10
-Tu sei pazzo!- sbraitò Jeffrey, con tanta veemenza che Evan fu costretto ad allontanare il cellulare dall'orecchio.
-Davvero?!- ribatté lui con stizza. -Proprio tu mi remi contro?-
-Non ti remo contro un cazzo!- tuonò l'uomo. -Sto solo cercando di farti ragionare-
-Ragiono benissimo...-
-Non si direbbe proprio!-
-J.!-
-J. un cazzo. Sto cercando di proteggerti, se non l'avessi capito-
Evan sospirò e scosse il capo, premendosi poi due dita sulle palpebre abbassate. Stava iniziando ad avere mal di testa.
-Glielo devo- disse il veterinario con voce più pacata, mentre caricava il suo zaino sul nastro trasportatore, per sottoporlo ai controlli obbligatori al gate.
-Keith che dice?- chiese Jeffrey e anche lui pareva essersi calmato un po'.
-Mi lascia libero di agire come meglio credo-
-Te ne stai approfittando perché ti ama-
-Non mi approfitto di niente. Sa che ne ho bisogno e mi sta lasciando andare...-
-Se ne hai così bisogno, perché hai chiamato me? Sai benissimo come la penso-
Evan contrasse la mascella e rimase in silenzio, preferendo non rispondere a quella spinosa domanda. Immaginava che, qualsiasi cosa avesse detto, avrebbe rischiato di ferirlo e non voleva arrivare a quel punto a causa di una sua debolezza. Perché era così che vedeva il proprio desiderio di incontrare Loreen e metterla al corrente di tutto quello che stava accadendo nella sua vita: una debolezza.
-Sei ancora a Big Bear Lake?- chiese per tentare di cambiare argomento, ma l'altro lo comprese subito.
-Non ci provare, Randolph. Torno stasera e, se proprio ci tieni a saperlo, il Natale è stato molto piacevole. Gabriel Clark... uhm. Siamo ancora nemici-
Evan rise, Jeffrey lo udì e sorrise a sua volta, contento di essere riuscito a risollevare il morale del fratello.
-Ce la farai, vedrai. Dopotutto, sei il mitico Jeffrey Major!-
-Sfotti pure. Ne riparliamo quando saremo entrambi a L.A. e... Evan. Chiamami quando arrivi- disse Jeffrey con tono serio e l'altro annuì, ma poi ricordò che il fratello non poteva vederlo e gli rispose a voce con un flebile "sì".
Chiuse la telefonata e impostò la modalità aereo nel cellulare e fissò lo schermo con un pizzico di panico. Si sentiva abbastanza vulnerabile da percepire come insopportabile la prospettiva di essere tagliato fuori da ogni contatto con la sua famiglia, anche se per poche ore.
Durante il viaggio, tuttavia, Evan ebbe modo di distrarsi un po' e ripensò alla chiacchierata avuta con il fratello. Sorrise nel rendersi conto con quanta facilità aveva imparato a fare affidamento su di lui. Era diventato il suo porto sicuro, la persona che lo capiva, ma che rimaneva obiettiva e distaccata, a differenza di Keith che era sempre dalla sua parte pure quando Evan, dentro di sé, sentiva di avere torto.
Proprio come in quel caso.
Sospirò e chiuse gli occhi, poggiando la fronte contro il vetro del finestrino alla sua sinistra, ignorando tutto quello che lo circondava. In sottofondo percepiva le voci squillanti di un paio di bambini, degli assistenti di volo che avevano iniziato a percorrere il corridoio tra i passeggeri con i loro carrelli carichi di snack di dubbio gusto. Era come una marea che gli solletiva le orecchie con il suo baccano, rendendolo insofferente.
"E sei solo all'inizio".
•
San Francisco lo accolse con il suo caos cittadino, la nebbia perenne e le case vittoriane dai più sgargianti colori.
Si fece condurre all'indirizzo della madre e, quando il taxi si fermò davanti il palazzo in cui risiedeva Loreen, Evan venne colto dal panico e afferrò con forza il cellulare con una mano. I suoi pensieri corsero subito a Keith, poi a Jeffrey, poi ancora si trovò a vagliare tutto l'elenco di nomi degli amici a cui poter chiedere supporto, ma, alla fine, non chiamò nessuno.
Caricò lo zaino in spalla e salì i pochi gradini che introducevano al palazzo. Si fermò davanti il citofono di ottone, fissando morbosamente per qualche secondo la targhetta che riportava il suo stesso cognome.
Loreen, nonostante i tanti anni di matrimonio con Senior, non aveva mai voluto prendere il cognome del marito e non aveva voluto neppure che a farlo fosse Evan.
Per diverso tempo, Evan aveva creduto che la madre, in cuor suo, si fosse rifiutata di diventare una Major anche nel nome perché ancora legata al ricordo del suo primo marito. Lui non aveva molti ricordi di suo padre, ma quella manifestazione d'amore aveva contribuito ad accendere in Evan la speranza che anche sua madre potesse amare davvero.
"Non me" pensò con un sospiro e scosse la testa, sempre più infastidito dalla propria debolezza. Fu indeciso fino all'ultimo se suonare o meno il citofono, ma il Destino gli venne incontro anche quella volta, decidendo per lui.
-Evan- si sentì chiamare e si girò verso sinistra, trovando sua madre ai piedi della breve scalinata dalla quale era arrivato lui, intenta a fissarlo con le braccia incrociate sotto il seno prosperoso, accentuato dalla vita sottile. Indossava un lungo cappotto di pelle e accessori più volti ad abbellire la sua figura che a mitigare la percezione del freddo.
Il clima, lì, era distante anni luce da quello di Los Angeles, anche se si trovavano nello stesso Stato. Faceva davvero freddo e poco per volta pareva che la nebbia si stesse sciogliendo, tramutandosi in una pioggerellina sottile.
Loreen salì i pochi gradini che la separavano dal figlio, facendo tintinnare i tacchi sulle superfici marmoree. In pochi istanti fu al suo fianco, e nonostante le scarpe alte, Evan si trovò ad abbassare lo sguardo su di lei, mentre il suo profumo gli arrivava alle narici. Sempre la stessa eau de toilette dal prezzo esorbitante e che, ormai, pareva fare parte di lei come una seconda pelle, rendendola riconoscibile ovunque anche prima che apparisse fisicamente. Ciò, per diverso tempo, aveva fatto sentire l'uomo come perseguitato dalla madre, finché lei non aveva cambiato città e il suo profumo preferito era passato di moda tra la gente di Los Angeles.
-Ti trovo bene- disse Loreen e aggrottò la fronte superandolo, andando ad aprire l'ingresso del palazzo prima che la pioggia diventasse battente, inzuppando entrambi.
Evan annuì e la seguì dentro l'edificio in silenzio, così come in silenzio si trovarono a condividere lo stretto spazio dell'ascensore che li condusse fino al quarto piano. Iniziò a sentirsi sempre più piccolo e insignificante accanto a lei, come se si stesse accartocciando su se stesso, soccombendo al suo sguardo glaciale.
Loreen aprì la porta di casa e allungò un braccio verso l'interno dell'appartamento, facendogli strada, ed Evan la precedette in salone. L'ambiente era arredato con estrema cura, ma restituiva l'idea di una stanza da museo: bellissima, ma lontana dalla vita di tutti i giorni. Evan si guardò intorno, mentre sua madre si toglieva il cappotto, la sciarpa e si ravvivava con una mano la chioma fluente del colore del caramello. Prese anche le sue cose e sparì alle sue spalle per sistemare tutto nella cabina-armadio che si trovava nell'ingresso.
Evan ne approfittò per avvicinarsi alla vetrina alla sua destra e sbirciò oltre i vetri riccamente decorati a motivi floreali, di un pallido bianco, ed ebbe la conferma, osservando le preziose porcellane e i vari ninnoli che custodiva il mobile, che sua madre misurava ancora la distanza tra un oggetto e l'altro, di modo che lo spazio venisse riempito in modo armonioso.
Era ossessionata dall'ordine e dalla perfezione, dalla bellezza e dall'apparenza.
E l'erano capitati un secondo marito fedifrago e un figlio "difettoso".
-Finalmente sei qui- disse Loreen, tornando nel salone. Aveva indossato delle ciabattine con un paio di centimetri di tacco e stava porgendo a lui delle pattine. -Mi si rovina il parquet- aggiunse. Evan si limitò ad annuire, sentendosi trattato alla stregua di un estraneo. Il fatto che lei si sentisse in dovere di spiegargli le sue azioni, come se fosse la prima volta in assoluto che lui metteva piede lì dentro, immaginava che fosse tutta una tattica di sua madre studiata al fine di metterlo a disagio.
-Sì, stavo per chiedertele, infatti- sbottò, prendendo per le pattine e sedendo sul divano per cambiarsi le scarpe.
-Oh. È passato molto tempo dall'ultima volta che sei stato qui. Credevo te ne fossi dimenticato- ribatté Loreen ed Evan trasse un profondo respiro, impegnandosi nei movimenti insignificanti che stava facendo, per evitare di farsi colpire più del dovuto dalle sue allusioni taglienti.
-Hai trascorso un sereno Natale?- gli chiese dopo un po', ma, prima di ricevere risposta da lui, prese le sue scarpe e sparì di nuovo. Quando tornò in salone, trovò il figlio di nuovo in piedi e aggrottò la fronte. -Caffè?- gli chiese ed Evan si limitò ad annuire e a seguirla in cucina. -Per me è stato un Natale abbastanza noioso. Sono stata da sola- disse, fissandolo intensamente negli occhi. Poi gli diede le spalle e azionò la macchinetta del caffè.
-Non sei stata con le tue amiche?- le chiese il figlio e lei continuò a nascondergli la sua espressione.
-Il Natale si passa in famiglia- sibilò ed Evan trasalì. Sospirò e sedette intorno al tavolo da quattro, rotondo, che si trovava al centro della stanza.
Finalmente Loreen tornò a girarsi verso di lui, per il tempo necessario di porgergli una tazza con il caffè tra le mani. Sedette anche lei, ma distolse subito lo sguardo, rivolgendolo altrove, assumendo un'espressione offesa.
-Ogni tanto potresti venire anche tu a L.A. ...- disse Evan e lei scosse subito la testa.
-Non ho intenzione di fare spiacevoli incontri- ribatté e l'altro tornò ad accartocciarsi su se stesso.
-Ti riferisci al tuo ex?- le domandò, anche se temeva che non stesse affatto alludendo soltanto a lui.
-Può darsi-
-L.A. è grande. Non è detto che tu lo debba incontrare per forza. Jeffrey lo vede poco, anche se Hollywood e Bel Air non sono molto distanti-
-Meglio evitare. Dopotutto, per evitare spiacevoli incontri con chicchessia, dovrei bazzicare solo i quartieri crimali- disse con fare allusivo ed Evan ebbe la conferma che non stavano parlando soltanto di Senior.
Ripensò ancora una volta a quello che gli aveva detto Jeffrey, e non solo poco prima che partisse da Los Angeles. Ogni volta che usciva fuori "l'argomento genitori" suo fratello diventava di colpo intransigente, per certi versi aggressivo. Solo a parole e solo nei confronti di coloro che li avevano cresciuti, mai contro di lui, ma Evan si sentiva attaccato lo stesso, per riflesso.
"Ha ragione J. Sono ancora troppo soggiogato a loro" si disse con un sospiro. Per sua fortuna, non poneva più Loreen e Senior al centro delle scelte della propria vita, ma continuava a desiderare con loro un rapporto più familiare, soprattutto da quando aveva conosciuto Jack e Francine e aveva scoperto che esistevano davvero famiglie come lui aveva sempre sognato avere anche per sé.
-Potresti diventare nonna- sussurrò dopo un po', gettando la "bomba". Sperava che la notizia la rendesse felice, la rabbonisse? Obiettivamente era certo che non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò, ma in cuor suo ci sperava ancora.
-Gli uomini non possono avere figli. È contro natura- disse Loreen, irrigidendosi, ed Evan incassò il primo colpo in silenzio, sorseggiando un po' di caffè.
-La mia omosessualità c'entra niente con la possibilità di avere figli. Non sono sterile-
-Stai parlando di comprare un bambino?!- disse la donna, con voce fattasi di colpo acuta, e suo figlio comprese da ciò quanto fosse davvero furiosa con lui.
-Non voglio affrontare questo argomento con te- mormorò Evan con un sospiro di rassegnazione.
-Prima mi ci metti in mezzo e subito dopo mi tagli fuori?- tuonò Loreen, indignata.
-Io e Keith abbiamo scelto un'altra strada. Quindi non c'è bisogno di parlare di questo. Abbiamo intenzione di adottare-
Sua madre rimase in silenzio per un po', fissandolo come un predatore intento a studiare la sua prossima vittima. O forse era solo Evan a sentirsi preda dinanzi a lei? Non ne aveva idea, ma stava iniziando seriamente a pentirsi di trovarsi lì.
"Ha ragione Jeffrey" si disse, "Dovrei farmene una ragione e chiuderla qui, in modo definitivo".
-Keith... chi?- chiese Loreen con voce tagliente e l'altro scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sorriso triste.
-Keith, mio marito- ribatté Evan e sua madre piegò le labbra in una smorfia di disgusto. -Sei venuta al nostro matrimonio...- tentò di rammentarle, ma lei lo interruppe subito.
-Sua madre non te l'ha detto?- gli domandò.
-Cosa?-
Loreen sorrise ed Evan percepì la pelle riempirsi di brividi tanto spinosi che gli parve di essere appena caduto dentro un pozzo colmo di aghi.
-Il motivo per cui ero presente. Abbiamo avuto un'accesa discussione, io e quella donna alquanto discutibile...-
-Non ti permetto di dire nulla di scortese nei confronti di Francine- disse Evan e l'altra sgranò gli occhi castani e sollevò le sopracciglia, assumendo un'espressione di stupore.
-Immagino che ti trovi bene con lei, sì?- esclamò lei. -Una donna così priva di principi, senza alcuna conoscenza delle basilari regole di educazione-
-Stai esagerando-
-È stata lei a cacciarmi dal tuo matrimonio-
Evan rimase in silenzio, assimilando quell'informazione. Subito venne sorpreso da un moto di rabbia nei confronti di Francine, mentre il bambino dentro di lui la accusava di avergli messo contro la sua mamma. Ma quella sensazione insensata durò poco e l'uomo che era diventato tornò presto a galla, immaginando che, se Francine aveva davvero cacciato Loreen dal suo matrimonio, probabilmente lo aveva fatto spinta da dei motivi più che validi.
"E io non li voglio sapere" si disse, "Sono stanco di questo gioco".
Si alzò e, anche se non aveva neanche finito di bere il suo caffè, decise che era arrivato il momento di chiudere quell'incontro.
-Io te l'ho detto. Il mio dovere di figlio l'ho fatto- disse con tono tagliente, rinfacciandole le sue stesse parole. -Adesso sta a te-
-Non sarai mai un buon padre. Non puoi- si affrettò a dire Loreen e notò con soddisfazione, nello sguardo di Evan, un pizzico di incertezza.
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