𝘔𝘠 𝘚𝘞𝘌𝘌𝘛 𝘏𝘖𝘔𝘌 - 1 capitolo.

𝘍𝘐𝘓𝘔
(𝘈𝘮𝘺𝘣𝘦𝘵𝘩 𝘔𝘤𝘕𝘶𝘭𝘵𝘺, 𝘓𝘶𝘤𝘢𝘴 𝘑. 𝘡𝘶𝘮𝘢𝘯𝘯)

𝘔𝘠 𝘚𝘞𝘌𝘌𝘛 𝘏𝘖𝘔𝘌

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1.

«Bisogna prevenire un'infezione...» Spiegò imbevendo un batuffolo di disinfettante, premendolo poi sulla ferita. «Non c'è niente di cui preoccuparsi. Se lo si cura a dovere, rimarrà solo una piccola cicatrice.»
Le lacrime scorrevano sulle guance scendendo lungo la mandibola fino a cadere sul dorso della mano, mentre stringevo la carta. «Vuoi che chiami la polizia?» Sollevai la testa e negai. «Abbiamo finito.»

Tolse i guanti di plastica e li lasciò scivolare nel recipiente, insieme agli strumenti per la medicazione.

"Chi sei tu? A volte, non ti riconosco." Portai la mano sul petto, ascoltando i battiti accelerati del mio cuore, prima di sciogliere la coda di cavallo e aggiustare i capelli appiattendoli.

Iniziai a camminare per raggiungere l'uscita, il corridoio era affollato.

«Liberate la strada! Liberate la strada! Presto!» urlò un uomo disperato correndo verso l'ambulatorio con fra le braccia una bambina svenuta, dandomi una spallata. Proseguii scansando le barrelle, e in sottofondo risuonò l'annuncio di un medico richiesto in sala operatoria.

Mi diressi verso l'uscita e salii nel taxi, realizzando la mancanza di qualcosa.

«Disculpe, sólo un segundo... Olvidé mi bolso, ya vuelvo*» dissi all'autista e corsi in bagno, trovandola abbandonata sul lavandino. L'afferrai al volo con sollievo e sfrecciai da un corridoio all'altro, raggiungendo le porte, ma il meccanismo si inceppò al mio passaggio. Bussai sul vetro per farmi sentire, ma il taxi era stato preso da qualcun'altra. Bella fregatura... «¡Por favor! ¡Por favor!» Battei i piedi per terra arrabbiata e sbuffai. «Ugh!»

Qualcuno mi colpì inavvertitamente e quando mi voltai ritrovai davanti a me il viso di un ragazzo. Spaventata emisi un urlo talmente potente e i presenti ci guardarono sbigottiti, chiedendosi se fosse accaduto qualcosa di grave. L'unico gesto che gli vidi fare fu alzare un sopracciglio e alzare il braccio, spingendosi su di me. Fece scorrere la porta e meccanismo ripartí; uscii all'esterno senza scomodarmi a ringraziarlo o scusarmi per quella reazione esagerata. Lui non smetteva di fissarmi addentando la brioche.

«Che cosa stai guardando!» Sbottai, fuggendo alla ricerca di un taxi.

Mi trovavo di fronte a quella casa.
La neve cadeva lentamente intorno a me e i due bambini urlarono "mamma, c'è una signora là fuori".

«Chi sta cercando?» Chiese.

Ero ferma al cancello. Non avevo il coraggio di oltrepassarlo.
«Sei Dalila?».

«Sí, sono io.» rispose mentre mi fermavo a qualche metro, e spostai lo sguardo verso la finestra, dov'erano affacciati i suoi figli.

La cassa toracica andò su e giù e strinsi il manico della borsa fra le dita, prima di osservarla.

«Voglio scusarmi. Sono quella con cui tuo marito ha una relazione da un anno.» La donna si irrigidì e chinò la testa, consapevole di quello che lui aveva fatto. Aveva giocato spodoramemte con i sentimenti di entrambe illudendoci. «Ho appena scoperto ch'é sposato. Lo giuro, non lo sapevo. Volevo rompere e lui mi ha fatto questo...» Spostai i capelli per mostrarle la ferita che guardò con dolore misto a disprezzo.Avevo appena distrutto l'immagine della sua famiglia felice, che aveva costruito, ma le avevo aperto anche gli occhi su che razza di persona fosse chi aveva aveva sposato. «Volevo davvero scusarmi.»

Con gli occhi pieni di lacrime senza aspettare un perdono che sapevo non sarebbe arrivato, le diedi le spalle e mi allontanai. Spalancò la porta e mi osservò incredula, che fossi tornata all'ovile, come una pecorella smarrita.

«Mamma!» Bisbigliai e mi accolse con il sorriso sulle labbra, pronta a lenire la ferita che mi portavo dentro.

Continuai a piangere sul mio letto, accerchiata da foto, peluche e altri gingilli di quando ero piccola.

«Tesoro.» Si posizionò accanto a me accarezzandomi le spalle e mi porse delle pillole. «Prendi. Ti faranno bene. Non piangere, amore mio.»

«Mamma, come farò a guardare papà negli occhi?» Singhiozzai.

«Non importa, quello ch'è successo... successo, ora sei qui con noi. Vedrai, anche papà ti perdonerà.» affermò con ottimismo mentre mia sorella le passò un bicchiere d'acqua, che mi consegnò.

Quella mattina, l'unico rumore era il tintinnio del cucchiaio sul bordo della tazza. Si portò un pezzo alla bocca per finire prima la colazione, e sboncellò un po' di pane nel mutismo generale.

Fissai le posate strette nelle mie mani per tagliare l'omelette e poi l'espressione fredda di mio padre. Notai che gli serviva il sale e nell'allungarsi per prenderlo, lo anticipai, ma riprese a mangiare come se niente fosse.

Era devastante sapere che quella figlia modello era definitivamente scomparsa. Ora mi ignorava.

Guardai mia madre che mangiava in silenzio, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. A quel punto, mi alzai e avvolsi le braccia attorno al corpo. Volevo solo tornare quella di prima, fargli capire che potevo farcela. Ma lui non non ricambiò il mio affetto, non gli ispiravo più fiducia.

Era rigido come una statua di pietra e guardava avanti.

«Papà, per favore perdonami. Ti prego, perdonami... Niente di quello che faccio è giusto! Ti prego, perdonami! Ho bisogno di sapere che si aggiusterà tutto.» Lo supplicai, ma lui non parlò. Scattò in piedi, prese la giacca e lasciò la stanza. Mi tappai la bocca e lo seguii fuori al gelo, urlando a squarciagola il suo nome. Continuò a camminare, poi si bloccò.

«Papà, devi perdonarmi! Morirò se non lo fai!»

Le ballerine affondarono passo dopo passo nella neve e quello strato duro sul cuore si sciolse, mostrando tutte le sue fragilità. Gli toccai i pugni, appoggiando la testa sulla schiena.

«Volevo mandarti via lo stesso! Hai giocato con il mio onore, distrutto la dignità della nostra famiglia! Come potrei pensare di perdonarti?» Sollevai la testa e lo guardai. «Mi hai trascinato nella vergogna.»

«Sono stata ingannata, papà! Lo giuro, mi ha preso in giro. Ha distrutto i miei sogni.» Non rispose e fortificai la presa. «Papà! Mi manderai via da questa casa come un cane rognoso, hai deciso di voltarmi le spalle. Ma io ti sto implorando.» sussurrai riabbassando la faccia sulla sua schiena e massaggiandogli il petto. «Ti prego papà, perdona tua figlia.»

La neve ormai si adagiava sul terreno a grandi fiocchi, poi una fitta pioggia e infine quel rigido inverno lasciò il posto ad alberi rigogliosi. L'autunno fece cadere al suolo le foglie, che volteggiarono in aria, e un'altra stagione invernale tornò a farsi strada con un inconfondibile manto bianco.

Mi piaceva disegnare sull'alone delle forme buffe, con la leggera differenza che non ero più una bambina.

Non ero più la ragazza tornata un anno prima. Tutta quella sofferenza era stata cancellata dal calore e la vicinanza dei miei cari.

Spazzai via l'alone, osservando il giardino seppellito dalla coltre bianca, e sorrisi a quella vista.

«Ok, sarò lì tra circa un'ora.» informò mio padre mentre estraevo un'altra spilla dal puntaspilli. «Forza tesoro, sbrigati. Farò tardi al cantiere.»

«Finirei più in fretta, se tu stessi fermo papà.»

«Wow, wow, wow... Come mi sta questo colore? Bello? Non è vero?» domandò  cambiando posizione come un pavone dinanzi allo specchio. «D'ora in poi indosserò solo gli abiti che mi confezioni tu, cara.»

«Sí! Perché spendi così tanti soldi per il tuo guardaroba?»

«Hai ragione» asserì e alzai gli occhi dopo aver stirato le pieghe, ritrovando la vecchia complicità in quelle pietre azzurre meravigliose. Gli sorrisi e mi diede un buffetto sulla guancia, poi l'abbracciai di slancio. «Fermati scriccioletto o strappiamo quello che hai cucito! E farò anche tardi...»

«Ah, papà?»

«Cosa?»

«Hai dimenticato che avevi promesso di pranzare insieme?»

«Ok, andiamo prima al cantiere. Alcuni operai hanno creato dei problemi. Devo togliere la giacca?»

«Toglila, ma attento.» dissi raggiungendolo per aiutarlo a sfilare le maniche.

«Ah!» esclamò dopo essersi punto. «Avresti dovuto toglierle prima, tesoro.»

«Ok.»

«Il pantalone sta scivolando, aspetta.» dichiarò.

Qualche minuto più tardi, l'auto si fermò sotto delle imponenti impalcature di ferro e mio padre tirò il freno a mano, voltandosi nella mia direzione.

«Non preoccuparti, non ci vorrà molto.»

«Andiamo, papà. Sto morendo di fame.» ridacchiò e scese per fare un sopralluogo.

L'osservai sparire nell'ascensore insieme ad altri uomini, munito di caschetto di protezione.

Era la prima volta che venivo qui.



𝘓𝘶𝘤𝘢𝘴

L'avevo visto dall'alto dell'impalcatura quell'uomo, vestito di tutto punto, domandare se i lavori stessero procedendo. Mentre noi ci sporcavamo le mani o ci distruggevamo le nocche a trasportare i blocchi di cemento su e giù, quello veniva a dettare leggere seduto sul suo trono.

Com'era soddisfacente essere un vecchio parassita pieno di quattrini, pronto a giudicare e condannare senza pietà chi non era alla sua altezza.

«Guardi e veda se sono asciutti!» Saltai giù sotto gli sguardi stupiti dei presenti e spinsi il casco sulla testa posizionandomi di fronte a lui. «Non posso permettere a nessuno di rischiare la vita. Se vuole che allestisca un'impalcatura con questo materiale... lo farà da solo!» Un ragazzo gli passò un pezzo e l'osservò con attenzione, rigirandoselo fra le mani. «Signore, le tavole sono ancora bagnate. Non riuscirebbero a sostenere neppure un uomo.»

«Chi sei tu?»

«Lucas, signore. Il capo di questa squadra.»









𝘈𝘮𝘺𝘣𝘦𝘵𝘩

«Aymeric!»

«Siamo fregati Amybeth, fottutamente fregati.» sottolineò alterato dalla parte opposta della cornetta.

«Perché? Cos'è successo?»

«I falegnami sono scappati.»

Arricciai la fronte. «Come mai?»

«Glielo chiedo se lo vedo. Dobbiamo aprire il negozio tra una settimana... E sto inchiodando gli scaffali da solo. Mi sono anche schiacciato un dito!» si lamentò, montando una scena melodrammatica, facendomi chiudere gli occhi e trarre un sospiro. «Aiutami Amy, aiutami!»

«Va bene, non fatevi prendere dal panico. Risolverò la faccenda.»

Scesi dall'auto disobbedendo a mio padre, e infilai il caschetto entrando nel montacarichi accompagnato da un addetto.

Da questa altezza, si riusciva a vedere l'intero cantiere e, a un certo punto, un pantalone grigio, una cintura allacciata alla vita mi sfilarono davanti, ma non riuscii a vedere null'altro, visto che il tizio si era girato allontanandosi.

Ebbi l'impressione di averlo già visto, ma adesso mi sfuggiva, e decisi di accantonare quel pensiero per concentrarmi su quel problema.

«E ha potuto finire quei pezzi e quei lavori per mesi. Odio questo lavoro da somari!» spiegò con aria sconsolata mentre controllavo la lampada che prendeva dal soffitto.

«Non preoccuparti. Papà mi ha promesso che ci manderà il suo uomo migliore. Mi ha dato la sua parola.» Mi voltai. «Ma si vocifera che quell'uomo sia un po' arrogante, quindi non farti mettere i piedi in testa.»

«L'ultima di cosa di cui ho bisogno è essere picchiato da un carpentiere!»

Risi, invitandolo ad rimettersi in piedi.
«Dev'essere arrivato. Vieni.» Ci spostammo fuori, aspettando che l'uomo facesse il suo trionfale esordio, e il castano si sporse, udendo i passi degli anfibi, come se stesse per entrare una mandria di bufali.

«Ci hanno mandato un solo uomo. Sarà costretto a fare tutto il lavoro.» Gli assestai una gomitata intimandolo a non sparare idiozie.

Lui sistemò la cintura con arnesi sul fianco e quando inquadrai meglio il suo volto, i ricci che ondeggiavano ad ogni suo passo, smisi letteralmente di respirare o muovermi con gli occhi strabuzzati e la bocca spalancata.

Si fermò davanti a noi con atteggiamento rude, posando le mani sui fianchi. «Dov'é il lavoro?».

Aymeric si schiarí la voce.

«Bene... Benvenuto. Da questa parte, ma prima beviamo del caffè.» Roteò gli occhi e ignorando i modi gentili del mio amico entrò dentro. Il castano lo seguí per spiegargli con calma dove iniziare. Mi affacciai dallo stipite tentando di non dare nell'occhio, facendo la figura della stalker - effettivamente era difficile staccare gli occhi dal riccio, mentre smontava le mensole. «Che stai facendo!? Ci stavo lavorando da due giorni!» piagnucolò Aymeric e il fracasso mi fece sussultare.

«I pannelli di gesso sono inclinati. Per prima cosa dobbiamo sistemarli.» Con facilità tolse l'ultima e la fece cadere sul pavimento.

«Cosa!? Non rompere i pannelli di cartongesso!» sbraitò il castano terrorizzato che stesse per  buttare giù perfino i muri, a colpi di martello. «Dove li trovo ora dei nuovi pannelli di gesso? Amybeth!» mi chiamò e per lo spavento feci cadere un secchio con la vernice bianca.

Da quel momento, il sorriso e l'espressione imbambolata non abbandonò più il mio volto.

Avevo qualche problema a tornare con i piedi per terra o ad ascoltare chiunque mi parlasse, visto che stavo navigando in dolce fantasie romantiche con il mio aitante e bel carpentiere.

La porta automatica si bloccò come in ospedale e quando girai il collo fui sbigottita nel ritrovarmelo dietro con espressione indifferente, ma stavolta non mi cimentai in urli stratosferici. "Di nuovo." pensai reclinando la testa, fissando il suo pomo d'Adamo salire e scendere. Come la prima volta avvicinò la mano e mi aiutò, schiacciando il suo petto al mio.


𝘓𝘶𝘤𝘢𝘴

Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto e la strinsi nelle labbra, osservando la giovane scendere dal marciapiede.
Salii sul mio furgone e girai la chiave nel quadro. La ragazza mi lanciò un timido sorriso, stringendosi nel cappotto e salutai, a mia volta.

A quel punto, sventolò il braccio e un tizio incappucciato a bordo di una moto le strappò la borsetta. Inserii la prima per intercettare quel ladruncolo cercando di fargli perdere l'equilibrio sulle ruote con un veloce slalom e ci riuscii.

Impattò contro il muso del camion e volò direttamente sul tetto, sventrando il telo. Uscii imbracciando il bastone di ferro che avevo per sicurezza e lo utilizzai per spaventarlo.

Il tizio scappò senza togliere il passamontagna, prima che cambiassi idea, facendolo rimpiangere di essere nato. Gettai la mazza sul sedile con noncuranza e m'inginocchiai accanto alla ragazza.

«Stai bene?»

Si portò delle ciocche dietro l'orecchio e abbassò la testa.

«Sto bene.»

«Cosa ci fai con tante penne? Le vendi?» domandai prendendole mentre l'aiutavo a raccogliere.

Dopotutto ero un gentiluomo.

«Di solito, le dimentico.» rispose con una vocina molto flebile.

Ci alzammo e riposi quegli oggetti al loro posto.

«Hai la macchina?»

«No.» si guardò intorno chiudendo la borsa. «Sto aspettando il bus. Suppongo che ne passi uno, a quest'ora.» Sbattei le mani allontanandomi verso il furgone e mi urlò. «Sai per caso quando passa il prossimo?»

Non potevo ovviamente lasciare quella povera ragazza, sola e in giro per la città visto che stava per calare la sera.

Aggiustai alcune cianfrusaglie, dando anche un'occhiata alle ruote e al telaio, sperando che la colluttazione di prima non l'avesse danneggiato. Poi salii, sfregando le mani a causa del freddo.

«Andiamo da qualche parte?» domandò mentre mettevo in moto. «E se si mette a nevicare?» Mi voltai recuperando una coperta di lana e gliela lanciai sulle gambe. «Cos'é questo?» Accelerai di colpo e venne sospinta contro il sedile, urlando per lo spavento. «Dirò a mio padre di far riparare il tuo tendone.» Quando la guardai racchiusa, cercai di non ridere visto che era avvolta come un involtino. «Picchi la gente con quel coso? Perché picchi la gente?» Non risposi continuando a guardare la strada e guidare tenendo le mani sul volante. «Mi dispiace.» Sussurrò.

«Perché?»

«Perché ti ho urlato contro l'ultima volta.» abbozzai un leggero sorriso, fissando lo specchietto. «Ok, ok, vedo che non sei di molte parole tu. Sto zitta.»

Scese per dirigersi verso la porta camminando a piccoli passi, bloccandosi a metà strada.

«Comunque... puoi tenerla la coperta.»

«G-Grazie.» balbettò.

Le rivolsi un ultimo sorriso e ingranai la marcia, sparendo nella notte.









𝘈𝘮𝘺𝘣𝘦𝘵𝘩

Ogni giorno uscivo di soppiatto per raggiungere il cantiere, nascondendomi dietro blocchi di cemento per spiare il riccio che impartiva ordini al gruppo di uomini.

«Si può sapere dov'é il caffé?» domandò lui sbuffando un po' di fumo, mantenendo con l'indice la sigaretta.

«Beh, da qualche parte.»

«Il caffè è di nuovo freddo, capo!»

Mi rialzai piano.

«Ho solo potuti salvarli dagli stuccatori.»

«Li hai fatti sembrare delle stelle.»

«Se dobbiamo procurarci un microonde?»

«Stai dicendo la stessa cosa ogni volta.» Lo bacchettò. «Sai che non ce lo possiamo permettere.»

«Posso pagare io per tutti.»

Mi misi dritta, gonfiando le guance, e mi voltai, ma nel farlo colpii un addetto e fui investita in poco tempo da una polvere asfissiante.

«Dannazione! Il sacco si è rotto, urgh!» tuonò il malcapitato, cercando di raccogliere quel che ne restava.

Aprii le palpebre, girando gli occhi da una parte all'altra, non vedendo più il riccio e tossii, scuotendomi di dosso quella polvere bianca, che mi aveva ricoperto completamente.

Somigliavo a un fantasma... e del riccio non c'era più traccia.

Probabilmente era in pausa.

Quella sera avevo i pensieri ingarbugliati e lo sguardo perso nel vuoto, preparandomi a fare un altro passo in avanti in quella difficile missione.

«Tutto questo caffè... ci farà sicuramente gonfiare come un pallone.» affermò Lia guardando le altre. «Prendiamo un po' di coca?»

«Che cosa!?» esclamai oltraggiata da quella proposta. «Non c'è cocaina, bevi pure il tuo caffè se non ti dispiace.»

«Come sai che verranno qui?» domandò Glenna.

«Lo so, perché vengono qui ogni notte.» risposi ispezionando il posto nella speranza di vederlo.

«Devo fare pipì!»

«Vai in bagno.» asserì Miranda facendo una smorfia spalmando la maionese nel panino.

«Sei pazza? Non penserai mica che userò quel bagno? Sai quanti microbi infesteranno la tavoletta? No... No.»

La biondina alzò gli occhi al cielo, infastidita dall'ossessione per il pulito della Waters.

«Urgh!» sbuffai.

«Giusto, giusto... Trattienila, se riesci. Amybeth perché ci hai portate qui!?»

«Stai parlando a vanvera! Fai un po' di silenzio!» la rimproverai mentre Lia stava divorando il panino.

Glenna poi guardò un punto alle nostre spalle. «Quelli?» domandò e mi girai vedendoli avvicinarsi, scroccandosi sigarette a vicenda.

Mi voltai ancora e infilai subito gli occhiali da sole sotto gli sguardi perplessi delle ragazze, che naturalmente ignoravano la ragione del mio comportamento.

«Perché indossi quegli occhiali?»

La riccia mi guardò sospettosa e le mormorai "shh", mentre i ragazzi prendevano posto al tavolo dietro il nostro.

«Hai intenzione di bere il rum?»
«Oppure del succo di rapa?» propose un altro.
«Non sarebbe così male, eh?» Aggiunse.

«Questi ragazzi sono dei bifolchi!» Commentò Miranda, portandosi la mano sotto al mento.

«Guarda un po', amico.»

Le due nel notare dell'interessamento maschile si aprirono in un sorriso, mentre potevo dire di non respirare per l'ansia.

I discorsi sul fatto che avessero fatto colpo mi fischiavano nelle orecchie e decisi di darci un taglio, togliendo gli occhiali, alzandomi e avvicinandomi con una scusa plausibile.

«Controlla, per favore.»

«Subito, signorina.»

Il riccio alzò gli occhi, e finsi di non averlo notato, seduto lì sulle sue.

Ridacchiai perché sapevo che l'incontro era premeditato e non del tutto causale.

«Anche tu qui?» annuì capendo al volo le mie intenzioni. «Siamo venute qui perché le polpette sono molto...Buone.» mi girai verso le altre e ripresi a parlare. «In realtà mi ha fatto piacere rivederti. Ho ancora la tua coperta.»

«Coperta?» ripeté il compagno con malizia e il riccio accennò un sorriso.

«Aggiungetevi a noi.»

Guardai il tavolo, facendo cenno alle ragazze, ma le tre erano parecchio reticenti sull'accettare l'invito.

«Signori.»

Il gruppo scattò in piedi all'unisono e su divise in due tavoli: le ragazze con gli altri, Lucas e io più distanti. Mi porse una tazza di caffè e lo guardai negli occhi, quando le mani si sfiorarono provocandomi un brivido lungo la schiena.

«Quando chiederai la mano della nostra ragazza?» Domandò Glenna, alzando di proposito la voce.

«Non vuole sposarsi. Ha un sacco di soldi e sta già risparmiando per il futuro.»

«Idioti! Lei è figlia del capo!» quell'affermazione fece esplodere tutti in una fragorosa risata, mentre noi due li guardavamo senza intervenire.

«Guardali... Che tesori.» Fantasticò Miranda.

«Oh, sto per piangere.»

Pian piano appoggiai la testa sulla spalla e lui, dal suo canto, intrecciò i nostri incavi sotto il tavolo, cercando di non farlo a vedere ai presenti, per evitare che fraintendessero.

«Non per me.» dissi mentre versava dal liquido nel bicchiere.

«Se lo bevi... saremo amanti.»

Corrugai la fronte osservandolo.
«E se non lo facessi?» replicai.

«Saremo estranei per il resto della nostra  vita.» Sentenziò.

Prese il suo bicchiere facendo ondeggiare la vodka sotto il suo naso, e portai automaticamente il mio alle labbra tracannandolo in un solo sorso, facendolo addirittura traboccare. Poi asciugai la bocca con il dorso.

Lui fece passò un bacio sulla schiena per attirarmi più vicino e poggiò le sue labbra sulle mie, travolgermi con un bacio indimenticabile, capace di fare tremare il mio cuore e annullare ogni paura. Anche dopo essere tornata a casa, non facevo altro che rievocare quel momento: "il mio primo meraviglioso primo bacio".







𝘓𝘶𝘤𝘢𝘴

I ricci erano più ingestibili delle altre volte e continuavo a lottare con il pettine per tenerli in ordine, dopo aver averli tagliati un po'.

«Appuntamento?» ammiccò malizioso il giovane e sorrisi.

Per la prima volta, quella parola non mi dava l'orticaria anzi ero felice.

Aprì un cassetto e mi porse una boccetta di profumo.

«Bisogna dare un piccolo contributo.» Feci cadere alcune gocce e continuai a fissare il mio riflesso, bagnando il collo.
Avevo deciso di fare una cosa alternativa, non la semplicissima cena a lume di candela. Volevo mostrarle quella parte di me. Presi la stecca, impregnando l'estremità col gesso, e le passai accanto per colpire le palline disposte a triangolo.

Quando le mandavo in buca era entusiasta e saltellava applaudendo.
La spinsi a provare qualche tiro, indicando come mantenerla, ma al secondo o terzo tentativo... la palla balzò letteralmente all'altro tavolo. Amybeth cercò di scappare, ma l'afferrai, facendo un cenno di scuse al ragazzo che rispose con un sorriso. Visitammo molti posti e la portai anche al cinema.

L'invasione di quei zombi assassini pronti ad assaltarci uscendo dallo schermo, a causa di quegli occhialini in 3D, mi fece sobbalzare dalla poltrona e volare in aria tutti i popcorn.

«Guarda devi iniziare con quelli rossi. Poi bisogna buttare dentro anche i colorati.» Scosse la testa, poggiando la mano sul mio dorso, tenendo nell'altra la mazza. «Quello nero ti fa guadagnare più punteggio. Ok?»

«Uh, Uh.»

«Hai capito?»

«Credo di sì.»

La portai all'acqua ammirando le vasche. Da una minuscola stella marina arrivando agli esemplari di squali. Il tempo avrebbe potuto fermarsi.

Amavo vederla giocare a palle di neve, sollevarla fra le braccia mentre rideva nella piega del mio collo.

Quando impugnò la mazza ci soffia sopra e si avvicinò al tavolo, lanciandomi uno sguardo di sfida, e scoppiai a ridere.
Con un tiro preciso, ne mandò due in buca. Quel prezioso e grande sentimento che coltivavamo cresceva ogni giorno e scoprivamo lati di noi invisibili. Ogni volta potevo dire di toccare il cielo con un dito.

«Colpisci!» dissi appoggiando la mano sulla sua per perfezionare la direzione del lancio, facendola poi scivolare sul braccio. «Vuoi colpire ancora?»

«Uhm, uhm.»

Le diedi un bacio sulla guancia, accerchiandole la vita con il braccio e con l'altra stringerle il petto.

«Non si annoiano a stare qui dentro?» domandò osservando i pesci nuotare nella vasca.

«Dimenticheranno entro tre secondi dove si trovano.»

«Davvero.»

Ormai la nostra preoccupazione era stare insieme, abbracciarci o baciarci in ogni angolo... non potendo più contenere la passione, che aveva stravolto i nostri cuori.

Il fuoco nel camino diffondeva calore per il cottege, mentre ondeggiavamo con le mani allacciate e i petti uniti.

«Cos'è quella roulotte lì fuori?» ruppe il silenzio lei.

«C'ho vissuto dentro per anni. Ora è rotta. Mi ci trasferirò di nuovo, quando la farò riparare.» Mugugnò qualcosa e poggiò la testa sulla mia spalla, mentre le sue dita scorrevano sulla schiena.
«Cosa stai facendo? Soffro il solletico.»

«Shhh... Sto scrivendo qualcosa.»

«Stai scrivendo qualcosa.» Mormorai. «Cosa stai scrivendo?» Chiesi fissando le sue pietre azzurre.

«Non te lo dirò mai.» Ridacchiò mentre mi portavo teatralmente la mano sul petto con una smorfia, e mi abbracciò. Si allontanò, raggiungendo il mio tavolo e agguantò la statuetta. «Cos'é questo?» Le andai dietro e glielo strappai dalle mani, nascondendolo dietro la schiena. «Lucas, dai, cos'è! Ridammelo.» Cercò di afferrarlo, ma ero più veloce e alla fine lo lanciai sul pavimento. «Lucas, cos'è stato?» Le preso le mani e l'attirai sul mio petto.

«Niente.»

Si staccò offesa e girò le spalle, osservando una fotografia, appesa alla parete.

«Chi è questo? Tuo nonno?».

«Il mio mentore.» risposi appoggiato con i glutei al tavolo. «Ho imparato tutto, grazie a lui.»

«Non hai altre foto?»

«No.»

«Nemmeno della tua infanzia?»

«No. Sono nato così, senza ricordi.» Mi staccai, con le mani affondate nelle tasche, avvicinandomi.

«Sciocchezze, la gente non nasce senza ricordi.» replicò sfiorandomi il petto, mentre accostavo la fronte alla sua.

«Invece si.»

La presi per i fianchi e lei rise, allacciando le braccia attorno al mio collo e mi guardò negli occhi.

«Da dove vieni?» Feci spallucce e lei sbuffò, mentre le schioccavo un bacio sulla fronte. «Tu sai ogni cosa di me.»

«E adoro... che tu sia irlandese. Mi piace tanto la vostra cucina. Conosci l'Irish Stew?»

Si mordicchiò l'unghia.

«E' l'unico piatto che non conosco, ma conosco tutto il resto. E inoltre so cantare le canzoni tradizionali molto bene.»

«Tu? Canzoni... tradizionali?» Lei si tappò la bocca mentre premevo il bottone di una vecchia radio. «Canta.»

«Sono molto timida, non posso.»

«Dai, andiamo, l'hai detto tu stessa. Dai, canta.» La incalzai, arcuando un sopracciglio.

«No. Inoltre, non posso cantare a comando... Deve venirmi dal cuore.» rispose attorcigliandosi una ciocca attorno al dito strappandomi una risata. Poi mi puntò il dito addosso. «Okay... ma non ridere, d'accordo?»

«Lo prometto, non riderò.»

Si avvicinò al tavolo e s'infilò il cappello, mentre non riuscivo a capire cosa le frullasse per la testa.

«Io e il mio amico stiamo pescando.» iniziò portando le mani sul petto.
«C'é una canzone che canto quando vendiamo il pesce per il nostro pane e il burro. Non è niente per le signore e i signori come te.»

Mi portai le mani sulla faccia e gettai la testa all'indietro, per le troppe risate.
«Canta, canta!» la incitai battendo le mani e aggiustò il cappello.

«Se lo vuoi così tanto, canterò questa canzone per te. Quindi non sono io quello da biasimare.» Riflette su e accennò un pezzo, muovendo anche il bacino.

Quando finì mi corse incontro saltandomi nelle braccia e le feci fare una giravolta, fino a che non ricademmo sul divano.

La sua risata cristallina contagiò anche me, mentre le sue mani affondavano nei miei ricci, giocandoci.

Si piegò e mi baciò il collo.

«Cos'é questo profumo?» chiese rialzandosi e guardarmi profondamente negli occhi. «Cosa ti sei messo?»

«Perché?»

«Non lo so. Mi ricorda la mia infanzia. Non riesco a descriverlo, ma è qualcosa di pacifico.»

«Il barbiere me ne ha dato un po'. Ti ricorderà me, d'ora in poi.»

Mi accarezzò la fronte per poi scendere verso le guance, poi riprese a cantare.

«Tu sei il mio amore... quello che ho amato. Ci siamo promessi alla morte. Tu sei mio. È stato scritto per noi. Questo destino migliore.» Sorrisi a pochi centimetri dalle sue labbra e mi toccò le guance con il pollice. «Abbiamo fatto una promessa che non possiamo mantenere. Non potevamo tenere.» Le accarezzai la spalla e presi una ciocca bionda, facendola scivolare fra le dita. «Vorrei che non dimenticassi mai... Che sarai il mio amore fino alla morte.»

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Ecco a voi la nuova Mini storia drammatica con protagonisti i nostri amati interpreti. I capitoli saranno sempre quattro e molto emozionati.
Racconteranno una grande storia d'amore. Spero che vi piaccia e non vedo l'ora di conoscere le vostre indispensabili opinioni.

Non dimenticate di leggere i prossimi aggiornamenti di "My Sweet Home" che letteralmente significa "La mia dolce casa" e fa parte del genere drammatico.

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