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Il cellulare di Evan prese a squillare pochi istanti dopo che fu uscito dalla sua clinica veterinaria, al termine di un altro giorno di lavoro.
Ciò gli fece scartare a priori che potesse trattarsi di Titty – che era sempre informatissima su i suoi orari e quindi non lo avrebbe chiamato in quel preciso frangente: non lo avrebbe disturbato abbastanza – e quindi recuperò l'apparecchio, preferendo non ignorarlo.
Se ne pentì subito.
Fece una smorfia disgustata e salì a bordo della propria jeep, continuando a fissare lo schermo del cellulare nella speranza che si spegnesse, ma, quando accade, non ebbe neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo che prese a squillare di nuovo.
Si decise a soccombere ai minuti successivi di conversazione con una certa rassegnazione, rispondendo con un sospiro.
-Pronto?-
-Finalmente- rispose una voce di donna, con fare pacato. -Stavi lavorando?-
-In effetti sì, ho appena finito-
-Bene. Quindi hai due minuti per me?-
-Certo- rispose Evan, con poca enfasi e fece un'altra smorfia, poggiando la fronte contro il volante.
Erano settimane, se non addirittura mesi che non si sentivano, e lo stava chiamando di sua spontanea volontà: non gli pareva proprio il caso di remare contro a quei suoi incredibili tentativi di mantenere un rapporto con lui.
-Come stai?- si sentì chiedere e dovette trattenersi dal ribattere con una battutaccia del tipo: "Se mi chiamassi con più frequenza, lo sapresti già" però era anche vero che lo stesso Evan evitava opportunamente di contattarla, nella speranza di non farsi coinvolgere da lei in discussioni spiacevoli, perciò era anche colpa sua – perché la ragione sta sempre in mezzo – se il loro rapporto era così diluito nel tempo e privo di ogni più piccola forma di complicità.
-Bene. Tu?-
-Abbastanza bene, sì. È da un po' che non ci sentiamo-
-Sono stato molto impegnato-
"E tu? Tu perché cazzo non mi hai cercato?"
-Immagino- disse lei e il tono di voce che utilizzò fece trapelare tutto lo scetticismo che nutriva per le sue parole. Dopotutto, reputava persino il suo stesso lavoro uno spreco di tempo e di energie, nonostante Evan guadagnasse abbastanza bene come veterinario, però non era un medico che curava esseri umani, quindi per lei non era un "vero" medico. -Comunque, ti ho chiamato per sapere se hai intenzione di farti vedere almeno per Natale-
-In che senso?-
-Vieni o no a San Francisco a trovarmi?-
Evan contrasse la mascella e si pose subito in uno stato dall'allarme. Stavano per litigare? Sembrava ce ne fossero tutte le premesse e lui iniziò a sentirsi a disagio, sempre più teso. Detestava litigare – non solo con lei.
-Stai parlando al singolare, mamma- disse con voce atona, tentando di essere gentile, ma di ferma volontà: non aveva alcuna intenzione di farsi circuire da lei. -Ma io non sono più un uomo solo- ribatté e dall'altro capo del telefono ci furono degli strani fruscii, seguiti da diversi secondi di silenzio.
-Infatti. Il mio invito è rivolto solo a te- scandì Loreen ed Evan si irrigidì. Fu grato del fatto che non si trovassero faccia a faccia, non che pensasse che avrebbe finito per reagire in chissà che modo, ma, anche se non poteva vedersi, in quel momento era assolutamente certo di avere perso ogni potere di plasmare le proprie espressione facciali e immaginava di avere assunto uno sguardo truce.
"Magari avrei finito per incenerirla solo fissandola".
-Mi dispiace, ma io ho un marito e non ho intenzione di passare il Natale senza di lui-
-È una parola di cui non puoi farti vanto- ribatté Loreen.
-Siamo sposati. Legalmente sposati- sibilò Evan.
-Che la California abbia fatto passare delle leggi insensate, non mi riguarda. Se non sbaglio, tu pensi che la pena di morte sia una cosa insensata, eppure è legge anche quella-
-Stai facendo dei paragoni assurdi-
-Dico le cose come stanno. Per me la legge a cui fai riferimento non ha senso, quindi no, non sei sposato, non hai al tuo fianco una donna che possa vantarsi di essere tua moglie...-
-Mamma...-
-Quindi per me sei single-
-No, non lo sono-
-E invito solo te per Natale-
-Non posso venire a San Francisco da solo-
Ci fu qualche altro secondo di silenzio, poi Loreen riprese a parlare.
-Io il mio dovere di madre l'ho fatto e ti ho invitato a passare il Natale insieme- disse ed Evan ebbe un sussulto. -Adesso sta a te. Ciao- e la donna chiuse la conversazione senza dargli tempo di rispondere.
•
Rincasando, Evan si domandò come fosse riuscito ad arrivare a destinazione sano e salvo, senza causare alcun incidente. Si sentiva furioso, tanto che le mani gli tremavano al ritmo frenetico dei battiti sordi del suo stesso cuore.
Scese dall'auto e si sgranchì le gambe, tentando di riattivare la circolazione: aveva guidato stando tanto rigido da sentirsi intorpidito.
Si passò una mano dietro il collo, muovendo la testa da una parte e dall'altra, lentamente, senza riuscire a trarre il minimo sollievo da quell'auto-massaggio.
Entrò in casa e subito venne accolto da Rocky e Adriana, tuttavia non fu in grado di rispondere con il solito entusiasmo alle loro feste e cercò di scrollarseli di dosso il prima possibile.
Keith sopraggiunse nell'ingresso proprio mentre il marito dava le spalle alla sua Adriana, rifiutandola, e comprese subito che qualcosa non andava. Evan lo vide, gli si fece vicino, lo baciò velocemente e, senza aggiungere neanche un "ciao", lo superò, dirigendosi in cucina. Keith lo seguì silenzioso, con sguardo apprensivo, fissando la sua schiena mentre era intento a versarsi del caffè.
-Come va il tuo raffreddore?- gli chiese e incrociò le braccia sul petto, poggiando il sedere contro il bordo di un bancone della cucina.
-È passato. Oggi non ho starnutito- rispose il marito, senza ricambiare il suo sguardo.
-Al lavoro tutto okay?-
-Tutto come al solito-
-Hai avuto discussioni con Tobias perché gli hai chiesto di nuovo di scambiarvi i turni?-
-La clinica, fino a prova contraria, è mia- ribatté Evan, stizzito. -E lo sa che il mercoledì il Seraphim è chiuso e io voglio il pomeriggio libero. Che la mattina tu dormi, dopo avere smontato la notte da lavoro, e in clinica ci posso stare fino a pranzo. Ma poi no, il pomeriggio lo voglio libero, così come voglio libera la mattina del giovedì per stare più tempo con te, anche se lui ha la memoria corta e lo dimentica sempre. Cazzi suoi-
-Amore...-
-Non abbiamo litigato- sbottò Evan, alzando gli occhi al soffitto. -L'ha dimenticato e aveva preso non so che appuntamento. Lavora da me da quattro anni, ha visto nascere la nostra relazione. Come tutti, lì dentro. Spero che quello che ha studiato al college almeno se lo ricordi meglio, che non voglio qualche povera bestia sulla coscienza per colpa sua-
-Non sei arrabbiato con Tobias-
-No- rispose Evan, anche se le ultime parole dell'altro non avevano avuto alcun tono interrogativo, e Keith lo fissò con maggiore attenzione.
-Però da quello che dici sembra di sì. Quindi...-
-Ti ho detto di no-
-Con chi sei arrabbiato?- lo interruppe ed Evan gli fissò i piedi, nudi, in silenzio.
-Mi ha telefonato Loreen, mentre uscivo da lavoro- disse in un sussurro e Keith gli si fece subito vicino, abbracciandolo stretto, e l'altro gli raccontò brevemente del contenuto della chiacchierata che aveva avuto con la madre.
-Puoi andare, se vuoi- mormorò Keith ed Evan si premette sul petto le sue braccia, poggiando una tempia contro la sua fronte.
-Non vado da nessuna parte senza di te- ribatté e l'altro sospirò piano.
-Hai voglia di vederla?- gli domandò ed Evan sciolse il loro abbraccio. -Lo prendo per un sì- aggiunse Keith e il marito lo fissò in tralice, senza dire niente.
Rocky e Adriana entrarono in cucina e tornarono a strusciarsi contro le gambe di Evan, in cerca ancora di coccole. Quella volta l'uomo decise di accontentarli e sedette sui talloni, affondando le mani nei loro soffici manti. Rocky aveva un pelo di un caldo color caramello, a macchie scure, soprattutto sul muso e nelle zampe che, in presenza di poca luce, sembravano addirittura neri, anche se, in realtà, erano marroni. A differenza di Adriana, che sfoggiava una pelliccia di un candido bianco e occhi bicromi: uno celeste e l'altro castano.
Erano entrambi dei meticci che i due uomini avevano adottato. Avevano deciso di dare loro quei nomi perché Rocky era il film preferito di Keith, quello che lui interpretava come tra le più grandi trasposizioni cinematografiche di una storia d'amore, dove la boxe non era altro che una parafrasi, secondo una sua personale interpretazione, che simboleggiava le difficoltà con cui la vita mette l'uomo alla prova. Che poi fosse vero oppure una visione totalmente estranea a quella che il regista volesse dare del film, per Keith non aveva molta importanza.
Quando Evan aveva adottato Adriana e gliel'aveva presentata, lui era stato entusiasta nello scoprire che il suo padrone le aveva dato proprio quel nome. L'aveva trovata una cosa molto bella, soprattutto perché a Evan aveva confidato diverso tempo prima di quell'adozione della sua passione smodata per quel film specifico, ma il compagno lo aveva ricordato lo stesso.
Quei pensieri misero in moto nella sua mente altri pensieri, come una catena infinita, e Keith si trovò ad architettare uno dei suoi sgangherati piani per tirare su di morale il marito.
-Usciamo?- gli chiese e l'altro lo fissò dal pavimento, dove aveva finito per sedersi, circondato dai due cani.
-Dove vuoi andare?- gli domandò di rimando e Keith sorrise.
•
Circa un'ora dopo si trovavano davanti gli Universal Studios di Hollywood.
-Cos'è, un agguato alla Bryan e Isaac? Adesso spunta Jeffrey per farmi il lavaggio del cervello?- chiese Evan con fare guardingo, riferendosi alla "trappola" che, durante la fine dell'estate precedente, avevano orchestrato insieme a Titty e agli altri per fare rincontrare gli amici, nella speranza che, rivedendosi, Bryan e Isaac riuscissero anche a chiarirsi e salvare il loro matrimonio.
Era andata esattamente come avevano sperato, ma a Evan non piaceva mettersi in mezzo nei casini altrui e se l'aveva fatto, qualche mese prima, era stato proprio perché aveva creduto di non avere alternative.
Come non piaceva a lui intromettersi nelle faccende degli amici, tuttavia, non gli piaceva che altri si immischiassero nei fatti suoi.
Un paio di giorni prima era andato a trovare Jeffrey, non tanto per metterlo al corrente delle intenzioni di Keith e condividere con lui quella discussione intima e privata che aveva avuto con il marito, ma, piuttosto, aveva sperato che il fratello lo rassicurasse, dandogli una buona scusa – lui che lo conosceva da più tempo di tutti – da poter rifilare a Keith e calare così il sipario su quella storia.
Ma, quella volta, le cose non erano andate affatto come lui aveva preventivato, anzi: Jeffrey era riuscito persino a fargli prendere in considerazione la possibilità di poter essere un buon padre.
Evan non era ancora convinto di voler fare quel passo, ma grazie anche a quella conversazione, d'allora aveva iniziato a pensarci con sempre più interesse.
-Ma quale Jeffrey!- esclamò Keith, riportandolo con i piedi per terra. -Siamo solo io e te e... Spielberg-
-Cioè?!- esclamò Evan, sgranando gli occhi e Keith lo superò, dirigendosi verso un corridoio degli Studios che li condusse davanti un botteghino.
L'uomo acquistò due biglietti e li strinse opportunamente tra le mani, evitando di svelargli troppo presto cosa li stava aspettando.
Evan aggrottò la fronte e lo seguì docile tra gli immensi corridoi dell'edificio, pieno di visitatori, nonostante fosse un giorno infrasettimanale e di primo pomeriggio, per giunta. Camminando tra la gente, poterono captare il suono di lingue diverse e a loro sconosciute, segno dell'incredibile presenza di turisti provenienti dall'estero.
Uscirono all'esterno e presto si trovarono in uno spiazzo al cui centro sorgeva un enorme capannone – uno dei tanti disseminati per gli Studios, ma, a quel punto, non era più possibile alcun fraintendimento su dove fossero diretti ed Evan sgranò gli occhi, restando senza parole.
Keith rise estasiato dalla sua espressione e si fermò davanti il grande portale d'ingresso dell'attrazione, che riproduceva in tutto e per tutto quello originale del film preferito da suo marito, con tanto di scritta Jurassic Park a campeggiare in alto.
-Oh mio Dio!- esclamò Evan e Keith scosse la testa, sempre più divertito. -Lo sai da quanto ci volevo venire?-
-E perché non ci sei mai venuto?-
Evan fece una smorfia e rifuggì dal suo sguardo.
-I parchi a tema sono per i bambini...- borbottò, arrossendo un po', e l'altro gli tirò un orecchio. -Ahio! Così mi diventano di più a sventola!-
-Convinzioni stupide che ti sono state messe in testa da persone ancora più stupide!- disse Keith ed Evan abbassò gli occhi sull'erba giallina e incolta che stavano calpestando. -Adesso... ho pagato due biglietti. Quindi, mio caro, noi entriamo, anche se anagraficamente parlando solo io ho zero anni-
Evan rise della battuta del marito e scosse la testa. Gli porse un braccio e sorrise, decidendo di lasciare fuori, da quel loro pomeriggio insieme, tutti i cattivi pensieri.
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