Poi non sorrido più

Fin da piccole, ci insegnano che l'amore sarà la luce delle nostre vite, il traguardo da raggiungere ad ogni costo, anche sacrificando i nostri altri sogni. Ci insegnano cos'è l'amore: abbracci, baci, camminare mano nella mano, condividere la merenda, regalarsi cioccolatini e bigliettini pieni di cuori a San Valentino. Ci insegnano che la donna senza uomo è invalida, incompleta. Ci insegnano che l'amore è anche il bambino che ci tratta male. Ci insegnano, indirettamente, che anche l'abuso è amore.

Crescendo, cerchiamo noi stesse in libri e film, e ci ritroviamo davanti ragazze perdutamente innamorate, tanto da mandare tutta la loro vita all'aria "per amore": Bella in Twilight; Harley Quinn nell'universo della DC Comics; Giulietta nell'opera Shakespeariana che, quattordicenne, si uccide per il suo amore proibito; la maggior parte delle principesse Disney. Poi, ancora immerse in romanzi rosa e film strappalacrime, ci ritroviamo catapultate nella realtà. E la realtà non ha niente di roseo.

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"Sono... sono stata bene", sorrido, mi sento un po' su di giri, forse ho bevuto troppo. "Grazie per il passaggio, dubito sarei riuscita a tornare a casa senza di te".

"Prego", sorride anche lui, ha un sorriso gentile, storto come quello di un bambino. Scende dalla macchina, mi si avvicina. "Ho sete. Ti dispiace se salgo a bere un bicchiere d'acqua?"

"No, no, tranquillo, sali pure. Promettimi solo di non guardarti intorno, non ho avuto tempo di mettere in ordine", faccio strada, apro il portone dell'appartamento, vado verso la cucina, apro il rubinetto. Ha sempre fatto tutto questo rumore, l'acqua? O sono io che ho davvero bevuto più di quanto avrei dovuto? Prendo il bicchiere, mi trema la mano, resto a fissarlo come un bambino davanti al primo fiocco di neve, poi lo passo sotto l'acqua gelata finché non si riempie di schiuma bianca che, lentamente, torna a schiarirsi. "Tieni", mi giro, sorrido, poi non sorrido più.

Il bicchiere cade a terra, riesco a concentrarmi solo su quello. Cade, all'inizio non si frantuma, si scheggia solo un po'. Rimbalza di un centimetro, cade di nuovo, stavolta esplode, acqua e vetro dappertutto. Spalanco gli occhi mentre mi ritrovo una mano - la sua mano, ne riconosco l'odore, Dio quanto mi piaceva quell'odore, così puro, così gentile - sulla bocca, non respiro, non ricordo come si fa. E' sempre stato così buono, così tranquillo, che sta facendo?

"Andiamo in camera tua?", sussurra, ha la voce roca mentre mi tiene chiusa la bocca, non riesco a respirare, non ricordo nemmeno come ci si arriva, in camera mia. Vorrei annuire, ma non ricordo come si fa. Non ricordo come ci si governa. Non ricordo come dire di no. "Mi ti scopo qui, se non mi dici dov'è la tua camera, vedi cosa ti conviene fare".

E' una lacrima quella che mi passa sulla guancia? O è sudore? No, nessuna delle due. Sono le sue dita, gelide, che mi accarezzano come coltelli. Vorrei strapparmelo di dosso, scappare, ma non mi reggo in piedi, come faccio a scappare se non mi reggo in piedi? Mi toglie la mano da davanti la bocca, inspiro, espiro, inspiro, espiro, mi prende per i polsi, apre tutte le porte dell'appartamento, cerca la mia stanza. La mia stanza, con i miei orsacchiotti di stoffa, le foto con le mie compagne di università, la collana di perle che mi ha regalato mia nonna. La mia stanza, con la mia essenza che ci aleggia dentro come un profumo di quelli che non se ne vanno mai.

"No", riesco a muovere appena le labbra mentre mi scaraventa sul letto come se non pesassi più di una piuma. "Ti prego, no".

Sorride. Io no. Non ci riesco. Queste cose non succedono nella vita reale, queste cose succedono agli altri, non a me, succedono nei libri, nei film, non nella mia camera, succedono alle altre, il mio corpo non è mai stato toccato così.

Grido. Forse. Non lo so. Mi proietto verso l'alto nel mio grido di aiuto, di dolore forse, di paura. Mi blocca di nuovo, torna a chiudermi la bocca con la mano mentre si slaccia la cintura, mi sfila i jeans, mi guarda. Io non lo guardo. Per un attimo, spero che si sbrighi. Che faccia quello che vuole fare e se ne vada. Per un attimo, spero che finisca qui. Che sia tutto uno scherzo di cattivo gusto. Ma non finisce lì.

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La Giornata contro la violenza sulle donne è stata istituita dall'Onu nel 1999 per ricordare la tragica morte, nel 1960, delle tre sorelle Mirabal, prima torturate e poi buttate in un burrone come bestie, corpo senza anima, polvere senza ricordi. E', insomma, una giornata per informare e per criticare la ancora ovvia subordinazione delle donne rispetto agli uomini in una società patriarcale dove una femminista o è lesbica o è una "nazifemminista", dove una donna che parla di un abuso subito viene denigrata (in quante case, dopo gli scandali hollywoodiani, si sono sentite le frasi "Lo fa solo per attenzione", "Le faceva comodo vendersi per un ruolo, e ora si lamenta", "Se fosse stata stuprata davvero lo avrebbe detto senza aspettare dieci anni"?)

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"Non sono tanto sicura di volerci venire", mi guardo allo specchio, la gonna corta fino a metà coscia, la profonda scollatura a V della maglia riempita dalla collana di perle di mia nonna. Mi lascio cadere i boccoli biondi sulla schiena nuda mentre infilo i tacchi. "Non conosco nessuno, a quella festa".

"Conosci me", mi giro a guardare Anita, la mia compagna di stanza, mi sono trasferita da lei dopo lo... dopo l'ultima volta. "Non ti mollerò un secondo, te lo prometto. Ci divertiremo".

Annuisco, lentamente, la seguo nel taxi buio prima, nella discoteca illuminata a giorno dopo. Stavolta non berrò. Stavolta, solo acqua, CocaCola al massimo. Stavolta non porterò a casa nessun ragazzo, nemmeno il ragazzo che conosco da dieci anni e che non farebbe male a una mosca. Stavolta starò attenta.

Ci avviciniamo al bar, sento l'aria fresca del condizionatore sulle gambe nude e un brivido su per la spina dorsale. Anita mi fa strada e mi tiene per mano, stretta come una bambina che rischia di perdersi per strada.

"Per me un Sex on the beach", sorride, civettuola, sicura di sé. "Per lei una CocaCola con limone".

Annuisco, la ringrazio con un sorriso, prendo il bicchiere gelido tra le dita, do un sorso. La festa è appena cominciata quando la mia compagna di stanza mi guarda, indicandomi il bagno.

"Ci metto un secondo", mi lascia il bicchiere ancora pieno e si alza in un fruscio di gonne. "Aspettami qui, va bene?"

"Non mi muovo", le faccio segno di andare tranquilla, giocherello con il pezzo di limone nel bicchiere di CocaCola, sorrido a un paio di amiche che conosco, frequentano la mia stessa università. Poi non sorrido più.

Mi alzo, lascio la CocaCola sul tavolino dove ci eravamo sistemate, cammino verso il bagno come un robot. Vedo i capelli biondi di Anita e tiro un sospiro di sollievo, va tutto bene, mi ero allarmata per niente. Sto per girarmi quando vedo una mano risalirle la gamba, strapparle le calze a rete.

"Lasciami stare", ringhia, cerca di allontanarsi dall'uomo che cerca di baciarla. "Ho detto, lasciami stare!"

"Solo un bacio", non è ubriaco, la riconosco, ormai, la voce degli ubriachi. Sa cosa sta facendo, e gli piace. "Solo un bacio, dai, non puoi vestirti così e aspettarti che nessuno venga da te a..."

Guardo Anita, i suoi capelli biondi, raccolti in un treccia, il suo vestito azzurro a maniche lunghe. La solita scusa. "Non puoi vestirti così". L'uomo cerca di alzare la gonna di Anita, ma non lascerò che le succeda la stessa cosa che... che è successa a me.

"Ti ha detto di no", mi trema il labbro, tremo tutta, una foglia al vento, gli mostro il telefono, il dito pronto a premere, a chiamare aiuto. "Allontanati da lei, o chiamo la polizia".

L'uomo sorride, alza le mani, si gira per andare via. Corro da Anita, lui sorride un'ultima volta. "Certo che voi donne ve la prendete per niente. Era solo un gioco".

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La quantità di femminicidi dal 2013 al 2017 è diminuita, in Italia, da 179 donne uccise a 114 (sperando che il contatore stia fermo per un po'), ma quelli non sono solo numeri, sono persone, donne, figlie, madri, sorelle, che hanno perso il loro diritto di vivere per... per cosa? Un capriccio? Un attimo di gelosia? O un rancore insensato, covato per troppo tempo fino ad esplodere? I dati dell'Istat parlano di un miglioramento sul suolo italiano, ma possiamo davvero parlare di miglioramento con 114 donne (uccise solo quest'anno) sul groppone? Possiamo parlare di un "clima sociale di maggiore condanna alla violenza", come scrive sempre l'Istat, se le donne stuprate ricevono sempre le stesse domande, domande come: "Eri ubriaca?", "Com'eri vestita?", "Sei sicura di essere stata violentata?", tutte seguite da un sospiro e un "Non lo farebbe mai, è tanto un bravo ragazzo"?

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Camminiamo in silenzio, io e Anita, verso casa. Non ce la siamo sentita di prendere un taxi, non ce la siamo sentita di prendere un autobus. E' così che ti senti, quando sei stata privata della tua intimità, di un pezzo di te stessa, del tuo diritto di dire di no. Debole. Indecisa. Svuotata.

Ho ancora il telefono in mano, pronta a chiamare la polizia, o mia madre, o chiunque. Pronta a chiedere aiuto, una voce che possa dire di no al mio posto perché io non ho abbastanza voce. Anita si tiene la mano sulla coscia, dove l'uomo sorridente le ha strappato la calza, cammina come in trance, le gambe strette. Sorrido ad Anita per darle coraggio. Poi non sorrido più.

"Vi serve un passaggio?", mi giro a guardare la voce maschile che ha parlato, la mano di Anita stretta nella mia, il pollice che mi trema intorno al telefono.

Un bicchiere distrutto, a terra. I miei jeans sul pavimento, buttati come una cartaccia. Le sue mani sul mio corpo, prima sulla mia bocca, poi sul mio seno, poi tra le mie gambe, in esplorazione. Il suo fiato caldo sul mio collo, le sue labbra sulle mie nel soffocare il mio ennesimo no, il suo intero corpo, nudo, a bloccare il mio.

"Mi hai stuprata", lo sussurro, lo ammetto per la prima volta dopo un anno di silenzio. Anita sgrana gli occhi, lui scuote le spalle. "Ti ho detto di no. Ti ho detto di andartene da casa mia. Ti ho detto che ero troppo ubriaca. E tu l'hai fatto comunque. L'hai fatto comunque!", mi avvicino a lui, stringo i pugni, lascio le parole scorrano. "Non sono più riuscita a dormire su quel letto, non sono più riuscita ad aprire quella porta di casa senza vederti al mio fianco, non sono più riuscita a respirare, mi hai portata via con te quella notte, fammi tornare, ti prego, fammi tornare..."

Mi inginocchio per strada, non sono abbastanza forte ora come non lo ero il giorno dopo lo stupro, nuda sul mio letto sfatto mentre guardavo il soffitto e, in silenzio, mi chiedevo perché, perché io, fra tante. Piango, sento la mano di Anita sulla mia spalla mentre cerca di tirarmi su, poi sento le sue mani, quelle mani che avevo tenuto strette durante le gite scolastiche.

"Non... lo so che non vale niente", la sua voce è calma, pacata, come sempre, ma provo comunque disgusto nel ricordare quella stessa voce mentre lui mi... mi... "Ero ubriaco. Non ricordo quasi niente di quella notte. Io... mi dispiace. Tanto. E se c'è qualunque cosa che io possa fare per rimediare, sappi che la farò. Non sono perdonabile, ma voglio almeno provare a fare qualcosa. Dammi almeno questa possibilità".

Alzo lo sguardo, le lacrime che mi riempiono gli occhi. Perdonare. Ma come posso perdonarlo, anche se era ubriaco, anche se non era in sé? Era quel viso a guardarmi. Erano quelle mani a toccarmi. Era lui a strapparmi di dosso ogni strato di vita fino a lasciarmi agonizzante a chiedermi chi io fossi. Ubriaco o non ubriaco, era lui. Scuoto la testa. Forse dovrei farlo, molti lo definirebbero terapeutico, ma io non posso perdonare.

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Possiamo cercare l'uguaglianza se parliamo di femminicidio invece che di omicidio, se non parliamo delle donne che abusano gli uomini oltre che degli uomini che abusano le donne?

Perché la donna abusatrice è sempre innocente in quanto donna e quindi debole, mentre la donna abusata può essere colpevole perché ritenuta in grado di dire no?

Perché non possiamo avere una voce, quando noi non siamo più in grado di parlare?

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