Amybeth e Geraldine: "Una parte del mio Cuore" 4: The secret revealed
Una storia speciale dedicata al grande amore di una madre per la propria figlia, che toccherà realmente le corde del vostro cuore...
Auguri mamma!
Amybeth McNulty Geraldine James
"EPISODIO 4"
𝙐𝙉𝘼 𝙋𝘼𝙍𝙏𝙀 𝘿𝙀𝙇 𝙈𝙄𝙊 𝘾𝙐𝙊𝙍𝙀 💔
"Quel che divide in realtà unisce".
"𝘏𝘰 𝘭𝘢𝘴𝘤𝘪𝘢𝘵𝘰 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘴𝘶 𝘲𝘶𝘦𝘭 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘪𝘦𝘳𝘰 𝘦 𝘪𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘨𝘭𝘪 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘷𝘢𝘤𝘶𝘪. 𝘐𝘭 𝘮𝘪𝘰 𝘤𝘶𝘰𝘳𝘦, 𝘪𝘯 𝘮𝘪𝘭𝘭𝘦 𝘱𝘦𝘻𝘻𝘪. 𝘔𝘪𝘢 𝘮𝘢𝘥𝘳𝘦 𝘴𝘪 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘰𝘯𝘴𝘢𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘯𝘦𝘪 𝘮𝘪𝘦𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘧𝘳𝘰𝘯𝘵𝘪, 𝘷𝘰𝘳𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘪𝘭 𝘮𝘪𝘰 𝘴𝘤𝘶𝘥𝘰, 𝘭'𝘩𝘰 𝘤𝘢𝘱𝘪𝘵𝘰 𝘲𝘶𝘢𝘯𝘥𝘰 è 𝘮𝘰𝘳𝘵𝘰 𝘱𝘢𝘱à. 𝘈𝘯𝘤𝘰𝘳𝘢 𝘶𝘯𝘢 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘢 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘧𝘶𝘨𝘨𝘪𝘵𝘢 𝘥𝘢 𝘭𝘦𝘪, 𝘥𝘢𝘭𝘭𝘦 𝘮𝘪𝘦 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘰𝘯𝘴𝘢𝘣𝘪𝘭𝘪𝘵à. 𝘔𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘷𝘢 𝘥𝘶𝘳𝘢𝘳𝘦 𝘢 𝘭𝘶𝘯𝘨𝘰...
𝘚𝘵𝘢𝘷𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘥𝘪𝘷𝘦𝘯𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘮𝘢𝘥𝘳𝘦 𝘦 𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘭 𝘱𝘶𝘯𝘵𝘰 𝘢𝘷𝘳𝘦𝘪 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘳𝘦𝘴𝘰 cosa significasse.
𝘘𝘶𝘦𝘭𝘭'𝘪𝘯𝘤𝘰𝘯𝘵𝘳𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘮𝘦𝘴𝘪 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘪 𝘢𝘷𝘦𝘷𝘰 𝘢𝘴𝘱𝘦𝘵𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘴𝘶𝘱𝘦𝘳ò 𝘭𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘱𝘶𝘦𝘳𝘪𝘭𝘦 𝘪𝘮𝘮𝘢𝘨𝘪𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦.
𝘌𝘳𝘢 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘥𝘪 𝘱𝘦𝘳𝘧𝘦𝘵𝘵𝘰, 𝘮𝘢 𝘥𝘪 𝘧𝘳𝘢𝘨𝘪𝘭𝘦."
«Fai piano, tesoro.»
Percorsi quel tratto con il cuore in gola pronto ad esplodere e passo claudicante, a causa dell'operazione che avevo subìto qualche ora prima. Eppure l'emozione di quel momento aveva cancellato ogni dolore fisico.
«Lui dov'è?»
Le due donne mi fecero spazio.
«Guarda. È bellissimo. Perfetto...» Sussurrò mio marito avvolgendomi le mani attorno alle braccia mentre il mio sguardo si posava su quell'esserino di pochi chili, chiuso in una scatola di vetro illuminata.
«N-non è troppo piccolo?» Domandai perversa dalla preoccupazione.
«Niente affatto. Ero così anche tu quando sei nata.» rispose mia madre. «Vedrai che crescerà e diventerà forte.»
«Quando potrò prenderlo? Ho tanta voglia di abbracciarlo.»
«Ricordi cos'ha detto il dottore, tesoro?» Intervenne Lucas baciandomi la spalla. «Prima devi recuperare le forze e dopo potremo prenderlo in braccio. Giusto, Geraldine?»
«Certo che lo faremo.» Mi sfiorò la mano e gettò un'occhiata al vetro. «È il mio primo nipotino.»
«Su, tesoro. Sei stanca e hai bisogno di riposare. L'ha detto anche il dottore.» Mi esortò il riccio, prendendomi dolcemente per le spalle.
«Non riesco a smettere di guardarlo. È... perfetto.» Sibilai con le lacrime agli occhi.
«Vedi? Un figlio è la cosa più importante per una madre, indipendentemente da tutto. Per lui saresti in grado di scalare una montagna a mani nude e soltanto per vederlo felice. Ho sempre cercato di non farti mancare il mio affetto e di passare con te ogni momento libero.»
Strinsi le sue mani e tirai su con il naso. Mi accarezzò una guancia.
«Hai ragione.»
«Oh, tesoro... Ora riposati, perché dopo non avrai molto tempo per farlo. E ti prometto che presto l'avrai fra le braccia.»
Lucas mi diede un altro bacio affettuoso e mormorò: «Andiamo.»
Mi bloccai dal camminare e le strinsi le mani. «Non andrai via, vero mamma?»
Mi fece cenno di no con la testa e le sorrisi, prima di venire trascinata verso la stanza. Passò qualche ora e stremata caddi in un sonno profondo e tranquillo, mentre mia madre si occupò di decorare la camera con palloncini e fiori per celebrare la nuova nascita.
Appena aprii gli occhi però una mano oscura mi agguantò il collo. Me lo stritolò, i miei polmoni si svuotarono lasciandomi agonizzante, e tutti quei volti che accerchiavano il mio capezzale sbiadirono di colpo.
Solo una frase echeggiò nella mia testa, distruggendola totalmente pari a una bomba atomica. I miei progetti rosei ora apparivano crudeli, perché non sarebbe tornato indietro.
Quell'essere debilitato e solo, intrappolato dai tubicini se n'era andato in un battito di ciglia.
Arrancai a malapena dei respiri e mi portai la mano sulla fronte che grondava, mentre speravo si trattasse di un incubo.
Quando cercai di tirarmi su, ricaddi sul lettino e tra le braccia di qualcuno.
Ero sorda a quei richiami spaventati, quelle voci che invece di consolarmi mi lasciavano lividi per tutto il corpo.
Il dolore era sul punto di uccidermi, forse in realtà ero già morta.
Urlai così forte, mentre muovevo convulsamente le gambe sotto le lenzuola con gli occhi sbarrati e rivolti al soffitto. Mi strappai dai capelli un nastro colorato e piansi amaramente. Mi aggrappai al suo braccio strattonandolo con forza, mentre mi coprivo la bocca con il lavaggio ancora attaccato.
***
Il mio corpo veniva trascinato su una sedia a rotelle attraverso i corridoi dell'ospedale.
Dopo tre giorni dal ricovero, avrei potuto lasciare l'ospedale e i cocci rotti della mia anima.
Si frenò all'improvviso e si chinò vicino al mio orecchio. «Torno subito cara, va bene?» Poi lo sentii rivolgersi a mia madre, ma il mio spirito era assopito tanto da somigliare a una bambola inanimata. «Geraldine, vado un attimo a firmare le ultime carte. Può controllarla per favore?» Si allontanò, ma continuai a fissare un punto nel vuoto, gonfiando la cassa toracica.
Niente aveva più senso. Niente era importante.
Mi sentivo uno scheletro privo di pelle e di cuore, perché mi era stata sottratta.
Era andato via, mi aveva lasciata qui, viva per metà, senza carezze.
«Amybeth.» Mi pettinò i capelli con cura, poi vi poggiò la bocca. «Bambina mia.» Mi accarezzò la mandibola cercando di farsi guardare, ma non lo feci nonostante le suppliche. «Non essere triste, amore di mamma. Siete entrambi giovani e potrete avere altri figli.» Tentò di trattenersi. «Guardami, ti prego. Il Signore ci ha privato di quel prezioso angioletto e lo dobbiamo accettare, ma ti ha fatto sopravvivere.» Non smise di accarezzarmi. «Sono con te, amore di mamma. Non essere triste. Passerà, lo supererai.»
Prese un fazzoletto e mi asciugò le lacrime che mi stavano rigando le guance. Era come se mi avesse assestato una pugnalata dritto nel petto.
Mi risvegliai di colpo, scostandomi con rabbia e tuonai. «Basta! Finiscila! Né ho abbastanza!» Lei indietreggiò spaventata raccogliendo le mani al petto. «Non puoi proteggermi da tutto! Non ho potuto.» Farfugliai e mi fissai le mani tremanti. «Non mi hanno permesso di tenerlo fra le braccia prima che fosse... Non sono stata una buona madre. Non lo sarò...»
«Non è vero.» Tentò di dire.
Mi girai di scatto. «Chiudi la bocca! Non me l'avete permesso! Vi detesto! Sparite dalla mia vita! Una volta... volevo tenerlo... una sola...»
«Amybeth, calmati, tesoro.» Sussurrò Lucas di ritorno, avvolgendomi il corpo con le braccia.
«Lui è morto! Lui non c'è più...!? Volevo solo una volta.»
Mi sentii trascinare via e nel delirio totale la mia mente fu ricoperta dal ghiaccio perenne.
𝘘𝘶𝘦𝘭 𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘰 𝘴𝘱𝘦𝘻𝘻ò 𝘱𝘦𝘳 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘭 𝘭𝘦𝘨𝘢𝘮𝘦 𝘷𝘪𝘴𝘤𝘦𝘭𝘢𝘳𝘦. 𝘕𝘰𝘯 𝘩𝘰 𝘱𝘪ù 𝘳𝘪𝘷𝘪𝘴𝘵𝘰 𝘮𝘪𝘢 𝘮𝘢𝘥𝘳𝘦 𝘦 𝘵𝘳𝘢𝘴𝘤𝘰𝘳𝘳𝘦𝘷𝘰 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘦 𝘭𝘦 𝘯𝘰𝘵𝘵𝘪 𝘴𝘦𝘥𝘶𝘵𝘢 𝘴𝘶𝘭 𝘥𝘪𝘷𝘢𝘯𝘰 𝘢 𝘧𝘪𝘴𝘴𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘭 𝘷𝘶𝘰𝘵𝘰.
𝘘𝘶𝘦𝘭 𝘥𝘰𝘭𝘰𝘳𝘦 𝘮𝘪 𝘳𝘦𝘯𝘥𝘦𝘷𝘢 𝘧𝘰𝘭𝘭𝘦, 𝘴𝘤𝘰𝘯𝘤𝘭𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘢𝘵𝘢. 𝘗𝘦𝘳𝘴𝘪𝘯𝘰 𝘭𝘦 𝘤𝘰𝘴𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘢𝘷𝘦𝘷𝘰 𝘥𝘪 𝘧𝘳𝘰𝘯𝘵𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘳𝘪𝘶𝘴𝘤𝘪𝘷𝘰 più 𝘢 𝘷𝘦𝘥𝘦𝘳𝘭𝘦.
𝘌 𝘱𝘦𝘳 𝘮𝘦𝘴𝘪 𝘭'𝘰𝘳𝘨𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰 𝘮'𝘪𝘮𝘱𝘦𝘥í 𝘥𝘪 𝘤𝘩𝘪𝘢𝘮𝘢𝘳𝘭𝘢 𝘦 𝘧𝘢𝘳𝘦 𝘧𝘪𝘯𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘯𝘶𝘭𝘭𝘢.
𝘔𝘢 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘦𝘳𝘢 𝘢𝘯𝘥𝘢𝘵𝘰 𝘪𝘯 𝘧𝘳𝘢𝘯𝘵𝘶𝘮𝘪 𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘴𝘪 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘷𝘢 𝘢𝘨𝘨𝘪𝘶𝘴𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘤𝘰𝘯 𝘯𝘶𝘭𝘭𝘢. 𝘌𝘳𝘰 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘱𝘪ù 𝘥𝘪𝘴𝘵𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘦 𝘱𝘪ù 𝘷𝘪𝘤𝘪𝘯𝘰 𝘢 𝘶𝘯 𝘵𝘶𝘯𝘯𝘦𝘭.
𝘾𝙞 𝙫𝙪𝙤𝙡𝙚 𝙩𝙚𝙢𝙥𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙖𝙘𝙘𝙚𝙩𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚. 𝘿𝙚𝙫𝙞 𝙥𝙚𝙣𝙚𝙩𝙧𝙖𝙧𝙡𝙤 𝙥𝙚𝙧 𝙘𝙪𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙡𝙚 𝙛𝙚𝙧𝙞𝙩𝙚 𝙚 𝙧𝙚𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙞 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙡𝙖 𝙩𝙪𝙖 𝙫𝙞𝙩𝙖 𝙣𝙤𝙣 è 𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙖, 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞.
𝘾𝙝𝙚 𝙝𝙖𝙞 𝙖𝙣𝙘𝙤𝙧𝙖 𝙪𝙣𝙖 "𝙘𝙝𝙖𝙣𝙘𝙚", 𝙥𝙚𝙧 𝙧𝙞𝙥𝙧𝙚𝙣𝙙𝙚𝙧𝙚 𝙙𝙖 𝙙𝙤𝙫𝙚 𝙖𝙫𝙚𝙫𝙞 𝙡𝙖𝙨𝙘𝙞𝙖𝙩𝙤.
Spalancai quel portone cigolante e mi rividi da bambina, quella creatura innocente che cucinava per finta le patate in quella pentola invisibile.
Mi tornò tutto in mente mentre camminavo, tenendo saldamente nella mano l'unica valigia.
Il paese e le sue strade non erano cambiate dall'ultima volta.
Poi la vidi scendere le scale aggrappandosi al muro ormai fiacca, con la testa avvolta da un fazzoletto rosa e un secchio vuoto che rovesciò sul terreno. Era lei, con qualche anno in più sulle spalle, ma era davanti a me e le gambe mi tremarono...
«Mamma...» S'immobilizzò mentre stava per entrare, probabilmente credeva di aver immaginato tutto, ma ero lì in carne ed ossa. Quando girò il volto, diedi libero sfogo alle lacrime e tutto il risentimento scivolò via. Mi guardò sorpresa e sgranò gli occhi.
«Sono davvero qui. Sono tornata.» Si portò una mano alla bocca e corse ad abbracciarmi. «Sono qui.» L'accolsi spalancando le braccia e stringendola forte, così tanto che temetti di spezzarla. Ma lei fortificò l'abbraccio e le baciai la testa.
«Tesoro. Mia amata Amybeth.»
«Stai bene?» Sussurrai e mi fece un cenno con la testa.
«Sto meglio.» Riprese a piangere, nascondendo il viso sul mio petto. «Adesso che sei qui molto meglio, Amybeth.» Avvolsi le mani sulla sua schiena e la baciai sul capo. Poi si staccò leggermente e mi toccò le guance con i pollici. «Vita mia... Dove sei stata per tutto questo tempo? Sono morta ogni giorno sapendoti lontana.» Le venne un attacco di tosse mentre raccoglievo la valigia. «La porto io, piccola.»
«No, mamma, ce la faccio. Non è pesante.»
«Lascia stare.» Me la tolse dalle mani e mi prese a braccetto. «Fa' freddo, andiamo dentro.» La guardai e l'abbracciai forte. «Sei venuta.» Esalò e feci scorrere la mano sulla sua schiena, tirando su con il naso. Poi slegò il nostro contatto. «Sei venuta. Hai mantenuto la promessa.»
Risi mentre mi conduceva verso l'interno senza lasciarmi la mano.
𝙀𝙧𝙤 𝙖 𝙘𝙖𝙨𝙖, 𝙩𝙧𝙖 𝙡𝙚 𝙨𝙪𝙚 𝙗𝙧𝙖𝙘𝙘𝙞𝙖, 𝙖𝙡 𝙨𝙞𝙘𝙪𝙧𝙤.
***
Entrai nella mia vecchia camera e la trovai affaccendata a sistemare il letto nei minimi dettagli.
«Ho finito. È tutto pronto.» Dichiarò.
Abbassai la testa, facendo scivolare le dita sul legno della tastiera.
«Non dovevi. Non dormirò qui.»
Mi fissò perplessa. «Cosa dici, Amybeth? Sei appena tornata. Tu resterai qui per stanotte e non discutere.»
Scossi la testa. «No, voglio dormire insieme a te.» Sorrisi. «In camera da letto, come quando ero piccola.»
Rise. «Oh, beh, il letto di là è grande. Staremo comode.» Mi oltrepassò per uscire. Restai immobile accanto alla porta, immersa nei miei pensieri, prima di raggiungerla. «Amybeth?" Mi fermò prendendomi la mano e osservandomi di sottecchi. «Voglio chiederti una cosa. Hai litigato con tuo marito?»
«No, mamma. Non è così.»
«No? E tua suocera ha detto qualcosa del fatto che sei venuta qua?»
«No, mamma. Nessuno si è lamentato.» Portai le mani ai lati del suo viso. «Mi stai spezzando il cuore adesso, sento che non mi vuoi qui!» Lei sorrise e scosse la testa. «Forse... ho sentito che ti mancavo.»
«Forse?» Aggiunse le sue mani, stringendole nelle mie. «Non dire, forse! Tutti i figli mancano alle loro madri, quando sono lontani.»
«Va bene.» Tagliai corto. «Ora preparo la tavola e mi occuperò di cucinare. Tu non fare niente, okay?» Le ordinai con tono fermo.
«Come vuoi.»
«E domani scenderemo in paese.»
Le sfiorai dolcemente il mento, prima di darle le spalle e allontanarmi verso la cucina.
***
«Mamma?»
«Dimmi, piccola.»
Mi girai su un fianco nel letto, sostenendomi la testa con una mano.
«Cosa ha fatto papà ai capelli quella volta?»
Lei ridacchiò. «Cosa ti sei ricordata adesso?» Si portò le mani sulle labbra e si sistemò sul fianco guardandomi. «È che... Erano neri come il carbone. Si era preso la briga di tingerli. Se l'avessi visto. Sembrava una melanzana arrostita.»
Scoppiò a ridere e la seguii a ruota, abbozzando un sorriso. Guardai il suo volto rilassato sul cuscino e un pensiero mi balzò in testa.
«Mamma, perché papà non ci voleva bene ed era sempre così scorbutico?»
Lei tornò seria di colpo e mi toccò il viso. «Certo che te ne voleva e molto. Chi non ti amerebbe? Ti amava. L'ha fatto a modo suo. Il giorno in cui sei nata era così eccitato e felice, il giorno in cui i nostri desideri si sono realizzati. Ha offerto a tutto il paese dei dolci, lo sapevi? Mi avevano detto che non potevo avere figli e che una pietra avrebbe partorito prima di me. Soffriva per questo, ma lo teneva per sé. E quando ci hanno dimesso: lui disse "ci ha fatto aspettare a lungo, come se non volesse venire al mondo. Chiamiamola "Amybeth", perché è stato il sole ad accoglierla come i girasoli in estate".»
Accennai un sorriso. «Peccato che non l'abbia dimostrato. Non importa.» Mormorai girandomi di schiena e mettendo le braccia sotto la testa.
«Ad ogni modo... è la storia di un uomo di nome Robert.» Guardai il soffitto pensierosa e lei si sporse. «Amybeth?»
«Uhm...»
«Perché sei venuta senza tuo marito? Perché Lucas non è venuto? Avete discusso?»
Roteai gli occhi. «Lucas e io non dobbiamo stare sempre insieme. Abbiamo i nostri spazi.»
«E invece dovreste, perché siete sposati, tesoro. Dovreste godere di questi piccoli momenti insieme.» Mi rimbeccò.
E sorrisi caldamente.
«Sono stanca. Voglio dormire.»
«Non provare a cambiare discorso.»
«Non l'ho fatto.» La guardai negli occhi innocentemente.
«Va bene. Hai freddo?» Mi toccò la mano posata sullo stomaco e la strofinò energicamente. «Hai le mani fredde.»
Poi spense la lampada e la stanza fu immersa completamente dall'oscurità.
Stava per addormentarsi, le spostai il braccio e mi rannicchiai vicino al suo petto, alla ricerca di quel calore umano che per troppo tempo mi era mancato e mi lasciò un lieve bacio sulla testa.
***
«Buongiorno.» Salutai varcando la soglia di un piccolo negozietto di stoffe, mentre la titolare stava seduta su uno sgabello.
«Grazie. Cosa...?»
La mora si bloccò subito dipingendo un'espressione meravigliata sul viso. Avanzai di un passo e sorrisi.
«AB!?» Si tuffò nelle mie braccia felice e poi mi osservò attentamente. «Come stai? Quando sei arrivata? Dio, è passato così tanto tempo!»
«Ieri.»
«Davvero?» Chiese accarezzandomi la spalla. «Non era possibile che tu non tornassi più qui! Devi essere molto contenta ora.» ingoiai un fiotto di saliva mentre afferrava la mia mano indicandomi lo sgabello. «Siediti, raccontami un po'. Cosa ti offro? Caffè o tè? Cosa si beve più a Chicago?»
«Dali, non voglio nulla. Che ne dici di fare un giro, in onore dei vecchi tempi? Voglio respirare un po' d'aria fresca.»
«Bene. Allora ti va di andare al solito posto?» Propose raggiante.
«Certo.»
«Okay.»
***
«Beth! Vieni qui, non ti allontanare.» Gridò alla piccola che stava correndo verso di noi, prima di prenderle la manina. «Mi manchi così tanto, AB. Senza di te, il paese non è più lo stesso.» Le sorrisi gentile, infilando le mani nelle tasche mentre l'aria salmastra mi levigava le guance e muoveva dolcemente i miei capelli. «Pensavo di venirti a trovare a Chicago. Ma ogni volta succedeva sempre qualcosa. E ho pensato comunque che saresti ritornata.» Piegai la testa affondando gli stivali nella sabbia mentre camminavo sul bagnasciuga. «E guarda, adesso sei qui. Ma sei venuta da sola? E tuo marito?»
Sospirai. «Non iniziare a parlare come mamma, Dali.»
«Certo che lo farò. Non sono la tua migliore amica? Sei mia sorella e un problema tuo è anche mio.» Mi apostrofò con sdegno. Il cellulare squillò e appena vidi il mittente sullo schermo, respinsi la chiamata, seccata. «AB?»
Mi voltai, spostando i capelli dietro le orecchie. «Dimmi.»
«Sei felice, vero?»
«Perché mi fai questa domanda?» Le sfiorai appena il braccio e mi allontanai verso la spiaggia. «Certo che sono felice.» Mi sedetti su una roccia poco distante e lei mi seguí a ruota. «E tu sei felice?» Domandai, a mia volta.
«Non lo so. Penso di sì." Rispose tirando fuori un pacco di sigarette. «Ricordi quando ti ho detto al liceo che volevo sposare un uomo bello?» Fissai la sabbia, giungendo le mani, mentre lei sbuffava del fumo dalla bocca. «L'ho sposato... e poi ho partorito Beth.» Spostai lo sguardo su quell'adorabile bambina dai capelli scuri che lanciava i sassi nel mare e un ricordo mi punzecchiò il cuore. «Ho saputo del...» Cercò di dire, scuotendomi dai pensieri e mi toccò una gamba. «Mi dispiace per il tuo bambino. Ehi, non lasciarti sopraffare dalla disperazione. Ricordi la signora Susan? Ha avuto un bambino dopo tre aborti. Non essere triste. Succederà anche a te, vedrai.»
«Vedremo. Sarà quello che vorrà il destino.» Continuai a fissare la bambina, immaginando il mio, poi ruppi il silenzio. «Dali?»
«Sì?»
«Ti sei mai pentita di essere rimasta qui?»
«No, perché avrei dovuto? C'è differenza tra un posto e l'altro, AB?» Mi fissò negli occhi e stetti in silenzio. «L'importante è stare con le persone che ami, non si ha bisogno di altro... E sono rimasta qui per lo stesso motivo per cui tu sei andata via.»
Ci pensai su, mormorando.
«È vero... Me ne sono andata.»
«Beth! Vieni qui! Basta giocare! L'acqua è fredda.» Rialzai gli occhi e fissai l'orizzonte. «Dai, piccola, obbedisci. Non vorrai prendere il raffreddore!»
«Dali.» La richiamai, spostando lo sguardo sulla mora e tirando su con il naso. «Prenditi cura di mia madre.»
«Eh? Non capisco.» La fissai stringendo le spalle. «Siamo una famiglia, Amybeth. Geraldine è importante per me, lo è più di mia madre.»
Le sorrisi e le tolsi la sigaretta di mano.
«Già. E voglio che tu ci sia sempre e comunque.» Appoggiai la mano sulla spalla. «Grazie, non lo dimenticherò.» Poi feci un tiro, sputando del fumo.
«AB... devi dirmi la verità. Cosa c'è? Che ti preoccupa?»
«No, calmati. Non c'è niente. Te lo giuro.» mi osservò piuttosto riluttante. «Ora andiamo che qui si gela.»
Abbassò la testa. «Mi hai fatto spaventare.» Tirai su con il naso e rivolsi gli occhi in basso, sulla sabbia. «Dai, andiamo. Beth! Andiamo! Su!» Richiamò la bambina, che le corse incontro e ci alzammo dalla roccia, che per anni ci aveva ospitato e visto crescere.
𝘈 𝘮𝘰𝘮’𝘴 𝘩𝘶𝘨 𝘭𝘢𝘴𝘵𝘴 𝘭𝘰𝘯𝘨 𝘢𝘧𝘵𝘦𝘳 𝘴𝘩𝘦 𝘭𝘦𝘵𝘴 𝘨𝘰.
(anonimo)
Il volto di mia madre era così luminoso, non ricordavo mai di averla vista sorridere da quando mio padre se n'era andato.
Mi diceva ch'ero il suo gioiello prezioso, l'unico motivo per cui il suo cuore continuava a battere.
Il paese sembrava una gemma, quelle strade erano colorate mentre ci divertivamo a guardare le vetrine. Da quando era diventata una madre, il suo pensiero appena aperti gli occhi era stata sua figlia e la sua felicità. Mai spese eccessive pur di mettere da parte qualche soldo o un momento per sé, e nonostante un marito zotico e spocchioso non era mai venuta meno ai doveri di brava moglie.
La costrinsi ad entrare nel negozio e ad acquistare un paio di cappotti l'inverno era alle porte e le sue ossa senza né avrebbero risentito.
Si stupí, ma li provò lo stesso. Quello rosso le calzava a pennello e s'intonava al suo incarnato. Era così splendida.
Passammo a scattare delle foto, così che non sentisse troppo la mia nostalgia, e infine la invitai a mangiare in un ristorante vedendola storcere il naso, di fronte al menù.
«Amybeth?» Mi richiamò dissipando il velo di tristezza che mi aveva rabbuiato di colpo. «Non c'era nulla a casa da mangiare, vero? Ecco perché mi hai portato in questo posto.» Si guardò intorno spaesata e abbozzai un sorriso. «Da quando sono rimasta sola sono pigra a cucinare, ma per la mia bellissima figlia avrei fatto qualsiasi manicaretto.» Poi si sporse leggermente e bisbigliò. «Non sono necessarie queste spese.»
«Cara mamma, mi hai allevato con tanto amore e hai voluto darmi un'educazione migliore della tua. Non pensi di meritare questo premio?»
«Dovrei, dici?» si chiese con una punta di divertimento nella voce.
«Certo.»
«Bene, allora provo questo dolce. Sembra squisito.» disse abbassando la testa nel piatto e ne tagliò una fetta. Io non l'avevo neppure toccato il coltello, ma al solo pensiero mi si contorceva lo stomaco. «Dovresti mangiare.»
Il cellulare squillò, sapevo chi fosse dall'altra parte. L'afferrai con muto sdegno, diedi una veloce occhiata e rifiutai di starlo a sentire: le sue inutili parole mi avrebbero solo scavato l'anima.
L'appoggiai nuovamente, girandone lo schermo e unii le mani sul tavolo discostando il piatto. Mia madre non mi aveva persa d'occhio, cercava di capire, ma senza interrogarmi, come suo solito. Non so quanto ancora avrei potuto fingere.
***
«Mamma... Mamma.» Tentai di asciugare quelle lacrime ottuse che, senza permesso, stavano scorrendo sulle guance. Sentii il tonfo dei suoi passi dalla cucina e mi raggiunse nella cameretta, affacciandosi dalla soglia.
«Cosa succede, piccola?»
Le mie dita continuavano a pettinare dolcemente i capelli della bambola, e lei si avvicinò preoccupata.
«Mamma... non ha senso tenerla ancora. Non c'è nessun bambino che può giocarci.»
«Tesoro.» Una ventata di sollievo l'attraversò in quel momento e prese posto sul letto. «Tesoro caro.» ripeté posando la mano sulla mia spalla, prima di specchiarsi nelle mie iridi azzurre. «Mia dolce bambina, spiegami una cosa. Da quando sei venuta qui, mi hai confortato tutto il tempo ma non riesci a consolare te stessa.» Piegai la testa e tirai su con il naso, singhiozzando. «Ci sono molti pensieri nella tua mente, pensi che non l'abbia capito? Una madre sa sempre quando la propria bambina ha qualcosa che non va.» A quel punto, scoppiai a piangere e mi passò la mano fra i capelli, raccolti in una treccia disordinata. «Amybeth... Buon Dio, non stare così male. Non è colpa tua.» Mi prese il viso, chiudendolo a coppa nelle sue mani fredde. «Non preoccuparti, figlia mia, sei così giovane. Avrai altri figli.»
«Avrò dei bambini, vero?» Le chiesi come se volessi avere delle certezze. «Avrò tanti bambini... e correranno nel cortile.» Lei increspò un sorriso e alzò gli occhi al cielo, provando ad immaginarseli. «Giocheranno con gli animali e tu li rincorrerai per farli mangiare... con il tuo aereoplano.»
«Certo, ma lo farai tu al mio posto. La loro nonna non potrà tenere sempre il cucchiaio in mano e dire.» Gesticolò con il braccio. «L'aereo sta arrivando! Aprite la bocca!» Risi, ma senza smettere un attimo di piangere.
Era bello cullarsi in quella dolce fantasia, ma quando l'avevo sfiorato, quel sogno si era trasformato in qualcosa di orribile, si era tramutato in cenere ed era volato via.
«Vuoi un bicchiere di latte, amore? Ti tirerà su di morale.» Le feci un cenno d'assenso e mi accarezzò la guancia. Poi prese la bambolina e la sistemò con cura sul comodino. «Questa non va da nessuna parte. L'avrà il mio nipotino l'anno prossimo.»
Il mio viso si fece più cupo, la spirale di dolore tornò a stringermi le viscere. Aprii l'unico cassetto e tirai fuori il mio diario. Ce l'avevo da quando avevo imparato a scrivere, c'erano delle intime confessioni... scrivevo le mie giornate o quello che mi passava per la testa. Poi col mio trasferimento a Chicago, il resto delle pagine erano rimaste bianche. Le sfogliai, trovando un fermaglio a forma di farfalla, e poi in quelle successive alla mia partenza, c'era una calligrafia diversa.
Mia madre voleva sentirmi più vicina in quel periodo e solo attraverso questo, aveva superato le sue paure.
"Oggi mia figlia è partita per Chicago" scrisse. "Realizzerà il suo sogno: diventerà una brava insegnante. Mi manca. Mi manca tanto." Le ultime lettere erano sbavate, aveva piagnucolato.
In un'altra trovai una confessione, e anche la spiegazione ai miei dubbi, di quel giorno.
"Oggi sono andata dalla signora Eliza. Ho sempre tenuto la testa ben alzata, senza vergognarmi delle mie origini... Ma per il bene di mia figlia, l'ho chinata. Voglio vederla felice. Se deve essere orfana, lo sarà."
Mi coprii la bocca con la mano. La colpa mi bruciava dentro. Tutta quella gentilezza era solo una facciata, la signora Eliza mi aveva accettato per le suppliche di mia madre. Per l'ennesima volta, si era sacrificata per il suo stesso sangue.
Mi sentivo una figlia ipocrita.
«Mamma...» Avevo le labbra secche e gli occhi asciutti ormai. Avevo perso tutto quel tempo a detestarla, l'avevo esclusa dalla mia felicità in cambio di uno sporco ricatto.
Ma quello scritto nell'ultimissima pagina mi lacerò.
"Mia figlia ha perso il suo bambino oggi. Dio misericordioso, se sei caritatevole, non permettere che soffra ancora. Concedile la gioia che merita. Non ce l'ho fatta a vederla in quelle condizioni. Perdonami. Sono stata una cattiva madre. Le ho voltato le spalle e non ho combattuto con lei quei demoni."
Chiusi il diario e lo abbandonai sul letto, senza arginare il dolore che mi portavo dentro. Per tutti quei mesi, avevo lasciato scorrere il tempo.
Ero rimasta sola, intrappolata nel mio atteggiamento egocentrico. Avevo sbattuto in faccia la porta a chi voleva tendermi la mano per aiutarmi ad attraversare quel momento e tuttora per puro egoismo rifiutavo un dialogo con lui.
Ma avevo il diritto di escluderlo dai miei progetti, così come di proteggerli entrambi. Quel tornado non doveva spazzare via la loro stabilità.
Intanto mia madre era scesa di sotto, lasciando il bollitore sul fuoco.
Entrai in cucina e notai che la tavola non era stata ancora apparecchiata.
Non avevo voglia di riempirmi lo stomaco, ma non potevo tirarmi indietro altrimenti ne avrebbe fatto un dramma. Chissà cos'era andata a fare al piano di sotto....
Geraldine.
«Amybeth... Il cellulare...»
Il cellulare di mia figlia prese a squillare per la terza volta in una giornata e appena guardai il nome sullo schermo mi accigliai e gettai un'occhiata nel corridoio.
Amybeth era giù di morale e si era rintanata in camera sua. Il suo comportamento mi dava qualche pensiero, soprattutto perché rifiutava le chiamate di suo marito.
Sapevo che quelli erano problemi di coppia, ma ero comunque sua madre e la curiosità mi uccideva.
Portai con me il cellulare e risposi, scendendo piano gli scalini.
«Pronto, Amybeth?»
«Lucas... Figliolo, sono tua suocera.»
«Geraldine... tu...» balbettò.
«Ragazzo mio, scusa se ti ho risposto solo ora. Amybeth sta dormendo e ho risposto perché non volevo svegliarla.» Poggiai la mano contro il pilastro e alzai gli occhi al soffitto.
«Sta bene?» chiese lui sempre più nervoso.
«Sai... Sta passando quello che stai passando tu. Mangia poco, non beve molto, sembra spegnersi sempre di più. Le ho detto "andrà bene.". Siete molto giovani, avrete un'altra opportunità. Potrete riprovarci presto. Prenditi tutto il tempo e non preoccuparti.» solo silenzio. «Lucas?» guardai lo schermo per capire se fosse caduta la linea. «Che succede? Pronto? Lucas?».
«Geraldine...» Alla fine rispose con una voce stridula.
«Lucas?» di nuovo, un silenzio assordante. «Pronto?»
«Amybeth...» Camuffò dei singhiozzi. «Amybeth... Sta morendo, Geraldine.»
«Lucas!» lo chiamai arpionandomi al pilastro.
Stavolta scoppiò a piangere rivelando.
«Sta morendo!»
Prese un'altra pausa snervante e mi sfuggì dalla bocca un: «Eh?»
«E' al quarto stadio» spiegò con voce strozzata. «Cancro al pancreas...» Attaccai le mani all'oggetto. «Geraldine... Non dirle che lo sai. Per favore... Non voleva dirlo a nessuno. Non voleva rattristarti.» tirò su con il naso. «Sono... impotente. Voleva solo dirti addio». Non udii più nulla, il terreno franò sotto i miei piedi e dovetti abbracciare il pilastro per non accasciarmi al suolo.
Tutto intorno cominciò a girare come una trottola impazzita. Il respiro mi si mozzò in gola e frenai un urlo agghiacciante mordendomi il dorso della mano.
«Geraldine... io non voglio perderla!» singhiozzò il giovane dal cellulare.
Mi scivolò di mano giacendo ai miei piedi e iniziai a risalire le scale, arrancando con il mio passo claudicante, la schiena ricurva e il cuore che avrebbe potuto fermarsi da un momento all'altro perché sentivo formicolii dappertutto.
Ricacciai indietro le lacrime e sfoggiai un debolissimo sorriso.
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