi a parti pericolanti, ma il vetro era già esploso. Prima o poi avrebbe chiesto un rimborso per tutte le volte che si era dovuto trasformare in un disgustoso pipistrello. Non era nemmeno il caso di sfoggiare le sue abilità di parkour, un po' perché non c'era nessuno da impressionare e un po' perché gli edifici tremavano tutti e rischiava di cadere malamente. Non che fosse una questione di vita o di morte, più di figuracce. Certo che Domina ci teneva parecchio a lui.
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Kazuha stava veramente pensando di collaborare con Miranda. Non é che volesse aiutarla, o altro, é che stava iniziando a patire la solitudine, l'aria viziata, tutto. Stava impazzendo. Al prossimo piatto di riso bianco (perché gliene avevano portati così tanti, poi?) sarebbe completamente e totalmente uscita di capoccia. L'unica cosa da fare era giocare col modellino del Narrastorie e cercare di capire cosa aveva di speciale. La verità è che non aveva niente di niente che potesse attirare l'attenzione. Era un semplice, stupido e inutile pennino. Lo lanciò contro la parete, e il modellino di pessima qualità si spezzò in due. La ragazza ci si avvicinò gattonando, sollevando una delle due metà. Dentro era cavo. Se fosse stato un modellino accurato, sarebbe stato davvero interessante. Non c'erano ingranaggi, ordigni, qualsiasi cosa che potesse far funzionare qualcosa di meccanico. Era semplicemente vuoto. Ora, immaginando che il Narrastorie fosse davvero vuoto, cosa lo muoveva?
Beh, quel mondo era governato dalla magia. Sorrise allegramente. Aveva senso! Scorreva la magia. Si alzò in piedi, felice delle sue scoperte. E proprio in quel momento si rese conto che non riusciva a stare dritta: il pavimento stava tremando violentemente. Un terremoto?
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Ryuu aprì gli occhi, rantolando, e cacciò un urlo. La faccia di Melody a meno di dieci centimetri dalla sua poteva essere davvero terrificante, specialmente quando dormiva con gli occhi aperti. Fece per spostarla con un dito, ma non gli riuscì. Gli facevano malissimo entrambe le braccia. Si voltò verso il braccio destro e lo esaminò con calma. Sembrava tutto normale, al massimo era un po' livido e indolenzito, ma niente di grave. Aprì e chiuse il pugno diverse volte, poi si decise a esaminare l'altro, che invece sembrava proprio non volersi muovere. Sollevò la copertina e cacciò di nuovo un urlo, questa volta per una ragione del tutto plausibile.
Il braccio sinistro non c'era. Poteva seguire con lo sguardo l'arto fino al gomito, e poi non c'era più niente. Niente di niente. Con l'altra mano — in realtà l'unica restante — cercò disperatamente di trovare l'altra, ma senza successo. Cos'era successo? Oh, forse se lo ricordava. Aveva provato ad attraversare il cancello e poi si era chiuso di netto. Singhiozzò, asciugandosi le lacrime con l'unico braccio che gli rimaneva. A quel punto Melody parve svegliarsi, tranquilla e pacata come un pachiderma. Si stiracchiò, si asciugò la saliva e boccheggiò un po' come un pesce per recuperare la facoltà di parola. Poi si sgranchì le gambe e solo allora rivolse l'attenzione alla compagna di stanza, o meglio, di cella.
«Perché urli?» chiese tranquilla, sbattendo le palpebre come una rana: prima una, poi l'altra.
«Non so se hai notato che non ho un braccio!» strillò la rossa, terrificata e orrificata dalla mancanza di tatto dell'amica.
«Ma da ieri. E poi guarda qui, Domina mi ha graffiato tutta la schiena. Nemmeno Keiichi la graffia così, sono sicura» rispose lei, alzandosi la maglietta per far vedere i segni di guerra.
«Certe volte sei così immatura che ti prenderei a schiaffi»
A Melody venne un po' da ridere, ma poi si ricompose. «Non ti preoccupare Ryuu, ci sono tante soluzioni. Magari potremmo chiedere a Kazuha se ti fa un braccio meccanico»
«Hai idea di quanto mi faccia male?» singhiozzò la rossa.
«Come fa a farti male se non ce l'hai?»
«Si chiamano dolori fantasma» rispose la voce tetra di Miranda, da dietro le sbarre. Li esaminò inespressiva, poi sorrise.
«Spero almeno che mi ringrazierete per il lettino che vi ho fornito»
«Grazie mille, stronza! Ridammi il mio braccio!» squittì la rossa, scattando in piedi e cercando di raggiungere la strega. Alzarsi così velocemente non era stata una grande idea, perché cadde immediatamente. Melody si abbassò per sorreggerla e guardò l'altra in cagnesco.
«Hai perso molto sangue. Avremmo potuto riattaccarti il braccio, ma non mi piaceva. Quindi l'ho fatto a pezzi e l'ho dato in pasto a qualche animale. Non sono sicura di quale, però. Forse un ragno gigante?» domandò, ticchettandosi le labbra con l'indice.
«Sally?» piagnucolò la povera principessa.
«La conoscevi? Che peccato, adesso ti riconoscerà come pasto e non come padroncina. Terribile. Spero vi riprendiate presto, perché vi voglio in perfetta salute per punirvi della vostra trasgressione»
La donna si allontanò con passo svelto, mentre il rumore dei tacchi risuonava nel corridoio gelido e silenzioso. Poi si interrompe, e divenne più forte. Si stava avvicinando di nuovo verso di loro. Si appoggiò alle sbarre con aria strafottente. «Quasi dimenticavo. Dov'è Dario?» chiese, sorridendo. I due si guardarono. Era vero, dov'era finito? Non ebbero molto tempo di pensarci, perché le sbarre sembrarono tremare violentemente. Inizialmente credettero si trattasse di uno dei trucchetti psicologici della strega davanti a loro, ma lei sembrava egualmente terrorizzata. Si affrettò a risalire le scale, lasciando le due ragazze a stringersi l'una con l'altra.
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Dario fu stupito di svegliarsi su un tappeto. Specialmente su un tappeto sospeso in aria, mentre il terreno sotto di lui tremava come se non ci fosse un domani. Abbassò lo sguardo e fu contento per una volta di non trovarsi in mezzo al disastro. Stavano sorvolando la foresta incantata e gli spezzava il cuore vedere alberi cadere, ma la cosa che più lo terrorizzava era vedere i laghi incresparsi di onde. Si aggrappò con più forza al tappeto, terrorizzato dall'idea di cadere.
Perché c'era un terremoto? E soprattutto da quanto tempo stava durando? Non gli sembrava una durata normale. Di questo passo avrebbe distrutto la selva! E non era nemmeno vicino ad Agrabah, perché anche se allungava lo sguardo davanti a lui non c'erano altro che piante e arbusti millenari. Sospirò, pensando a Thomas. Sperò davvero che ci fosse qualcuno a proteggerlo, e che non fosse tutto solo e sperduto nella Selva. Chissà quanto doveva essere spaventato in quel momento. Chiuse gli occhi e decise di provare a dormire di nuovo, fallendo miseramente. Così si mise a guardare il cielo.
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Se qualcuno si fosse degnato di avvertire Keiichi che il suo compagno di viaggi sarebbe stato Jamil, col cavolo che sarebbe andato a stuzzicare Khalil. Sperava davvero che il jinn iniziasse un duello magico, in quel modo avrebbe potuto vincere di furbizia come Davide con Golia e andarsene beatamente per la sua strada. E invece no! Il genietto aveva iniziato allegramente a raccontare tutte le sue avventure prima di giungere in prossimità del pozzo dove – pensa un po'! – era piombato Keiichi non troppo prima.
Se doveva essere onesto, il corvino non stava proprio ascoltando, troppo concentrato sulla sua personale sciagura. Però aveva anche captato gli eventi principali di quello che era successo al compagno di scuola, eludendo fatti inutili come l'insalata di cetrioli che aveva mangiato a pranzo o come i suoi capelli avessero perso la tinta blu mare in favore di una un po' più chiara. Dunque, ricostruendo, Jamil era piombato in mare, proprio come lui. Solo che lui non sapeva nuotare (in effetti aveva senso. Era uno spirito del deserto. Era anche una cosa molto utile da sapere), ma appena aveva visto emergere dei marid se l'era comunque data a gambe. Keiichi non sapeva come, ma di certo era vero, visto che era davanti a lui. Poi era finito su un'isola apparentemente deserta, dove c'erano solo ragni. Era rimasto intrappolato in una ragnatela (che scemo) ed aveva incontrato Budur, la proprietaria dei terreni, che tra l'altro erano consacrati. Dunque gli aveva preso l'anima e l'aveva costretto a farle da garzone nella sua bottega inquietantissima. Dopo due anni (due anni?) era riuscito a convincere la Fata Turchina (aspetta, cosa?) a spezzare la catena, e poi se l'era filata, imprigionandola al suo posto. Quindi era ritornato in prossimità del pozzo, e scoperto visto con orrore che era stato murato. Poi però aveva visto un povero ragazzino in difficoltà ed avendolo riconosciuto (che falso) aveva preso delle sembianze non ostili che sicuramente Keiichi avrebbe preferito a lui (beh, quello era vero). Ma poi era stato sgamato, e il resto era storia.
Doveva fermare quella chiacchiera infinita in qualche modo, ma mentre si scervellava per capire come, il suo stomaco decise per lui.
Jamil si girò verso di lui. «Hai fame?» domandò, sbattendo le ciglia.
Il corvino ripensò tristemente a quelle deliziose anguille fritte che aveva lasciato nel pentolino. Forse avrebbe dovuto mangiarsene un paio prima di smascherarlo.
«Un po'? Cucinami qualcosa» ordinò, agitando la mano come quando si scaccia un animale fastidioso.
«Hai appena usato l'imperativo?» chiese il jinn.
«Sì. Avanti. Tu adori cucinare e io ho fame. Dovresti essere contento»
Jamil gli mise in mano un cetriolo. Keiichi lo guardò, scioccato.
«Cosa stai facendo?»
«Ti do da mangiare»
«Nessuno mangia i cetrioli. Meglio se lo affetto e ci faccio una maschera per il viso»
«Ma hai appena detto di avere fame! E se vuoi farci una maschera ridammi il cetriolo!»
«Ah ah, ormai me l'hai dato. Meglio morire di fame magro e senza brufoli che morire con diversi strati di tessuto adiposo come te»
«Ma non ho i brufoli. E poi, anche se fosse, quale sarebbe il problema? Ridammi quel cetriolo visto che non vuoi mangiarlo»
«Col cavolo! È mio adesso, me l'hai regalato. Dammi anche un coltellino così lo faccio a fette»
Jamil gli saltò addosso. «Ridammi quel cetriolo!»
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Dopo una lunga lottata per il primato del cetriolo, si erano decisi a proseguire insieme. In fondo non c'era molta scelta: Keiichi non parlava il jinnico, e Jamil non conosceva la strada per Khayunaq perché "la geografia gli faceva venire mal di testa". C'era ancora parecchia tensione fra loro, ma probabilmente era dovuta al fatto che un gabbiano aveva afferrato il cetriolo ed era andato via, con dispiacere di entrambi, ormai a stomaco vuoto e viso disidratato.
«Siamo arrivati?» domandò Jamil, trascinando i piedi a terra.
«È la centoquarantunesima volta che me lo chiedi. No, non siamo arrivati» rispose Keiichi, ogni secondo più incline ad una selvaggia crisi nervosa che probabilmente l'avrebbe portato ad alzare le mani.
«Manca tanto?» aggiunse il jinn, abbassando le orecchie. «Sono stanchissimo!»
«Non dovrebbe mancare tanto. Vedi quel bagliore blu? Dovrebbe essere il Nakir. Basta passare quello e dovremmo essere a Khayunaq» spiegò con tono scocciato il corvino.
Jamil sbuffò. «Che diamine é il Nakir adesso? É lo Zeniith, al massimo» lo corresse.
«Ma che cavolo ne so di che cos'è! Ti paio un jinn?» strillò esasperato Keiichi.
«Beh, é un problema tuo se poi lo chiami con il nome sbagliato e ti prendono e poi ti spellano»
«Non andrà mica così. Senti, te lo dico subito, visto che poi hai problemi a elaborare lutti e abbandoni. Non siamo amici e non siamo nemmeno conoscenti, d'accordo? Stiamo collaborando per il bene di entrambi ed una volta che non avrò più bisogno di te me ne andrò per fatti miei. Chiaro?» spiegò pacamente ed elegantemente il principe.
«Va bene. Oh, come vanno le cose a scuola? Come sta Khalil?» domandò candidamente il jinn, guardandolo allegramente ed aspettandosi qualche buona notizia sul fidanzato. Keiichi cercò di trattenere una risata, perché avere la conferma che Jamil pensasse al suo fidanzato come una sorta di Penelope impegnata e volenterosa era troppo divertente per chiunque.
«Normalmente» ribatté, ricomponendosi. «Gli manchi davvero tanto, sai?»
Non gli conveniva smascherare le corna del compagno fino a che non avrebbe raggiunto il suo obbiettivo: l'Accademia.
«Che bello! Ammetto di aver temuto di avere le corna» sospirò il ragazzo, sbadigliando, con aria più intenerita rispetto all'inizio della conversazione.
«Ma no...sai, se acceleri il passo forse arriviamo anche prima a scuola»
«Giusto» squittì lui, avvicinandosi all'amico.
Davanti a loro si stagliava lo Zeniith. Nessuno dei due avrebbe saputo dire cosa immaginava fosse prima di vederlo, ma entrambi concordavano sul fatto che non somigliasse alle loro fantasie. Come descriverlo? Era complesso cogliere la sua essenza, ma la cosa che ci somigliava di più era probabilmente l'immagine di un torrente in verticale, denso di qualcosa di un azzurro violaceo e luminescente, che si estendeva verso l'alto a mo' di pilastro. Sfiorava il suolo, ma sembrava essere contenuto in una piccola coppa dorata alla base. L'acqua si divideva al centro, e le correnti formavano una sorta di disegno che ricordava vagamente un'occhio. La "pupilla", se così era possibile chiamarla, schizzava da una parte all'altra, alla ricerca di qualcosa di interessante su cui soffermare lo sguardo. In quel momento lo Zeniith guardava loro, e sembrava curioso a riguardo.
Due enormi (o almeno per i loro standard) jinn si stagliavano ai lati dell'Occhio, guardando perplessi i due sconosciuti. Entrambi dal colorito bluastro, simile a quello di Jamil, avevano fattezze curiose. Probabilmente a distinguerli erano le vivaci orecchie feline del più alto, mentre il più basso scrutava i nuovi arrivati con iridi serpentine. Reggevano tutti e due una lunga lancia, talmente alta da sovrastare entrambi, e avevano un elmo con un simpatico pennacchio.
«Se dovete entrare a Iliviaqqil...» esordì il felino, scodinzolando allegramente e con fare rassicurante.
«...dovete attraverssssare lo Zeniith di Jalina» concluse il più basso, accentuando la s mostrando la lingua biforcuta ad entrambi.
Keiichi abbassò la testa verso Jamil.
«Che cosa sarebbe adesso questa Jalina?»
Il felino sorrise prontamente.
«La sorella maggiore del re! Ha sacrificato la sua essenza per creare lo Zeniith e salvaguardare la stirpe dei jinn. Per questo può entrare Iliviaqqil solo chi ne é degno» esclamò, soddisfatto della sua preparazione e probabilmente sognando il momento in cui sarebbe diventato guardia reale e non più guardiano di qualcosa che si autoproteggeva.
«Uno alla volta» intimò il serpente. Jamil e Keiichi si guardarono, e il jinn fece qualche passo in avanti, indeciso.
«Cosa devo fare?» domandò.
«Solo passare» rispose la guardia, scostandosi leggermente. Il ragazzo deglutì e chiuse gli occhi, facendo diversi passi in avanti finché non sentì uno scroscio. L'Occhio si era diviso in due, creandogli un varco per passare. Lo attraversò con gli occhi semichiusi, un po' timoroso di quello che lo aspettava dall'altra parte. Il tunnel che si era creato era più lungo di quanto credesse, e all'interno la magia prendeva forme inaspettate e curiose. Apparvero due mani lunghe e sottili, che gli scombinarono i capelli. Poi davanti a lui, a partire da un liquame azzurrastro, emerse una donna che gli somigliava un po'. I suoi lineamenti erano incostanti, ma da quanto era riuscito a capire doveva essere sua zia Jalina. Era molto più alta di lui, quindi si inchinò e gli diede un sonoro bacio sulla guancia.
«Javimyial» lo salutò. «Il mio unico nipotino» aggiunse con voce flebile, poi si sciolse e Jamil si ritrovò nel regno dei jinn. Toccava a Keiichi, eppure lo Zeniith non sembrava particolarmente deciso a farlo passare. Il corvino inclinò il capo: non capiva se il portale si stesse aprendo o fosse semplicemente qualche illusione atta a sviarlo. Si avvicinò, mentre l'Occhio era ancora chiuso. Sentiva la voce di...suo padre? Sì, era decisamente quella di suo padre. Da dove veniva? Perché proveniva da lì dentro? Mentre cercava la fonte del suono si avvicinava sempre di più, senza accorgersi che lo Zeniith era sigillato. Non voleva vedere suo padre, se n'era andato per questo. Ma il suono paterno lo chiamava per nome, e forse avrebbe voluto davvero un abbraccio da lui.
Jamil, dall'altra parte, vedeva l'amico come da attraverso un vetro avvicinarsi sempre di più ad un portale chiuso, che non era mai buon segno. Nel momento in cui il corvino fece per infilare la mano e venir risucchiato nel continuo rimescolamento dell'Occhio, il jinn scattò in avanti per spingerlo indietro, ignorando le grida dei jinn accanto a lui. Nel preciso istante in cui toccò di nuovo lo Zeniith, gli parve di essere folgorato. Non aveva mai provato un dolore tale, e non sarebbe nemmeno riuscito a descriverlo. Sentiva la magia scorrergli per il corpo come una scarica elettrica. Provò a guardarsi attorno, ma non vedeva nulla. Improvvisamente il terreno si mise a tremare, e allora Jamil cercò di distaccare i piedi dal suolo, senza riuscirci. Non riusciva nemmeno a staccare le dita dal portale.
Se ogni jinn patroneggiava su qualcosa, sicuramente lui era sovrano delle decisioni stupide.
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