Cuore e anima

«Lante».

La voce di un uomo riecheggiava nel buio. Conosceva quella voce, l'avrebbe riconosciuta nel mezzo di un capo di battaglia, fra le grida di terrore e i saettanti stridolii delle armi. L'avrebbe individuata anche nel più lieve dei sussurri, silenziosa e opprimente come l'assenza delle cose.

Era una voce che alloggiava nei suoi più intimi ricordi, dove spesso si rifugiava quando non aveva altro.

Lasciò che le sue palpebre rimanessero sigillate, trascinando il volto, per appoggiarsi alla spalla dell'individuo alla sua destra. Una mano le cinse il fianco, in un tentativo di abbraccio: troppo debole per darle conforto e troppo presente per scacciare le memorie che infestavano la sua mente.

«Dobbiamo andare, non c'è più nulla qui» la avvisò, non dando segno di volersi muovere.

Aveva ragione. Aveva torto. La sua natura era una benedizione e maledizione allo stesso tempo, permettendole di immedesimarsi con il resto delle creature a sufficienza da comprenderle, ma quel tanto che le bastava per essere certa delle loro differenze.

Il suo cuore, però, le aveva sempre dato prova che non era necessario essere composti della stessa materia per avvicinarsi.

«Ulratch» portò il suo palmo alla mascella dell'altro, mentre i polpastrelli accarezzavano il principio di peluria ispida, così indomata ed estranea. «Ulratch, voglio che tu veda» gli ordinò.

Sentì il suo respiro caldo sulla tempia. Era confuso, non la stava ascoltando.

«Lante, non credo di riuscirci».

«Ulratch» gli prese il viso con entrambe le mani, appoggiando la sua fronte alla sua. I loro busti erano contorti in una scomoda posizione, non che le importasse in quel momento. Era il suo cuore, detestava sentirlo così sofferente. L'unica cura era del miele, per nascondere un'amara medicina: per qualche attimo, tuttavia, sarebbe stata la sua panacea.

Gli accarezzò i capelli, soffici e biondi, come il grano, così rari in quei luoghi. Il suo colore però, la sua magia, era l'azzurro. Un effetto mistico, calmante, malinconico. Un collegamento primordiale, spontaneo, non manipolato da alcun essere. Non era un faro, così potente da oscurare ogni altra scintilla, come lo poteva essere Camula, nel suo verde intenso: era un riflesso del grande cielo che li sovrastava, così accogliente e materno, come distante e matrigno. Ma non era l'unico.

Ora due spirali, non più una, lo avvolgevano: rosso e giallo, gli danzavano attorno, offrendo ora scudo, ora conforto.

«Libera la tua mente» gli soffiò, «Usami come ancora e come lente, e guarda».

Gli tenne la mano, mentre Ulratch si staccò da lei. Aprì gli occhi e, come un bambino osserva per la prima volta il mondo, il suo cuore ammirava ciò che lo circondava.

Pregò che non fosse il loro ultimo ricordo felice.

Le sole preghiere hanno sempre portato a poco, pensò, rinunciando ad aggrapparsi agli ultimi filamenti del sogno. Si girò di lato, affondando la testa nel cuscino.

Le doleva tutto, come se fosse appena uscita da una sessione intensa di allenamento. Peccato non praticasse alcuno sport. E quel fine settimana lo avesse passato nel più totale ozio, nella sua casa di famiglia.

La sua pelle si ricordava ferite, i suoi polmoni portavano il segno dell'acqua al loro interno e le sue labbra dolevano ancora dai morsi per non cedere al gelo.

«Dannati maghi di sangue» mugugnò, massaggiandosi all'altezza dei reni, dove aveva evitato per poco di essere accoltellata. La sera precedente si erano organizzati, decisi come mai a neutralizzarla. Se per ucciderla o portarla dalla Sacerdotessa non era riuscita a dedurlo, occupata com'era a scappare e non farsi accerchiare da quelli che uscivano da ogni dove.

E poi era arrivato quell'uomo. Gli era bastato chiamarla e lei era scappata.

Sospirò, cercando di ignorare l'intera faccenda. Come ogni cosa le capitasse da quando era arrivata in città, in fondo.

Si voltò verso l'orologio che teneva sul comodino, non trovandolo. Alzò il busto e notò di non essere nella sua stanza. O nella sua casa. Si stropicciò gli occhi, credendo di star ancora sognando, finché un oggetto umido non iniziò a tamponarle le dita.

Inclinò il capo fino a scorgere la figura di un gatto tigrato a pelo corto, che le annusava incuriosito la mano destra. Si sedette, accarezzando la creatura, responsiva alle sue gentilezze. Se la portò al petto, per poi alzarsi dal letto e guardarsi attorno.

Aveva riposato in una piccola stanza rettangolare. Lo schienale del letto singolo era appoggiato alla parete opposta all'unica porta chiara, mentre le altre due pareti erano una ricoperta interamente da un armadio con le ante a specchio, qualcuno di vanitoso o estremamente previdente, e l'altra spoglia, con l'eccezione di una finestrella alta, ad almeno cinque piedi dal pavimento, e alcuni quadri raffiguranti paesaggi bucolici. I suoi piedi nudi erano in contatto con una moquette verde, soffice e poco consumata. Una stanza poco usata, forse per gli ospiti.

Controllò la porta. Era aperta. Non un rapimento quindi.

Si ritrovò in un corridoio che dava ad altre tre porte, collegato al piano sottostante tramite una scala in legno, coperta da una moquette chiara. L'unica presenza sembrava essere la persona nella stanza sotto ai suoi piedi, resa ancora più evidente dai rumori di stoviglie che collidevano fra loro, nonostante dalla porta più vicina un richiamo di casa strisciasse silenzioso nella sua direzione.

Avrebbe potuto andarle peggio: si sarebbe potuta ritrovare in territorio nemico. Anche se in tal caso l'avrebbero trattata diversamente, con più sorveglianza e senza la possibilità di allontanarsi. Era in grado di riconoscere quando le veniva lasciata deliberatamente una scelta, se per testarla o per gentilezza, non era ancora a conoscenza. Un solo modo per scoprirlo.

L'animale che aveva in braccio si divincolò, precipitandosi giù per gli scalini, in direzione di quella che avrebbe dovuto essere la cucina. Lo seguì, trovando una stanza a pianta quadrata, occupata da un lato da finestre e mobilio scuro, alternato a elettrodomestici e fornelli, al centro un tavolo tondo, con tre sedie, e dall'altro lato mensole con spezie e altri ingredienti facevano da arco a una porta di servizio, il cui vetro era oscurato da una tendina ricamata all'uncinetto.

Davanti al lavandino, una donna di spalle, slanciata e tonica, dai lunghi capelli castani raccolti in una coda bassa. Vestita da abiti larghi, con un grembiule morbidamente allacciato in vita.

Se non fosse stato per il tatuaggio dorato dietro l'orecchio, l'avrebbe scambiata per una normale umana. Ma il simbolo del Chicchan non mentiva: un rettangolo con delle linee curve alla base, al cui interno era contenuta la testa di un serpente, che scrutava con l'unico occhio visibile l'osservatore, minaccioso.

«Non fare complimenti, Necahual, siediti pure» le indicò con un cenno vago la direzione del tavolo. «È scortesia rifiutare» aggiunse, dopo qualche attimo di stallo.

Decise di seguire il consiglio, venendo subito raggiunta da una tazza fumante e un vassoio con delle paste di vario tipo. Incrociò gli occhi della sua interlocutrice. Gialli, dotati di un'iride verticale, come un serpente. Non aveva cura di nascondere la sua natura: non ne aveva bisogno.

Lante conosceva bene le lamia. Le donne serpente: nemiche di tutto ciò che era luce, secondo alcuni; in completa dipendenza dal sole, secondo altri. La verità era che nessuno le avrebbe mai comprese, data la loro natura schiva e riservata. Era raro infatti che intervenissero in questioni a loro esterne.

«È una prova per confermare la mia identità?» alluse, indicando il cibo e la bevanda offertole.

«Nel mio paese, lo chiamano caffè» le sorrise, «Ma considerando le brodaglie a cui sono abituati in questa isola, direi che potrebbe effettivamente ammazzare la loro progenie più debole».

Sbuffò una risata. «Quindi sai chi sono» affermò, iniziando a sorseggiare il liquido ancora bollente. Non era fuoco, non l'avrebbe danneggiata.

La proprietaria di casa le sorrise, distendendo le labbra carnose. Più divertita, che minacciosa.

«Credo che in molti siano a conoscenza della tua identità, non tutti vogliono la tua fine, però» le rispose, in quella che poteva essere più chiaramente un'offerta di pace, solo se avesse utilizzato tali parole.

«Non nutro rancore verso nessuno, voglio solo vivere la mia vita in pace» confessò, non cedendo per poco alla stanchezza che era in agguato, pronta a impossessarsi delle sue membra e della sua risoluzione a rimanere in città.

«La pace è qualcosa di concesso a pochi fortunati, spesso al termine delle loro vite» produsse dal nulla una borsa nera e un cellulare. «Una nostra sorella li ha trovati per caso, prima di chiamarmi. Non è stato facile evitare gli occhi del veggente, ma sono riuscita a trovarti».

«Nostra sorella?».

«Ho avuto l'onore di chiamarti sorella per più di una ragione, in passato. Non smetterò certo in questa vita».

A quella frase si bloccò. Non era la prima volta che qualcuno le diceva qualcosa di simile. Tuttavia, si era sempre tenuta ben alla larga da chiunque si professasse figlio della Magia e avrebbe continuato a farlo; se non fosse stato per i maghi di sangue, le cui visite si facevano sempre più frequenti e impegnative da affrontare. Sapeva che il suo destino fosse legato a quello della Sacerdotessa e che forse il momento tanto temuto si stava avvicinando, ma non sarebbe stata lei a fare la prima mossa: era nata con un grande compito, ma il suo desiderio era solo quello di condurre un'esistenza mediocre e inosservata.

«Non sono interessata a questo passato di cui parli» riportò la tazza al suo piattino.

«È il tuo presente e il tuo futuro. Non hai molta scelta, nessuno di noi l'ha».

«Posso sempre cambiarlo» una parte di sé si attivò a quelle parole, ribellandosi a esse, gridando all'eresia che aveva appena pronunciato.

«Tu meglio di chiunque altro dovrebbe sapere che non sta a noi la scelta».

«Vero, la scelta è della Magia» sospirò, passandosi una mano sugli occhi. Una frase equiparabile a Zar dast o aspetta e spera.

«Noto che il risentimento è ancora forte».

«Non dovrebbe esserlo? È appena presente e guarda come abbandona i suoi figli. Siamo come dei naufraghi che mandano messaggi, sperando che qualcuno li veda, si raccapezzano i detriti portati dal mare e lottano fra loro per la sopravvivenza, nemmeno il dominio!» scrollò le spalle, pronta a rincarare la dose, quando i suoi occhi caddero sull'orologio. «Merda, sono in ritardo!» esclamò, afferrando velocemente il cellulare e la borsa, correndo verso l'ingresso principale. Prima di varcarlo si ricordò le buone maniere, rivolgendosi alla sua divertita interlocutrice.

«Coaxoch» le disse, «Se avrai bisogno di noi, basterà chiamarmi».

«Grazie» sussurrò, prima di uscire e lasciarsi il quartiere alle spalle, in cerca di una strada principale, nella speranza di trovare un mezzo che la portasse verso il centro. Per sua grande fortuna, trovò una stazione della metro. Cercando fra i tesserini per poter passare i tornelli, scoprì che uno mancava all'appello: il suo badge. La sua capa l'avrebbe uccisa.

Dove avrebbe potuto averla persa? Era tornata a casa per il fine settimana, forse l'aveva lasciata lì. No, aveva controllato prima di ripartire. In treno? No, come avrebbe potuto inviare alla sua collega il suo numero di tessera per cancellarle i ritardi?

L'illuminazione la colse, accompagnata da un colpo di tosse spazientito. Si scusò con lo studente, a giudicare dalla divisa, alle sue spalle, ed entrò nella stazione. Doveva averla persa ieri sera, quando era stata circondata dai maghi di sangue. Non ne aveva mai incontrati così tanti e organizzati, dovevano essere alle dipendenze della sacerdotessa, non c'era altra spiegazione. E poi quel ragazzo...

L'aveva chiamata per nome. Un marchiato da un drago che conosceva la sua identità? Chi poteva essere? E perché si accompagnava con un immortale e una strega così potenti? Un figlio dei lupi poi, come completava il quadro? Lupi e draghi erano amici dei re, i guardiani degli eredi al trono, coloro che mostravano la sua potenza. Che fosse stato uno di loro, un erede?

Aveva fatto bene a ritirarsi, lei non voleva entrare in qualsiasi casino si fossero messi. Aveva fatto tanto per tenersi fuori da tutto, per assicurarsi una sopravvivenza solitaria, mischiarsi in una lotta del genere avrebbe vanificato ogni suo sforzo. A quale schieramento si sarebbe unita, poi?

In quale schieramento l'avrebbero voluta, era la vera domanda.

Si schermò dal sole albeggiante con un arto, per evitare che l'accecasse uscendo dal tubo. Un problema per volta: per prima cosa sarebbe dovuta riuscire a entrare di soppiatto, evitando quella schiavista della sua capa, e poi avrebbe dovuto convincere Betty a clonarle il badge, forse barattando qualche turno in cambio del favore. La aspettava un altro mese da incubo, senza considerare l'approssimarsi delle feste, da sempre periodo di amore e odio per chiunque si occupasse di dolci non industriali.

Si fece strada per l'affollato marciapiede, svoltando a destra quando scorse l'imponente insegna dorata "Meunier Patisserie". Al posto di dirigersi, come d'abitudine, all'entrata riservata ai dipendenti, la sorpassò, affacciandosi alla finestra dell'area ricreativa. Al suo interno, sdraiata sul divanetto chiaro, vi era Donna, intenta a guardare qualcosa sul cellulare. Aveva appoggiato per terra un bicchierino di carta, ormai vuoto, e in testa aveva ancora la cuffietta bianca, mentre da un piede lasciava ciondolare la ciabatta sanitaria della loro divisa. Bussò sul vetro, appoggiando prima una mano alla parete in mattoni per controllare che non stesse arrivando nessun altro, e saltellò sul posto per farsi notare. Solo dopo vari tentativi, la sua collega spostò gli occhi castani dallo schermo alla finestra, alzando un sopracciglio in risposta alla scena. Con una lentezza paragonabile a quella di un bradipo, indicò l'ingresso. Poco dopo le aprì.

«Vivas, ti diverti proprio a trovare nuovi modi per farti licenziare» commentò, appoggiandosi a uno stipite.

«Sono del laboratorio creativo, no?» entrò, non avendo molto tempo da perdere.

«Non posso fare altro che notare la tua puntualità, è successo qualcosa?»

«Temo di aver perso il tesserino. Ma è una lunga storia» la interruppe subito, non volendo che si soffermasse troppo sulla mancanza di una giacca o cappotto, andare in giro con solo una maglietta a novembre inoltrato non era comune, e sull'evidente squarcio laterale nei pantaloni scuri che indossava.

«Che è successo?» dispiaciuta, Donna le confermò i suoi timori.

«Vivas!» sentì la voce della responsabile richiamarla, prima che potesse anche solo sbuffare contrariata. Prese un respiro profondo. «Dovremmo essere onorati della sua presenza con ben cinque minuti di anticipo dall'inizio del suo turno?».

Si trattenne dal rispondere con un dovuto Sa, ieri sera mi hanno accoltellata in gruppo e per sfuggire mi sono gettata nel Tamigi, non che a lei interessi, visto che, se non sono morta, non ho motivo per non venire a lavoro, no?, limitandosi a un diplomatico: «Buongiorno, mi scusi per il ritardo».

Era la donna più odiata dell'edificio, ma doveva riconoscerle quanto fosse brava e professionale nel suo lavoro: sempre impeccabile, non un capello fuori posto, tacchi e completo ogni giorno, accompagnati dall'immancabile tablet per monitorare la situazione del suo reparto.

«Risparmiati le scuse, non mi interessano. Piuttosto, hai bisogno di rileggerti il regolamento?».

Ripercorse mentalmente le ultime settimane, chiedendosi che cosa avesse fatto di così grave da meritare un rimprovero pubblico. Aveva parlato con sua mamma della nuova ricetta, infrangendo la segretezza, ma sua mamma non lavorava in quel settore e non lo avrebbe mai rivelato a concorrenti. Che le avesse messo delle microspie in casa?

«Io non... Non credo».

«E il tuo ospite immagino sia qui per caso» ribatté, facendo schioccare la lingua sul palato.

«Ospite?».

«È nel mio ufficio. Ti concedo al massimo dieci minuti» fu tutto ciò che le diede come spiegazione, sorpassando lei e Donna, marciando verso la zona rivolta al pubblico. Mentre il rumore dei passi sul pavimento rimbombava ancora nelle stanze vuote, il reparto creativo non aveva orari pressanti come la pasticceria e le cucine, a Lante non rimase altro che alzare le spalle sotto lo sguardo preoccupato della collega e dirigersi verso l'ufficio della sua responsabile.

«Se non torno entro cinque minuti o senti strani rumori, chiama la polizia» sussurrò, stringendo la cinghia della borsa per infondersi forza.

Un richiamo, come quello provato a casa di Coaxoch, proveniva da dietro quella porta. Ma non era il suo sangue di lamia a richiamarla verso il nido: era più profondo, più ancestrale, una chiamata che rivibrava con il suo centro, con la sua stessa essenza. Una sensazione più profonda del legame che la legava ai suoi stessi fratelli, un legame più duraturo del sangue, che verteva su un destino comune.

«Lante?». La reazione che aveva avuto la sera prima era una pallida imitazione, in confronto alla scossa che le provocò in quel momento.

Sentì il suo cuore pulsarle nelle orecchie, mentre il corridoio sembrava allungarsi e allontanarsi sempre di più. La sua vista si stava oscurando e con l'ultimo brandello di energia sussurrò: «Ulratch». Il terreno cedette sotto i suoi piedi e non le rimase altro che sprofondare nella voragine.

Continuò a cadere, mentre le sue mani si macchiavano di un liquido corposo, che continuava a sgorgare. Cercò la sua fonte, ma non sembrava fermarsi. E premeva, premeva, continuava a premere, su un torace squarciato, troppo forte e intonso per appartenere a qualcuno di un'età accettabile per trovarsi in quella situazione. Per quello avrebbe dovuto continuare a premere, e premere.

Fino a che delle dita deboli e tremule non le sfiorarono il volto, portando la sua attenzione sul loro proprietario. Era giovane, tremendamente giovane. La fissava, con due occhi castani umidi, più vivi che mai, nonostante stessero cedendo all'abbraccio della morte, al quale il suo corpo si stava abbandonando. La determinazione però, con cui li teneva spalancati, quella sarebbe stata l'ultima a seguire. Un combattente, fino all'ultimo. Lui che ultimo era sempre stato. Così diverso da lei, che invece era la prima, ma uniti nell'essere unici al mondo.

«Inritch» con voce flebile la chiamò, «Inritch, lasciami andare».

«No!» urlò qualcuno alla sua destra. Un ragazzo biondo, seduto accanto a loro, in disparte, come se avesse paura che dando il suo aiuto avrebbe solo peggiorato la situazione. Era ricoperto anche lui del sangue di Ku e forse era l'unico in grado di sentirne il peso più di lei. «Ci deve essere un modo, non puoi fare una di quelle cose, che fai tu. Col sangue non so, io non...» le parole gli morirono in gola, in un verso strozzato, mentre si copriva il capo con le mani.

«Non è così che funziona, Ulratch, lo sai meglio di noi, ormai» sereno, come mai prima di quel momento, Ku aveva accettato la sua fine. «Non è stato molto, ma sono grato del tempo che ho avuto» cercò di intrecciare le dita di Lante, la quale prese la sua mano fra le sue, nella speranza di regalargli un po' di conforto. Anche l'altro mise da parte il suo dolore per fare lo stesso, spostandosi per sollevargli il capo e appoggiarlo sul su ventre, mentre gli passava le dita fra i capelli castani.

«Non può finire così, Ku, non può» singhiozzò, gli occhi verdi ormai ricolmi di lacrime. Lante non riusciva a vederli così, nessuno dei due, ma non aveva il potere di cambiare la sorte. Avrebbe voluto, ma non ne era in grado.

«Non mi è rimasto molto tempo, ho qualcosa da dirvi» poco più di un sussurro, li costrinse ad avvicinarsi a lui, «Voi siete tutto ciò che ho e tutto quello che ho da lasciarvi. Inritch e Ulratch, non dimenticatelo».

Le lacrime le annebbiavano ormai la visuale, fino a ridurre a macchie informi e indistinte. Si portò i palmi contro gli occhi, pressandoli con forza, nella speranza di calmare il tremore che scuoteva la sua figura. Non sapeva nemmeno più dove si trovasse, sentiva solo freddo.

«Lante? Lante!» una voce distante la chiamò. Istintivamente si sporse in quella direzione, cercando un sostegno, qualcosa che la ancorasse. Il qualcosa emise un suono contrariato.

Venne avvolta da un abbraccio caldo, che la sollevò, permettendole di respirare. Una nuova luce la colpì, costringendola a richiudere gli occhi e pressare il volto verso la spalla di chi la stava circondando.

«Lante?» la voce si rivolse di nuovo a lei, mentre il suo appiglio l'abbandonava.

Costrinse il suo corpo a collaborare, a tornare al momento presente. Si concentrò sulle sue percezioni, sulle superfici con cui era a contatto il suo corpo. La loro solidità, la loro temperatura fredda, distinguendone i confini.

Rilassò i muscoli, mentre lo spazio si delineava, al suo tatto. Il contatto, o mancanza di tale, le forniva informazioni sul mondo che la circondava. Come il pavimento su cui era seduta, o la parete alla quale era appoggiata con la schiena e col capo. L'aria corrente del corridoio, interrotta da un respiro caldo, sulle sue guance. Era una sensazione flebile, appena percettibile, ma ben presente nella sua mente.

Aprì gli occhi e un volto preoccupato fu la prima cosa che l'accolse. Era un uomo sulla trentina, forse meno, dai disordinati capelli color grano e due sottili occhi verdi, i lineamenti marcati e la mascella contratta. Era lo stesso uomo che l'aveva chiamata la sera precedente.

«Lante?».

«Chi mi cerca?» rispose, sulla difensiva. Era seduta per terra, fuori dall'ufficio della sua responsabile, la schiena contro la parete del corridoio color beige. L'altro era accovacciato per terra, la parte inferiore del cappotto stesa sul pavimento, mentre i pantaloni del completo erano tirati morbidamente sulle gambe, data la posizione. Il materiale sembrava costoso, così come quello della camicia e della cravatta.

«Non lo sai?» si informò, assumendo un'espressione quasi dispiaciuta. Raramente aveva visto un'apertura simile sul viso di uno sconosciuto.

«Chiedo venia, non sono aggiornata col gossip» prese tempo, non volendo dar retta a ciò che la sua memoria sembrava suggerirle. Frode. Ulratch. Il cuore dell'ultimo dei draghi.

«Non sono una persona famosa, sono solo... il veggente» indietreggiò, come ferito dalla sua ammissione. Come se avesse ammesso qualcosa di peccaminoso o vergognoso. Per qualche motivo odiava vedere quell'espressione sul suo volto.

«Le lamia sembrano conoscerti» disse, al posto di abbracciarlo, come avrebbe voluto fare, senza conoscerne il motivo.

«Non ho mai incontrato una lamia, in questa vita almeno» affermò, tenendo lo sguardo basso, come rassegnato. Ora che riusciva bene a metterlo a fuoco, il suo zigomo era contornato da un livido, dalla dimensione e dal predominante color giallastro non doveva essere serio, e sembrava provato, come se il rimanere sveglio fosse una sfida che poteva vincere solo grazie alla sua volontà.

«Sei scarsino come veggente».

«So che sei in parte una di loro» le sorrise, guardandola speranzoso, come due complici che accennavano a eventi conosciuti solo a loro. Per un solo attimo, poi il suo sguardo si spense nuovamente. «Quello che voglio dire è che so chi sei, lo so bene. E da qualche parte, so che anche tu sai chi sono» fece una pausa, cercando qualcosa nella tasca del cappotto, «Ho bisogno di parlarti e, se quella piccola parte di te che si ricorda di me è ancora viva, alle sei sarò qui fuori, ad aspettarti» concluse, lasciandole un tesserino, il suo tesserino.

Lo afferrò, guardando l'uomo, Frode, alzarsi in piedi e dirigersi verso l'uscita. Era la seconda proposta che riceveva quel giorno: sentiva non sarebbe stata l'ultima.

«Ulratch» mormorò, in modo che potesse sentirla.

«Inritch» le rispose lui, dopo un attimo di esitazione.

Tornò a guardare il suo badge, galeotto strumento elettronico causa di ogni suo male. Appoggiò il capo al muro, chiudendo gli occhi. Non aveva scelta, vero? Si era tanto illusa quella mattina, ma nel momento stesso in cui lo aveva riconosciuto, aveva segnato il suo destino.

Ulratch e Inritch. Il mio cuore e la mia anima, aveva sussurrato loro l'ultimo dei draghi, nella sua lingua madre.











Ciambella parla a vanvera (il quale sta riattaccando il "Divieto di avvicinamento", strappato in precedenza dal donut):

Non sono ancora totalmente convinta di questo capitolo, ma ne sono più convinta di un mese fa. Speri si noti, in caso contrario ci dovrò lavorare ancora, che il tono è un po' diverso dai precedenti. Questo è dovuto al cambio di punto di vista, qui Lante presentata in tutta la sua confusione e voglia di starsene tranquilla.

Spero che come personaggio vi stia piacendo, servirà a spiegare molte cose e ampliare la confusione di base. Se vi aspettavate una storia breve e lineare, mi spiace e vi conviene interrompere qui. Per i più avventurieri, vi dò ufficialmente il benvenuto al vivo della faccenda.

Ciò detto, le spiegazioni arriveranno, prima o poi, ma per ora vi assicuro che conviene solo seguire il ritmo e le vicende della storia. Questo se, ovviamente, avete fiducia nel fatto che io sappia cosa sto facendo.

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