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Fuori da Villa Major, Evan tremava così tanto che rischiò di farsi sfuggire il telefono che teneva in una mano, tant'è che Claud si sentì costretto ad aiutarlo affinché non perdesse la presa, ma l'amico se lo scrollò di dosso, sempre più agitato, allontanandolo con fare sgarbato.

L'uomo non si fece scoraggiare, ma si tenne alla larga dall'insistere ancora con lui, decidendo di lasciargli spazio e tempo.

Poteva immaginare come Evan si sentiva dopo tutto quello che era successo: senza fiato, ferito, deluso, sul procinto di precipitare. Un dolore grande portava con sé sempre un altrettanto grande caos di emozioni.

Toccò a Jeffrey intervenire, nella speranza che il fratello desse ascolto almeno a lui – e che evitasse di farsi mettere sotto da un'auto mentre attraversava la strada, senza prestare attenzione alla circolazione.

-Hai intenzione di tornare a casa a piedi?-
-Devo allontanarmi da qui!- tuonò Evan, continuando a camminare a passo spedito, la testa bassa, gli occhi fissi sullo schermo del cellulare.
-Possiamo sperare di farlo restando tutti interi?!-
-Non potremmo allontanarci in macchina?- chiese Claud, cercando di essere conciliante, ma il veterinario non gli diede ascolto.

Evan si fermò davanti la vetrina di un negozio, rischiando di dare una spallata a un passante, per poi attraversare di nuovo la strada, con grande sgomento degli altri due che temevano stesse per fare qualche sciocchezza.

Lo videro porre fine alla sua folle corsa davanti la macchina di Claud, ignorando i loro ammonimenti, i clacson, gli "hey" dei passanti a cui tagliava la strada all'improvviso.

Quando i due riuscirono a raggiungerlo, Evan teneva il cellulare incollato a un orecchio e rivolse a entrambi uno sguardo carico di una rabbia febbricitante.

-Così non andiamo da nessuna parte, fratello. Devi darti una calmat...- stava dicendo Jeffrey, ma venne interrotto dall'urlo di Evan.
-Sei una grandissima stronza!-

Jeffrey impallidì e fece per togliergli il telefono di mano, con scarsissimi risultati, riuscendo soltanto un paio di volte a sfiorare l'apparecchio, mentre Claud tentava di obbligare tutti e due almeno sul marciapiede, scusandosi di continuo con i passati che, nella foga del momento, urtavano o a cui ostacolavano il passaggio.

-Non me frega un cazzo... Non ci sentiamo da Capodanno? Sai che cazzo puoi farci con i tuoi merdosi auguri di Capodanno?!-
-Evan- disse Jeffrey, ma il fratello lo spinse e continuò a inveire contro il proprio interlocutore. L'uomo non poteva udire la voce che proveniva dall'altro capo del telefono, ma avrebbe scommesso qualsiasi cifra che Evan stava parlando con Loreen.

-Mia figlia!- urlò Evan e Claud si guardò attorno incominciando a spaventarsi, mentre sguardi incuriositi e sospettosi si posavano su di loro. -Paige è mia figlia! Non... È il suo nome! Grandissima stronza! Non puoi dirmi che non ti interessa! È pure tua nipote, vergognati!-

-Evan, per favore- lo implorò Jeffrey, vedendo la maschera di rabbia che aveva trasfigurato l'espressione del fratello iniziare a sgretolarsi. Non sapeva cosa Loreen stava dicendo al figlio – poteva immaginarlo. Era certo che la donna stesse cercando di rigirare le carte in tavole, ponendosi dalla parte della ragione, adducendo come scuse tutte quelle che lei riteneva essere le colpe di Evan, a incominciare dalla sua omosessualità. Era ormai cosa appurata che Senior scegliesse le proprie mogli da un qualche catalogo "speciale" delle consorti-madri anafettive: Jeffrey sapeva quanto Loreen fosse stronza, esattamente come lo era stata Octavia con lui. Era donne nate per non essere madri, eppure lo erano sulla carta, e solo su quella, perché nella vita, nei fatti concreti, non lo erano mai state.

Ed era il dolore più grande che sia lui che il fratello si portavano dentro, Jeffrey lo sapeva, più grande di tutto quello che avevano dovuto affrontare negli anni, soprattutto negli ultimi due e mezzo. Tra alti e bassi, il fatto di essere dei figli indesiderati, restava una ferita difficile da cicatrizzare. Jeffrey comprendeva il tormento di Evan, nonostante, negli ultimi tempi, si fosse speso tanto affinché il fratello la smettesse di lottare per ottenere ancora l'approvazione di Senior e Loreen. Faceva male sapere di avere tanto amore da dare, ma vedersi rifiutare di continuo.

L'espressione di Evan si fece disperata, e Jeffrey lo afferrò per le spalle, cercando di instaurare con lui un contatto visivo.

-Chiudi subito- gli intimò, terrorizzato dalle orribili parole che Loreen era probabile gli stesse rivolgendo.
-Per me sei morta- mormorò Evan e lasciò ricadere la mano in cui teneva il cellulare verso il basso. Claud, da dietro, lo prese e chiuse la chiamata, mentre Jeffrey spalancava le braccia, accogliendo il fratello in un caldo abbraccio.

Il tragitto in auto in direzione di Holmby Hills fu abbastanza silenzioso.

Ogni tanto Claud spiava Evan, seduto sui sedili posteriori, attraverso lo specchietto retrovisore, e ad ogni semaforo ne approfittava per scambiarsi sguardi con Jeffrey.

Quest'ultimo pareva essersi fatto di marmo, mentre il suo viso dai lineamenti poco armoniosi restava così impassibile, così privo di movimenti da dare come l'impressione di essersi trasformato in una statua. Il suo profilo greco accentuava quella sensazione, ammantandolo di un'aurea autorevole, di una furia a stento trattenuta: la si poteva quasi percepire ruggire sotto la sua pelle ambrata, mentre i suoi occhi verdi parevano riempirsi di fiamme ardenti e Claud temette che l'amico potesse esplodere da un momento all'altro.

Comprendeva benissimo il suo stato d'animo: lui per primo concedeva a chiunque di crearsi sul suo conto le idee più disparate e meno lusinghiere possibili, ma quando a essere "toccati" – anche solo da certe parole – erano le persone che Claud amava, non esisteva nulla in grado di placare la sua ira. E avrebbe scommesso ogni cifra che per Jeffrey era esattamente lo stesso.

Fu quando si trovarono quasi a destinazione che il silenzio venne interrotto all'improvviso.

-Ferma la macchina- disse Evan e Claud sussultò.
-Non posso fermarmi in mezzo al fottuto nulla!- gli fece presente, indicando, con il cenno approssimativo di una mano, il lungo viale a ridosso di una zona boschiva che stavano percorrendo.

-Fermati!- urlò Evan e Claud piantò i freni in riflesso, imprecando, mentre Jeffrey invocava tutti i santi nella speranza che non venissero tamponati.

Subito la portiera destra posteriore venne spalancata ed Evan uscì per strada. Gli altri due ebbero solo la frazione di un secondo per rendersi conto che no, non avevano causato un incidente, e sganciarono le cinture di sicurezza, precipitandosi fuori dal veicolo, inseguendo Evan a ridosso della filiera di alberi che costeggiava la strada in quel punto.

Arrivarono appena in tempo per vederlo accartocciarsi su se stesso, per poi rimettere tra l'erba, aggrappandosi con una mano a un tronco d'albero. Claud sbuffò e gli tenne la fronte, mentre l'amico vomitava.

-Dopo questa, Randolph, come minimo mi devi una scopata- disse il serafino, e Jeffrey porse un fazzoletto al fratello.
-Scordatelo- borbottò Evan, asciugandosi la bocca con gesti colmi di imbarazzo. Claud ridacchiò.
-Niente baci, però- aggiunse con fare ironico e l'altro gli rivolse un dito medio.

-Ti senti meglio?-
Alla domanda di Jeffrey, Evan scrollò le spalle. Parve riflettere per qualche secondo, infine scosse la testa.
-Mi sentirò meglio dopo aver rivisto Keith e le bambine. Magari dopo una doccia, anche- rispose avvicinandosi al naso il pullover che indossava, per annusarlo.
-Basterà lavare i vestiti- disse Jeffrey, intuendo a che genere di "puzza" stesse alludendo l'altro. Sospirò e incrociò le braccia sul petto, e prese a picchiettarsi un labbro. Tuttavia, come un lampo a ciel sereno, gli tornò alla mente Senior, proprio mentre si lasciava andare a quel suo stesso tic e subito Jeffrey distese le braccia lungo i fianchi, chiudendo le mani a pugno.

-E se non se ne andasse mai via?- domandò Evan con un filo di voce e lui scosse la testa.
-Mi avevi fatto una promessa. Basta con tutti e due. Stavolta vedi di mantenerla e vedrai che l'odore che ti dà nausea, in questo momento, se ne andrà via-

Si avviarono tutti e tre verso la macchina, di nuovo, e Claud guardò con curiosità alla strada.

-Sono proprio un dio!- esclamò atono. -Non è passato nessuno- aggiunse e Jeffrey scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sorrisino tirato. -Tu non pensi mai che... un giorno, potrebbero cambiare idea?- gli chiese quando furono di nuovo dentro l'abitacolo del mezzo e Jeffrey trasalì, fermandosi un istante prima di avere agganciato la cintura di sicurezza.
-No- disse schietto.
-Ma se lo facessero?-
-Claud...-
-No- li interruppe Evan e gli altri due si girarono in simultanea verso di lui, stupiti da quella sua risposta.

L'uomo risolve ad entrambi uno sguardo di sottecchi e contrasse la mascella, incrociando le braccia sul petto.

-Finché si trattava di me. Di Jeffrey. Per noi... è sempre rientrato nella normalità, tutto questo. Non abbiamo mai avuto altri tipi di rapporti con i nostri genitori-
-Vero- disse Jeffrey e tornò a sedersi composto, continuando a guardare il fratello attraverso lo specchietto retrovisore.
-Ma Paige- sibilò Evan, mentre la sua espressione tornava a farsi furiosa. -Potrebbero strisciare ai miei piedi su cocci di vetro. Lanciarsi dal Grand Canyon- si prese una piccola pausa e deglutì sonoramente. -Come ho già detto a Loreen, per me sono morti. Non è una cosa che potrò mai perdonargli-

Evan aveva appena spalancato l'uscio di casa quando venne sommerso da urla di giubilo e dall'abbaiare festoso dei suoi cani.

In pochi secondi venne tempestato di domande, dalla visione di volti, con voci che si sovrapponevano, gente che lo toccava, finché, in mezzo al caos, non vide Keith.

Si precipitò da lui, ignorando tutto il resto, stringendolo così forte quasi da fargli male, ma suo marito non se ne lamentò e ricambiò la sua stretta.

-Non ti bacio perché prima dovrei lavarmi i denti- disse Evan con un sorriso imbarazzato e l'altro spalancò gli occhi stupito e colmo di apprensione.
-Ti sei sentito male?-
-Già passato, non preoccuparti-
Keith gli prese il mento in una mano e lo fissò negli occhi. Ed Evan fu assolutamente certo che non sarebbe stato in grado di cavarsela con un resoconto dell'incontro con Senior approssimativo, anzi, immaginava già che avrebbe dovuto spremere i ricordi fino all'osso affinché il suo racconto fosse stato completo di dettagli. -Possiamo parlarne dopo?-

Keith aggrottò la fronte e gli lasciò andare il mento.

-Dopo- disse con fare perentorio e il marito annuì e gli baciò una guancia.

Evan trasse un profondo respiro, mentre la piccola folla di gente intorno a loro si diramava un po', permettendogli di scorgere un gruppetto di ragazzi, in un angolo della stanza, che non aveva mai visto prima d'allora. Venne distratto da Sophie, che gli corse incontro, alzando le braccia nella sua direzione, slanciandosi sui piedi, ed Evan in automatico concluse i suoi movimenti prendendola in braccio. La strinse forte a sé, inspirando a pieni polmoni il suo profumo, nella speranza che gli riempisse le narici, che si insinuasse tra le fibre degli abiti che indossava, cancellando quello nauseabondo che aveva rischiato di infettarlo in casa del suo ex patrigno.

-Piccola mia- le sussurrò in un orecchio e Sophie gli sorrise e si asciugò gli occhi con le mani, poi scalciò e indicò a terra ed Evan la lasciò andare. Lei, tuttavia, gli strinse una mano e lo trascinò nell'angolo della stanza dove si trovavano i suoi sconosciuti ospiti. A un passo da loro, la ragazza e uno dei due ragazzi si mossero in simultanea, indietreggiando e rivelando una quarta persona.

Paige.

Evan trattenne il fiato e la guardò come se la vedesse per la prima volta: il viso dai lineamenti delicati e ancora un po' infantili, gli occhi grandi e castani, i lunghi capelli rossi e lisci. Le lentiggini su naso e guance e gli occhiali dalle lenti rotonde che la facevano sembrare il personaggio di un cartone animato.

Adesso che sapeva di chi era figlia, Evan riusciva a riconoscere in lei tante somiglianze con Hanna Walker, a incominciare proprio dai colori che la caratterizzavano. Il fisico esile. Era proprio identica a sua madre.

La ragazza si portò una ciocca di capelli dietro un orecchio ed Evan rimase di nuovo senza fiato. La vide giocherellare nervosamente con il lobo dello stesso, fissando un punto imprecisato sul pavimento.

E ormai sapeva che Paige era anche sua figlia, perciò il fatto che avesse le orecchie simili alle sue non era più una semplice coincidenza.

-Ciao- disse lui e Paige arrossì e si morse un labbro.
-Mi dispiace essere scappata-
-Non ha importanza-
La ragazza prese a torturarsi le dita di una mano con quelle dell'altra, arrossendo sempre più.

-Mi hanno detto che lo sai che sono tua figlia e che io lo sapevo già- disse tutto d'un fiato ed Evan annuì, sentendosi più imbarazzato di lei. -Che facciamo adesso? Se non mi vuoi più e vuoi tenerti solo Sophie...-

Evan interruppe il suo sproloquio e la strinse a sé con forza. Paige si irrigidì e le sfuggì un singhiozzo. Si nascose contro il suo petto e si aggrappò con forza alle sue braccia e lui la cullò con dolcezza.

-Adesso che ti ho trovata, che vi ho trovate, non vi mollo più- disse Evan e Paige si sentì finalmente a casa.

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