Parte 5 ~ Eros



Sul lenzuolo di seta giaceva immobile il braccio candido di una fanciulla. Eros ne scrutò il volto e le forme piene, lasciate scoperte dopo l'amplesso. Con una mano scostò le ciocche di capelli bruni che nascondevano le fattezze di lei. Eros ne osservò il volto ovale, le guance rosee, la pelle un poco abbronzata dal sole. Le ciglia nascondevano occhi altrettanto scuri che solo poche ore prima si erano infiammati per lui come braci ardenti. I colori di lei erano diversi dai suoi, dai capelli dorati come le messi abbondanti, dalla sua pelle chiara, di porcellana, dai suoi occhi verde smeraldo.

Il suo nome era Fedra. Il cuore di Eros non palpitava mentre lo ricordava né aveva palpitato quando l'aveva vista il quarto giorno del mese di marzo, giorno sacro a lui e a sua madre, durante i festeggiamenti che ad Atene venivano loro tributati. Eros non si era neanche dovuto impegnare per conquistarla, né aveva dovuto usare una delle sue frecce, che in realtà aveva da tempo abbandonato e con cui da bambino aveva combinato tanti danni.

Era il dio dell'amore, destinato a suscitare il sentimento negli altri, ma il suo cuore non batteva né per gli dei né per gli umani. Era forse vittima di qualche maleficio? Qualche vendetta che gli umani avevano ordito contro di lui per vendicarsi dei torti degli dei? No, nessuno si sarebbe spinto a tanto, si disse. Con una mano accarezzò il viso della giovane e cancellò così i ricordi della scorsa notte dalla sua mente. A che le sarebbe servito ricordare? Eros non voleva rivederla mai più e, d'altro lato, le relazioni tra uomini e dei erano impossibili. Schioccò le sue dita e vide entrare un paio di servitori.

«Riportatela a casa», ordinò. I due eseguirono. La giovane avrebbe pensato, risvegliandosi nel suo letto, che era stato tutto un sogno.

Rimasto solo, Eros si alzò. L'aria fredda di marzo colpì la sua pelle, i muscoli di un corpo atletico. Afferrò la vestaglia di velluto rosso lasciata sul letto a baldacchino e la indossò. Le sue dita scelsero un paio di acini da un grappolo d'uva maturo, posato in una ciotola d'argento su un tavolo poco lontano. Ne assaporò il succo dolce e pensò che forse nessuno degli dei poteva godere pienamente ciò che governava. Lui, nato dalla forza di Ares e dalla bellezza di Afrodite, aveva nei suoi muscoli metà della forza di lui e nel suo cuore metà dell'amore di lei.

La parete del suo castello di cristallo lasciava vedere in tutto il suo splendore il giardino ammantato di rose rosse, e poi più in là i tetti della città di Atene, i templi che ancora resistevano alle ingiurie degli uomini e del tempo. Eros strinse i pugni, un moto di rabbia gli fece tremare le labbra: gli dei erano sempre in lotta tra loro e non capivano che questo danneggiava tutti.

Un colpo secco sulla porta lo riscosse.

«Chi è?», domandò, riprendendo il controllo di se stesso.

«Il vostro servo», una voce gli rispose.

Eros pensò che gli umani odiavano gli dei anche per quello: usare le persone come servitori nel terzo millennio. «Cosa c'è?» Eros ripose un acino nella ciotola.

Il servo si avvicinò con voce ossequiosa e gli porse un biglietto. Eros vi riconobbe le iniziali dorate di sua madre. Con un gesto rapido lo afferrò e congedò l'uomo. Lo aprì. Se sua madre lo chiamava era per sistemare qualche questione irrisolta, far dispetto agli uomini e agli altri dei, o far cadere un umano ai suoi piedi. Era stata Afrodite a fissare la regola per cui dei e umani non potevano stare insieme, si era guadagnata allora le ire delle altre divinità, i pianti delle fanciulle innamorate di Ares, ma lei stessa infrangeva la regola con la superbia che solo una figlia di Zeus poteva avere.

Sperò che non fossero beghe; voleva solo fare un giro nei boschi del paese, proprio come qualche sera prima, quando si era allontanato da Atene ed era arrivato a Olimpia. Nel bosco aveva intravisto la figura di un giovane nel lago, ma il calar della sera gli aveva impedito di scorgerne i lineamenti e tutto ciò che aveva visto erano state le sue spalle arrotondate che si immergevano voluttuose nell'acqua fredda. Ne aveva sentito la paura quando il giovane aveva incrociato i suoi occhi smeraldo tra gli arbusti e allora aveva capito che doveva trattarsi di un umano. Scacciò via quel pensiero e lesse avidamente le parole vergate da sua madre. Sospirò, come temeva non avrebbe avuto una mattinata tranquilla.

Indossò un leggero maglione bianco e un paio di jeans. Gli dei potevano girare indisturbati tra gli uomini e loro non si accorgevano quasi mai di chi camminasse al loro fianco. Se solo avessero saputo... Per le strade di Atene scricchiolavano sotto i suoi piedi i resti della festa del giorno prima: le coccarde, i cartocci di cibo, i festoni. Gli dei cercavano di mantenere intatte le tradizioni millenarie offrendo giochi, corse di carri, gare tra atleti, ma neanche loro potevano fermare il tempo che scorreva inesorabile. L'aria frizzante di un mattino in cui il sole si affacciava nel cielo risvegliarono del tutto le membra intorpidite dai fumi dell'alcol e del sesso della notte precedente. Colpa di Bacco, se si lasciava sempre andare più del dovuto. E della durezza del suo cuore in cerca di nuove emozioni, segretamente affamato d'amore. Respinse l'ultimo pensiero in un posto lontano della sua mente, dove non gli avrebbe dato più fastidio. Era un dio. L'amore lo lasciava agli umani.

Il castello di Afrodite si ergeva poco fuori città, su una collina. Era maestoso e ben più grande del suo. I versanti della collina erano interamente ricoperti di fiori, e nessuno era messo lì a caso: ogni fiore rappresentava un diverso livello di amore: l'amore amicale, rappresentato dal glicine; l'amore egoista e possessivo, rappresentato dal ciclamino; l'amore superficiale rappresentato dal narciso; l'amore passionale, incarnato dalla rosa rossa.

I giardini del castello di Eros erano simili, ma non arrivavano alla maestosità di quelli di sua madre, la dea dell'amore e della bellezza. La bellezza di Afrodite, ad esempio, era preceduta dall'effluvio di un giardino immenso dove trionfavano le calle e le orchidee. Il solo giardino bastava a far girare la testa a chiunque avesse un minimo di sensibilità e gusto.

Eros salì in fretta le scale che portavano al salone principale dove sua madre era solita attenderlo. Adone, l'ennesimo umano di cui la donna si era invaghita, era sdraiato su un divano di legno intagliato mentre un pittore era intento a ritrarre le sue grazie. Afrodite guardava la scena compiaciuta. Il suo sorriso si allargò quando vide entrare suo figlio. Lui, invece, represse un sospiro di esasperazione. Quale altro intrigo sua madre stava tessendo? Il viso dall'aria innocente, dall'eterna bellezza, incorniciato da una cascata di capelli d'oro, nascondeva una mente acuta, e fin troppo incline alla vendetta e alla superbia.

Alle sue spalle era appesa la riproduzione di un quadro italiano quattrocentesco. Si intitolava La nascita di Venere. Sua madre gli aveva sempre detto che l'artista era l'unico ad aver davvero colto la sua essenza.

«Continuate dopo», Afrodite disse, rivolta al pittore e al suo amante. I due le obbedirono e lasciarono in fretta la stanza, mentre nell'aria aleggiava ancora l'odore acre dei colori ad olio.

«Allora?», Eros domandò impaziente. Vide la bocca a forma di cuore di lei piegarsi in un broncio.

«C'è un umano che osa sfidarmi», gli rispose.

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