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La festa si concluse a notte inoltrata ed Evan fu contento di rientrare a casa sapendo che, il giorno successivo, non si sarebbe dovuto presentare in clinica prima del pomeriggio. L'idea di recarsi al lavoro con un paio di ore di sonno dalla sua parte non gli sembrava una grande idea, ma, per sua fortuna, appunto, era riuscito a prendere accordi con il suo collega, Tobias, di modo da evitare quell'eventualità.
-Contento?- chiese a Keith, osservandolo scambiarsi coccole con Rocky, entrambi stravaccati sul pavimento. Il marito sollevò lo sguardo su di lui per una frazione di secondo, ma tanto bastò affinché Evan notasse un lampo di incertezza attraversargli gli occhi. -Tutto okay?- gli chiese, sedendo sui talloni, al suo fianco, mentre Adriana si accoccolava ai suoi piedi, in cerca anche lei di coccole. Evan prese a grattarla distrattamente dietro le orecchie, del tutto concentrato sull'espressione tesa del marito.
-Molly è adorabile, non trovi?- domandò Keith con un filo di voce e l'altro aggrottò la fronte.
-La figlia di Charity e Simon?- Keith annuì. -È una bambina piccola. I bambini piccoli sono come i cuccioli: sono tutti adorabili- disse con aria assente, stringendosi nelle spalle.
-Non ti piacciono i bambini?-
-Sai che non c'ho mai pensato?- gli chiese Evan di rimando, alzandosi da terra.
-Come no?- Keith protese una mano verso di lui e l'altro la prese in una delle proprie, aiutandolo ad alzarsi a sua volta.
-Beh... quando ero ragazzo io, non c'erano tutte queste leggi a favore delle adozioni gay. Erano cose in aria, se ne discuteva, ma era complicato essere gay e pensare di mettere su famiglia. Ancora oggi non è facile. In diversi Stati non possiamo neanche adottare il figlio biologico del partner. Quindi, quando ho capito di essere omosessuale, quello dei bambini è stato uno dei pensieri che ho escluso a priori... ch'è poi anche il motivo per cui Loreen e io non andiamo molto d'accordo- borbottò e Keith gli passò un braccio intorno alle spalle, tentando di confortarlo e confortarsi nel suo calore.
-Le cose sono cambiate- mormorò ed Evan aggrottò la fronte.
-No, Loreen è sempre la stessa stronza-
-Non parlavo di tua madre- si affrettò a chiarire Keith e si sentì arrossire. Gli volse le spalle dirigendosi verso la cucina, sentendo il marito seguirlo silenzioso.
Evan lo osservò aprire il frigorifero e tirare fuori una bottiglietta d'acqua, poi prendere posto su uno sgabello poggiando i gomiti sulla superficie del bancone dell'isola, facendosi spazio tra tutte le buste di regali che avevano precedentemente riposto lì, al loro rientro a casa.
-In California si può. Vero che si può solo da pochi anni, ma si può. Mi dispiace per gli altri, ma noi viviamo qui e... potremmo. Sarebbe bello, no?- disse Keith, fissando un punto imprecisato dinanzi a sé.
-Cosa?-
-Avere dei figli-
-Te l'ho detto, non c'ho mai pensato- ripeté Evan, irrigidendosi un po'.
Preferì mantenere le distanze tra di loro e poggiò una spalla contro lo stipite della porta che introduceva in cucina. Era un argomento spinoso, per lui, e non soltanto per quello che aveva affermato pochi istanti prima.
-Io sì. Soprattutto quando stavo con Charity. Abbiamo pure provato ad avere figli, ma... con il senno di poi, per fortuna non sono arrivati- disse Keith e bevve un altro sorso d'acqua, poi chiuse la bottiglietta e si alzò dallo sgabello, avvicinandosi al marito, e assunse la sua stessa posizione. Cercò i suoi occhi, ma Evan chinò il capo in avanti. Tuttavia, Keith non si fece scoraggiare e gli passò una mano sotto al mento, invitandolo a ricambiare il suo sguardo.
-Saresti un papà meraviglioso- sussurrò con un sorriso e l'altro chiuse gli occhi, sospirando piano. Quando li riaprì, trovò il marito ancora intento a fissarlo con infinita pazienza e questo lo rincuorò.
-Sai che non ho avuto esempi paterni eccellenti-
-Amore...-
-Sul serio- lo interruppe, prima che l'altro lo mettesse a tacere con qualche parola d'incoraggiamento.
-Lo so- convenne Keith e si strinse a lui, poggiando una guancia su una sua spalla. -Hai perso tuo padre che eri ancora piccolo-
-E il padre di Jeffrey non è stato padre per niente. Né per lui, figurarsi per me. Il signor Walker ci ha fatto un po' da padre, ma sempre con quel distacco educato dovuto al suo ruolo. Era il nostro precettore, veniva pagato per educarci e istruirci. Lo sapeva lui, lo sapevamo noi... questo ci ha impedito di instaurare un vero rapporto, anche se è quello più vicino al tipo padre-figlio che io e Jeffrey abbiamo mai avuto-
Keith lo ascoltò in silenzio, non tanto perché non conoscesse quella parte della sua storia, anzi: tra di loro non c'erano punti d'ombra di quel tipo. Tuttavia, il suo tono di voce rassegnato lo spinse ad agire limitandosi a depositargli dei soffici baci sul petto, cercando di fargli percepire la sua presenza in modo profondo.
-Io... credo che, proprio per questo, saresti un ottimo papà-
Evan contrasse la mascella – tic nervoso che aveva iniziato a fare suo proprio da quando stava con Keith, imitandoglielo in maniera inconscia.
-Non ne sono sicuro- disse con un filo di voce. -Anche se sono certo che tu lo saresti-
Keith sorrise e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dai battiti del suo cuore, mentre l'altro gli accarezzava i capelli e scioglieva la sua posa rigida, stringendolo a sé.
-Sono più una mamma isterica, no?-
-Solo quando ti trovi a che fare con quegli idioti dei nostri amici- ribatté Evan con tono serio e Keith ridacchiò, strofinando la punta del naso contro una sua spalla, finendo nell'incavo del suo collo e inspirando a pieni polmoni il suo profumo.
-Io sono sicuro, invece, che proprio perché l'hai vissuto sulla tua pelle, non potresti mai commettere gli stessi errori e daresti tutto di te. Tutto il meglio di te- disse in un sussurro e l'altro rabbrividì.
-A mia madre verrebbe un colpo- e nel dire ciò, Evan sospirò mestamente.
-Quindi... stai prendendo in considerazione questa possibilità?- gli chiese il marito con tono speranzoso, sollevando lo sguardo a incontrare il suo.
-Non lo so-
Keith annuì e sciolse il loro abbraccio, sforzandosi di sorridergli per non farlo preoccupare. Non era proprio deluso dall'esito di quella conversazione, ma temeva che avrebbe dovuto lottare un bel po' prima di riuscire a convincerlo anche solo a prendere in considerazione l'ipotesi di ingrandire la loro famiglia.
-Hey- mormorò Evan, accarezzandogli una guancia. -Non ho detto nulla... potresti darmi un po' di tempo per rifletterci-
-Tutto il tempo che vuoi-
-E se nel frattempo ti stancassi?- gli domandò per sprovarlo: voleva avere la certezza assoluta che quello non fosse un campanello d'allarme a cui avrebbe dovuto prestare molta più attenzione rispetto a quella che, effettivamente, gli stava riservando.
-Non potrei mai stancarmi. Non di te. Sono già felice, tutto il resto sarebbe solo felicità in più-
•
Nonostante le premesse della notte prima, Evan, quella mattina, si svegliò molto prima del previsto, a differenza di Keith, che continuò a russare anche quando l'uomo uscì di casa, dopo avergli lasciato la colazione e un biglietto sul comodino – una carineria per evitare che gli prendesse un colpo svegliandosi e non trovandolo in giro.
"Mannaggia a lui, però" pensò, dato che il motivo per cui, in verità, non aveva chiuso granché occhio durante la notte, nonostante la stanchezza, risiedeva proprio nella loro ultima conversazione.
"Avere dei figli. Io!" si disse mentre accedeva al parcheggio riservato ai clienti. Si trovava ad Hollywood West, seduto ancora in auto – il motore già spento – intento a fissare la struttura che aveva davanti. Anche quella, dal taglio tipicamente moderno, per colori ricordava il Seraphim, seppure le grandi vetrate del pianterreno lo differenziavano dal locale e davano la possibilità di spiare di continuo le attività dell'agenzia di Jeffrey.
Gente di ogni tipo che correva da una parte e dall'altra, su tacchi tintinnanti o scarpe dal taglio ultra-elegante, agghindati come i manichini di una vetrina di alta moda, tra fogli volanti e passerelle improvvisate per shout fotografici.
L'agenzia si presentava come un unico grande ambiente, anche quello soppolcato, proprio come il Seraphim, e anche lì, al piano superiore era stato collocato l'ufficio del grande capo. Per il resto era un immenso spazio aperto, ogni tanto suddiviso da corridoi di piante che magari celavano alla vista gli ingressi dei bagni. Le uniche "vere" stanze con porte e pareti erano appunto il soppalco – anche se una parte era balconata e dava visione di ciò che succedeva al piano sottostante – e l'ufficio di Daniel, braccio destro e compagno di Jeffrey.
Evan, ormai dentro la struttura, si trovò presto oggetto dell'occhiate furtive dei presenti, mentre un paio di persone – amici e collaboratori del fratello – lo riconoscevano e lo salutavano con fare confidenziale. Ma lui aveva testa soltanto alla sua ultima chiacchierata con Keith e quindi puntò dritto verso la scala di colore nero che saliva verso il soppalco.
Doveva immaginarsi che, prima o poi, l'argomento sarebbe saltato fuori: suo marito gli aveva già largamente dimostrato di avere un'indole paterna molto presente. Il desiderio di prendersi cura degli altri, di sobbaccarsi dei problemi degli amici, cercando di proteggerli e aiutarli a essere felici, era una delle caratteristiche più grandi di Keith, quella che si scopriva prima delle altre anche agli occhi di gente che non poteva vantarsi di conoscerlo tanto quanto lui.
Eppure Evan, la sera prima, si era sentito lo stesso preso in contropiede, impreparato ad affrontare quel discorso.
Arrivato nell'ufficio del fratello trovò, tuttavia, Daniel, più un mezzo "cadavere sonnecchiante", raggomitolato sulla seduta del divano di pelle che si trovava nell'angolo salotto della stanza, nella zona più intima e nascosta dell'ampio ambiente arredato in stile gotico-kitsch.
-Evan!- esclamò Daniel appena lo vide e lasciò il suo posto dietro la scrivania, correndo ad accoglierlo. -Come... s... stai?- balbettò il giovane, mentre sul viso tondo e paffuto si allargava un sorriso sincero.
-Bene. Ero venuto per parlare con mio fratello...- disse, indicando il mucchietto di carne e vestiti sul divano. Daniel rise.
-Si sta... c... concedendo i suoi... dieci minuti di... di... riposo tra una cosa e... e... l'altra-
-È svenuto?!-
-Più o... o... meno-
-Tu come stai?-
-B... bene, grazie. Ieri sera è... è stata proprio u... una bella... serata-
-Sì. Mi scoccia ammetterlo, ma è tutto merito di Claud...-
-Claud?- bofonchiò la voce di Jeffrey, arrivando a loro proprio dal "mucchietto" sul divano. L'uomo si tirò a sedere, sbadigliando sonoramente, mentre Daniel scuoteva la testa e si avvicinava al bancone su cui stava la macchinetta del caffè.
-Cosa può pensare Dani nel vedere te resuscitare sentendo il nome di Claud?- chiese Evan con fare ironico. Daniel trattenne un risolino e porse una tazza di caffè al compagno. Jeffrey l'accettò senza distogliere lo sguardo dal fratello, che stava fissando con fare minaccioso.
-Claud è una calamita per i guai. Sentire la tua voce pronunciare il suo nome mi ha fatto prendere un colpo- disse con voce rauca di sonno, poi si girò e baciò brevemente Daniel, ringraziandolo per il caffè. Il giovane tornò alla scrivania, raccattò un po' di cose e poi li lasciò soli.
Jeffrey si alzò dal divano stiracchiandosi e lisciandosi la giacca costosa e di colore rosso mattone che sfoggiava. I suoi completi di alta sartoria erano sempre di colori eccentrici, ma si sposavano bene con il suo incarnato dorato, gli occhi verdi e i capelli miele. Jeffrey possedeva uno charme naturale in grado di porre in secondo piano la sua precoce stempiatura e la gobba prominente al naso, che rischiava spesso di oscurare la bellezza dei suoi occhi. Tuttavia, si muoveva con naturale eleganza, una sensualità che pareva essere intessuta direttamente tra le pieghe dei suoi vestiti, sotto ogni millimetro di pelle, ammantandolo di un'aurea magnetica.
Così come Evan vedeva suo fratello come un uomo bellissimo, lo stesso era per Jeffrey e ciò, nel loro passato di ragazzini, li aveva sempre posti l'uno contro l'altro, facendoli litigare pure per quello. Erano passati così tanti anni d'allora che, a ripensarci nel presente, Evan si trovò a scuotere la testa, dandosi mentalmente dello stupido.
-Hai la faccia da cataclisma in corso- gemette Jeffrey e tornò a prendere posto sul divano, lasciandosi cadere pesantemente sulla seduta. Evan si strinse nelle spalle e si avvicinò alla macchinetta del caffè, servendosene una tazza per sé.
-In realtà... stavo pensando a quando eravamo ragazzi, stupidi, sempre in competizione per tutto-
-Sul serio?- chiese Jeffrey stupito, aggrottando la fronte. Allargò le braccia sulle schienale del divano e accavallò le gambe ed Evan si decise a sedersi a sua volta, ma scelse una delle due poltrone cariche di cuscini fucsia, zebrati o colmi di pailettes dorate.
Jeffrey lo fissò con estrema attenzione e si passò un pollice sul labbro inferiore, assumendo un'espressione pensosa, mentre l'altro si limitava ad annuire, continuando a rigirarsi la tazza tra le mani.
-Colpa di chi ci ha cresciuti. Ci hanno messo contro, in competizione per il loro affetto-
-Che poi non c'hanno mai dato...- sbottò Evan, fissando con espressione vuota il caffè in cui si rifletteva parte della sua stessa immagine.
-È successo qualcosa con Keith?- gli domandò Jeffrey, iniziando a preoccuparsi. "Finiscono Bryan e Isaac e attaccano loro? Lo vedi che faccio bene a non volermi sposare? Sto così bene con il mio Daniel...".
Evan scosse la testa e fissò il fratello in tralice.
-Ma tu... a me- mormorò, tornando a fissare il caffè. -Mi ci vedresti come papà?-
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