Ferita
Il vento mi scompiglia i capelli, le onde si infrangono dolcemente sulla riva ed io dovrei essere in grado di rilassarmi un minimo. Invece no. Riesco solo a pensare ad una cosa: Nate Hawkins non conosce lo spazio personale altrui. Lo ignora totalmente. È seduto alla mia destra, così vicino che riesco a sentire il calore del suo corpo attraverso la sottile stoffa del mio vestito. Non c'è modo di ignorarlo. La sua presenza è come una forza gravitazionale che mi attrae.
Respiro profondamente, cercando di ignorare il fatto che l'odore del suo dopobarba mi sta facendo girare la testa. Ma è inutile. Ogni volta che mi muovo, mi sembra di invadere il suo spazio, e mi sento maledettamente agitata.
Per non parlare del suo ginocchio che mi sfiora ogni volta che si muove, o il leggero tocco del suo braccio contro il mio.
Cerco di concentrarmi sul mio panino, ma è totalmente inutile. La mia mente è focalizzata su quel maledetto ginocchio.
«Smetti di pensarci».
Oddio. Ha sentito le voci nel mio cervello? Avvampo: «A cosa?»
«Al ristorante», dice. «Può capitare a tutti di commettere un errore», finisce quest'ultima frase con un ghigno diabolico e un sorrisetto trattenuto male. Sta rigirando il dito nella piaga. Non ci credo.
«Tu sei... Sei...», non trovo un insulto soddisfacente.
I suoi occhi verdi brillano di divertimento: «Sono?»
«Sei proprio...»
«Sto aspettando», mi provoca.
«Va' al diavolo. Non ho commesso nessun errore, per la cronaca. Loro hanno avuto un guasto nel sistema»
«Certamente», addenta il panino e annuisce, quasi come se stesse dando ragione a una bambina di cinque anni.
Il suo volto è così vicino al mio che posso dargli una testata. Riesco a vedere ogni dettaglio del suo sguardo, l'ombra di una barba che non ha avuto il tempo di rasare, una piccola cicatrice vicino al sopracciglio sinistro.
«Non è colpa mia se il sistema è andato in tilt»
«Devi proprio avere tutto sotto controllo?»
«Non è questione di controllo, Nate», ribatto. «È questione di professionalità»
«Prima di incontrarti pensavo che i matrimoni fossero fatti per essere celebrati, non per essere pianificati al millimetro»
«Prima di incontrarti pensavo che i testimoni fossero un prezioso contributo, non una spina nel fianco pronti a criticare ogni singolo dettaglio», rispondo con un sorriso forzato.
«Io non critico, Olivia. Osservo»
«Osservi», borbotto. «E cosa vedi, Nate?».
Ingoia il boccone e impiega qualche attimo per rispondere: «Una persona a cui non farebbe male un po' di caos»
«Caos?», mi sfugge una risata nervosa. «Io non ho bisogno di caos. Ho bisogno di un piano»
«E lo segui sempre?»
«Sempre», rispondo senza esitazione.
«E se il piano non funzionasse?»
«Funzionerà»
«E se non lo facesse?», insiste, avvicinandosi leggermente. Ancora una volta il suo ginocchio sfiora il mio.
Mi irrigidisco, ma non mi allontano. «Allora ne farei un altro», sussurro, sentendo il cuore battere più forte.
Lui non dice nulla. Cerca di prendere un sorso di birra con la mano fasciata, ma è chiaro che sta avendo difficoltà. Lo guardo per un momento, poi, prima di poterci pensare troppo, allungo una mano.
«Ti aiuto», mormoro, sorprendendo persino me stessa.
Cerco di tenere la bottiglia ferma mentre lui si china leggermente verso di me per bere. Il mio cuore batte forte mentre noto quanto sia vicino, troppo vicino. Il suo respiro caldo sfiora la mia pelle, e per un istante, mi sembra di dimenticare dove siamo. È un gesto più intimo di quanto potessi immaginare.
«Grazie», dice infine, la sua voce un po' più bassa del solito. «Potevi limitarti a tenermi il panino, ma questo è stato più divertente».
Oh.
La mia faccia s'infiamma di imbarazzo e lui gode della mia vergogna.
«Sei un idiota», sbotto. «Non ti aiuterò mai più. Nemmeno se il boccone ti andasse di traverso».
Sta per dire qualcosa, ma una goccia d'acqua gli cade sul naso. Alziamo in contemporanea lo sguardo verso il cielo che si sta ricoprendo di nuvoloni scuri.
«Non ci credo», sussurro.
«Inizio a pensare che tu abbia una qualche specie di maledizione. Hai fatto arrabbiare qualche divinità della pioggia ultimamente?»
«Non sei divertente», dico, cercando di mantenere un tono serio. Cerco di salvare il cibo e le nostre cose dalla pioggia e le gocce si fanno sempre più fitte, trasformandosi in un vero e proprio acquazzone.
«Andiamo», Nate si toglie la giacca e me la mette sopra la testa, proteggendomi dal diluvio. Sento il calore della sua giacca sulla mia pelle e, per un attimo, il freddo della pioggia sembra meno intenso. Cerchiamo di correre verso un balcone per ripararci, ma il terreno è scivoloso e, prima che me ne renda conto, i miei piedi abbandonano il suolo.
«Attenta!», Nate afferra il mio braccio, ma non riesce a trattenermi e finisco per cadere con un tonfo a terra.
Lui ride, una risata bassa e sincera, e mi sento ancora più imbarazzata. «Non è divertente!» esclamo, cercando di rialzarmi.
«In realtà, lo è parecchio», dice, ancora ridendo, mentre si china per aiutarmi a rimettermi in piedi.
«Sei insopportabile», sibilo, mentre mi sollevo con il suo aiuto.
«Grazie»
«Non c'è di che», borbotto. Torniamo a correre insieme sotto la pioggia battente, riparandoci finalmente sotto un balcone. Siamo entrambi fradici e ansimanti e ci fissiamo in silenzio per istanti interminabili.
«Avrei voluto finire il mio panino», incrocio le braccia al petto e interrompo il contatto visivo. «E adesso siamo bloccati qui. Questa serata può andare peggio di così?».
Un lampo illumina il cielo, seguito da un tuono così forte che fa tremare il pavimento sotto i nostri piedi. Istintivamente, mi avvicino a lui, cercando protezione. E poi mi rendo conto di quanto siamo vicini, quasi appiccicati. Il suo respiro è caldo contro la mia guancia, e il suo sguardo si è fatto improvvisamente serio.
Il silenzio che segue è carico di tensione, un filo sottile che sembra sul punto di spezzarsi. E poi succede qualcosa che non mi aspetto: Nate allunga una mano e mi sfiora il viso, spostandomi una ciocca di capelli bagnati dietro l'orecchio.
Grazie al cielo il suono di un cellulare che squilla interrompe questo momento imbarazzante. Nate fruga nelle tasche della giacca bagnata e risponde con un serio e gelido: «Pronto?».
La sua espressione assume una moltitudine di emozioni diverse: sorpresa, confusione, ancora confusione, poi divertimento.
Mi porge il cellulare: è il mio.
«È per te», dice.
Lo fulmino con lo sguardo e continuo ad ucciderlo nella mia mente mentre pronuncio un: «Sì?»
«Olivia».
È Paul.
Oddio, è Paul.
Mi ricompongo, anche se so che non può vedermi. Nate solleva un sopracciglio e lo colpisco con un pugno sul fianco.
«Paul, ciao!»
«Ti disturbo?»
«Oh, no. Affatto. Dimmi pure».
Nate continua a fissarmi. Lo odio. È invadente.
«Ti chiamo per il matrimonio degli Stevens. Non mi hai ancora fatto avere la lista delle allergie e delle intolleranze»
«Impossibile. Ti ho mandato un'e-mail più di una settimana fa»
«Io non ho... Oh, accidenti. È vero. Scusami, non l'avevo proprio notata. Grazie. Buona serata»
«Paul, aspetta», strillo e Nate solleva l'angolo delle labbra, troppo divertito dal mio palese imbarazzo.
«Sì?»
«Vorrei fissare un appuntamento per una degustazione al tuo ristorante»
«Puoi venire quando vuoi, Olivia. C'è sempre spazio per te».
Quest'ultima affermazione mi fa venire un brutto nodo alla gola che ricaccio indietro. Devo passare oltre.
«Va bene, allora. Ti farò sapere. Buona serata»
«Buona serata a te».
Rimango per un attimo immobile, con il cellulare ancora stretto in mano e lo sguardo fisso sul vuoto.
«Quel Paul?», Nate interrompe i miei pensieri con il suo tono beffardo. «Davvero?».
Sollevo lo sguardo e lo trovo che mi osserva con quel mezzo sorriso che mi fa venire voglia di colpirlo di nuovo, stavolta più forte.
«Non farti strane idee», replico, cercando di suonare indifferente, ma so che il rossore sulle guance mi tradisce.
«Nessuna strana idea», la sua voce è zuccherosamente innocente, ma le iridi brillano di malizia.
«Non sono affari tuoi», sibilo.
«Perché ti agiti tanto?»
«Non sono agitata»
«Per niente», mi prende in giro.
«È solo uno chef con cui lavoro»
«E per quanti anni siete stati insieme, Liv?»
«Punto primo, non chiamarmi Liv. Punto secondo, ho già detto che non sono affari tuoi»
«Ferita ancora aperta, dunque»
«Ti apro una ferita sulla fronte se non la smetti», stringo un pugno e deglutisco mentre lo vedo sorridere. Vorrei aggiungere qualcosa di tagliente, qualcosa che lo zittisca per sempre, ma il mio cervello è troppo impegnato a cercare di ignorare quanto siano vicini i suoi occhi verdi ai miei.
La pioggia inizia a diminuire, ma io non me ne accorgo nemmeno. È Nate che mi riporta alla realtà. «Sembra che possiamo andare. Ti accompagno alla macchina»
«Non ce n'è bisogno», ribatto istintivamente.
«Non era un'offerta», dice. «Era un'affermazione. Andiamo». Scruto le sue spalle larghe che iniziano ad allontanarsi e mi ritrovo a boccheggiare. La sua sicurezza mi destabilizza. Capisco che insistere non cambierebbe nulla.
Nate fa come vuole. Punto.
Attraversiamo il centro città, le strade ancora luccicanti di pioggia, quando la mia attenzione viene catturata dalle vetrate di una piccola cioccolateria artigianale. Le luci all'interno sono calde e invitanti, e l'aroma di cioccolato fuso sembra uscire direttamente dalle porte. Mi fermo per un istante, lo sguardo incollato alle tavolette esposte come se fossero opere d'arte.
«Vuoi del cioccolato?», la voce di Nate è bassa, quasi gentile. Quasi. Lui non sa essere gentile.
«No»
«Sicura?»
«Sicurissima».
Non mi crede.
«Io sì», dice poi. Si dirige verso la porta e la spinge con decisione. Lo seguo con lo sguardo dalla vetrata e lo vedo ordinare qualcosa al bancone. Quando ritorna ha in mano una scatola di tartufi di cioccolato, me la porge come se fosse la cosa più naturale del mondo. Li ha presi per me.
«Non dovevi», mormoro, sentendomi un po' in imbarazzo.
Lui sorride e apre la scatola, prendendo uno dei tartufi: «Lo so». Lo osservo mentre lo morde con soddisfazione, e poi ne prendo uno anch'io, giusto per non sembrare troppo ingrata. Il cioccolato si scioglie in bocca, ricco e cremoso, e per un momento, dimentico tutto il resto. L'aria tra di noi si è fatta stranamente leggera, come se la pioggia avesse lavato via un po' della tensione.
Arriviamo finalmente alla mia macchina e mi giro verso di lui.
«Vuoi un passaggio?», chiedo. È chiaro che non può guidare con una sola mano.
«No, grazie», risponde subito, scuotendo la testa. «Ci tengo alla mia vita»
«Io guido benissimo», mi difendo.
«Abbiamo concezioni diverse di benissimo», conclude con un mezzo sorriso.
Prima che possa rispondere, aggiunge: «Scrivimi quando e se arrivi a casa. Giusto per sicurezza»
«Non ci penso proprio», rispondo con un sorrisetto ribelle.
Lui si stringe nelle spalle: «L'angoscia mi torturerà per tutta la notte, allora», si prende gioco di me mentre mi tiene la portiera aperta ed io entro in macchina. «Buonanotte, Liv».
Accendo il motore e lo fulmino con lo sguardo: «Non chiamarmi Liv».
E mentre me ne vado sento ancora il suo sorriso dietro di me.
🌼🌼🌼
RAGA.
Io ve lo dico: cominciate a prepararvi per delle montagne russe ricche di alti e bassi.
Molto ricche.
Moooolto ricche.
Cominciamo ad entrare nel vivo della storia ed io non vedo l'ora di farvi conoscere meglio Nate e Olivia 🤯😍
Io li amo (forse perché so cosa vi aspetta).
Ma spero li amiate anche voi.
Fatemi sapere se questo capitolo vi è piaciuto e vi ringrazio sempre per il supporto che mi date.
Un bacio
Sara
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