III. La scintilla

San Francisco si sveglia presto al mattino. Subito dopo le prime luci dell'alba i pendolari animano la città, che diviene rumorosa nel caos del traffico e dei mezzi pubblici. Uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur si muovono frenetici, ognuno per la propria strada, incuranti del mondo che gli scorre intorno. Molti di loro probabilmente si recano nella Silicon Valley, dove lavora anche Will e dove hanno sede alcune delle più famose aziende High Tech.

Nella mia isola gli unici già svegli all'alba sono i pescatori, i quali devono portare il pescato nei mercati o attraccare i pescherecci nel fiordo. Tutti gli altri iniziano la giornata quando ormai il sole è sorto, anche se è tiepido. Il Regno è piccolo, ci vuole poco per raggiungere il luogo di lavoro, dovunque esso sia.

Oggi la mancanza della mia prigione dorata si fa sentire, ma non saprei spiegarne il motivo. Mi sono svegliata prima dell'alba e dalla finestra della mia camera non ho visto il mare. La sua mancanza è stata in grado di farmi provare un'inquietudine che mi ha impedito di tornare a dormire. Alla fine, ho deciso che continuare a rigirarsi tra le lenzuola era inutile e sono scesa al piano di sotto.

La prima cosa che mi ha colpita della casa dei Budd è stata l'ampiezza degli ambienti. Il corridoio del piano superiore è sgombro, scevro di qualsivoglia cianfrusaglia. È presente un solo mobile in cima alle scale, dello stesso colore del legno del parquet, su cui troneggia un vaso dorato con dei fiori rosa all'interno. Al di sopra di esso, attaccata al muro, c'è una grande cornice che raffigura la famiglia al completo.

Lungo la parete che costeggia la scalinata, opposta al corrimano, sono presenti altre fotografie. Nella prima sono raffigurati William e Melanie il giorno del loro matrimonio; lei indossa un lungo abito bianco e ride di gusto, col viso giovane poggiato sulla spalla del marito; lui, d'altra parte, la osserva, vestito di tutto punto, come se non avesse mai visto niente di più bello.

A casa mia non c'è una foto in cui mia madre rida così spontaneamente, ma la scintilla nello sguardo di Will l'ho scorta in fondo agli occhi di papà più e più volte. L'avevo ingenuamente confusa con l'ammirazione ma adesso, osservando una donna rilassata e accomodante –non inflessibile e austera come mia madre-, posso finalmente comprendere che si tratta di amore.

Le cornici successive ritraggono i tre figli: ce n'è una di Benjamin e Penelope con gli zainetti sulle spalle, pronti per andare a scuola, seguita da una foto che ritrae un Sebastian in fasce, probabilmente il primo giorno in cui ha varcato la porta di casa.

Tutte le fotografie che si succedono al mio sguardo esprimono allegria, felicità, serenità. Ognuna trasuda famiglia e benevolenza, legami forti e indissolubili, ma palesi a chiunque le guardi. Ogni cosa in quella casa sembra urlare: "Guarda! Guarda come siamo perfetti! Prova ad essere come noi" e io voglio assolutamente provarci.

Durante i primi giorni di permanenza in California, sia Will che Melanie sono rimasti a casa con l'intento di farmi ambientare al meglio. Hanno cercato di coinvolgermi in tutte le decisioni familiari, a partire dal gusto di succo da comprare al supermercato e passando per la scelta del ristorante in cui cenare. Hanno inoltre deciso di farmi fare un piccolo tour della città, farmi visitare le attrazioni principali prima dell'inizio dell'anno scolastico.

Il piccolo Seb – mi aveva dato il permesso di chiamarlo così nel tragitto tra l'aeroporto e la villetta in cui vivono – non ha più fatto domande inopportune, tuttavia di tanto in tanto lo becco a fissarmi di sottecchi.

«C'è qualcosa che non va?» gli ho domandato a un certo punto, prima che potesse nascondersi dietro la porta del salone.

All'inizio ha esitato, incerto, poi gli ho fatto cenno di sedersi accanto a me sul divano ed è capitolato. I riccioli biondi gli donano un'aria allegra sebbene sembri perennemente scarmigliato. Pare che Melanie voglia tagliarglieli ma il resto della famiglia è assolutamente contraria.

«Mamma dice che non devo farti troppe domande o ti dispiaci» confessa in quel suo linguaggio infantile e poco corretto, rigirandosi i pollici tra le mani.

«Per questa volta non succederà... e non lo dirò a tua madre» rispondo con un occhiolino. Le sue iridi si illuminano all'istante, rivelando un'espressione stupita e birichina. Praticamente gli ho dato il via libera, la possibilità di farmi tutte le domande che vorticano in quella sua testolina.

È finito il tempo in cui ero spaventata dai bambini, dalle loro domande impertinenti e dalle loro insinuazioni ingenue. Il tono curioso gli solleticava la lingua e faceva arricciare le labbra quando volevano sapere qualcosa, e potevo sentire i piccoli ingranaggi delle loro teste girare, vorticare talmente veloce che nell'attesa di una risposta avevano già formulato altre mille domande.

«Ho sentito Penny e Ben dire che hai una malattia getica... ma che vuol dire?» tiene gli occhietti sempre bassi, non mi guarda, come se abbia davvero paura che io possa scoppiare a piangere da un momento all'altro. Probabilmente parecchi anni fa sarebbe successo, i miei occhi sarebbero diventati lucidi, la voce tremante e sarei fuggita a gambe levate.

«Si dice genetica» lo correggo bonariamente, passandogli una mano sotto il viso e colpendogli la punta del nasino con un dito. Quel buffetto lo fa ridere e lo scioglie, così finalmente mi guarda. I suoi occhietti mi scrutano con curiosità in attesa della mia spiegazione.

«Ho una malattia per cui il mio corpo non produce colore» tento di spiegare nella maniera più semplice possibile, ma il suo sguardo confuso mi costringe ad aggiungere: «C'è una cosa chiamata melanina nel tuo corpo, questa rende la tua pelle rosa, i tuoi capelli biondi e i tuoi occhi marroni. Nel mio corpo non c'è».

«Per questo sei così bianca?» cerca conferme dei suoi dubbi. Bianca, così mi chiamavano i miei compagni di classe. Suonava come un insulto dalle loro bocche, mentre ora le labbra di Sebastian lo accarezzano con dolcezza, incuriosite dai risvolti delle mie parole.

«Esatto, vedi» avvicino il mio braccio al suo; sono ugualmente sottili anche se io ho quindici anni più di lui. Il contrasto tra il mio pallore e la sua pelle olivastra è evidenziato dai raggi del sole che penetrano dal finestrone dietro di noi, quello che si apre sul giardino sul retro.

«E non c'è una medicina?» a questo punto i suoi occhi abbandonano le nostre braccia ancora intrecciate e si fissano nei miei. Non è solo curioso, sembra quasi... apprensivo.

«No, non si può curare, ma io sto bene» cerco di rassicurarlo al meglio mentre il campanello inizia a suonare. Melanie, dal piano superiore, urla a Sebastian di non azzardarsi ad aprire.

Si stampa in viso un sorriso colpevole mentre io rassicuro Melanie e mi alzo dal divano. Il campanello continua a suonare insistentemente, chiunque sia dev'essere molto di fretta.

«Ma buongiorno... Questa mattina dormite tutti?» domanda un ragazzo, insolente, oltrepassandomi ed entrando nell'anticamera. Non l'ho mai visto prima, ma lui si guarda intorno con l'aria di chi ha trascorso parecchio tempo tra quelle mura.

«C'è un cosplay di Game of Thrones e nessuno mi ha avvertito?» chiede, rivolgendosi direttamente a me. Mi osserva con un sorriso di sbieco, le labbra allungate ma sporgenti e una fossetta delicata sulla guancia sinistra. Ha le sopracciglia leggermente sollevate e gli occhi, nocciola, emanano un calore proprio. Indossa anche un orecchino sul lobo sinistro che lo rende più irriverente.
Tutto di lui trasuda irriverenza.

«Ciao, Ander, lei è la mia nuova amica Hilda» Sebastian compare dietro le mie gambe, avvicinandosi allo sconosciuto e confermando le mie ipotesi.

«Ciao, campione» lo sconosciuto batte il cinque al bambino. «Dov'è quel mascalzone di tuo fratello?» domanda, sempre rivolgendosi a lui.

Vorrei fargli notare la mia presenza, ma l'arrivo di Melanie me lo risparmia.

«Ah Ander, sei tu, buongiorno, hai fatto colazione?» domanda premurosa mentre gli passa un braccio sulle spalle per salutarlo. È più alto di lei, forse è persino più alto di Ben.

«Buongiorno Mel» chioccia lui affettuoso, «sai che non mi alzo nemmeno dal letto se non sono certo che avrò del cibo sotto i denti a breve».

«Non mi ero sbagliato, allora, era proprio la tua voce fastidiosa» s'intromette anche Ben, sbucando fuori da non so dove. Sono troppo impegnata a studiare il nuovo arrivato per seguire lo scambio di battute tra i due.

Ander – a questo punto deve chiamarsi così – si è presentato alla porta dei Budd di prima mattina comportandosi come un ulteriore inquilino. È entrato in casa portando con sé una coltre di irriverenza, mostrandosi beffardo e sfacciato nei miei confronti. Lo conosco da pochi minuti, ma la sua insolenza mi ha già stancata.

«E tu devi essere Daenerys Targaryen» la sua voce mi riscuote. Adesso mi osserva anche lui, è uno scambio di occhiate -fredde e calde-, nessuno che ha intenzione di cedere per primo abbassando lo sguardo. Ormai è una sfida.

Ma poi chi è Daenerys Targaryen?

«Io sono Ander Dudiez» la voce è melliflua, il tono dolce in maniera innaturale. È lui il primo a cedere, interrompe i nostri sguardi per fare un mezzo inchino.

Mi afferra le dita quando ormai è arrivato alla mia stessa altezza. Il braccio molle lungo il corpo si piega mentre con delicatezza stringe la mia mano destra tra le sue.

«Encantado» afferma, guardandomi nuovamente negli occhi, con marcato accento ispanico. A questo punto non distoglie più lo sguardo, nemmeno mentre poggia le labbra sul dorso della mano.

Non la sta baciando, la sta sfiorando appena con le labbra, ma quel contatto lieve ha il potere di riscuotermi. Non comprendo il motivo per cui mi ha toccato, non gli ho fatto intendere che avrebbe potuto, né tantomeno ho mostrato un tale grado di confidenza.

Sfilo con eccesso di violenza la mano dalle sue. Scivola senza difficoltà dato che non la stava stringendo e nei suoi occhi echeggia un dardo di divertimento. È una sfida, lo è stata dal primo istante in cui ci siamo guardati, e questo è stato la scintilla. Ormai la miccia si è accesa e nemmeno il mio mare può spegnerla tanto si incendia velocemente.

«Sei il solito cazzone, Dudi, lasciala in pace» Ben spinge Ander di lato trattenendo una risata. Melanie e Sebastian sono usciti dalla nostra visuale in un momento piuttosto imprecisato. In effetti tutto, dall'istante in cui Ander ha suonato al campanello e ha fatto la sua entrata in scena, è divenuto piuttosto imprecisato.

«Mi stavo solo presentando dato che tu non hai fatto gli onori di casa» risponde sfrontato, sollevando di nuovo le sopracciglia. Le fossette che scavano le guance di Ben sono lunghe e profonde, non hanno nulla a che vedere con i solchi delicati di Ander. A lui conferiscono un'espressione dolce, quasi bambinesca, che stona con l'atteggiamento impertinente dell'amico.

«Ciao Ander» William si palesa nel soggiorno. «Noi stiamo andando ad Alcatraz per farlo visitare ad Hilda, sei dei nostri?» lo invita senza pensarci due volte.

Il ragazzo mi scocca l'ennesima occhiata divertita, mi osserva sfrontato e incurante. Le sue iridi si accendono nuovamente di quella fiammella di sfida che ho incendiato prima, trasudando risolutezza e determinazione. Infine, annuisce con vigore.

«Assolutamente, non mi perderei una gita ad Alcatraz per nulla al mondo.»

Ed ecco a voi... *rullo di tamburi* Ander! Hilda già lo trova antipatico, io già lo adoro, e voi?

Confesso che ne vorrei uno anche nella vita reale, ma per ora sono stata sfortunata :( Intanto mi consolo con lui 🥰

Il prossimo capitolo arriverà martedì mattina, ho pensato sia meglio continuare così ancora per un paio di capitoli altrimenti la storia non inizia mai, che ne pensate?

Vi ricordo sempre che ho pubblicato le schede personaggio della famiglia Budd e su instagram (flyerthanwind_) trovate altre aestetichs e grafiche relative alla storia perché ormai ci sto prendendo gusto ahahaha

Fatemi sapere che ve ne pare e chi sono i vostri preferiti per ora 🧚🏻‍♀️

Luna Freya Nives

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