Parte 32 ~ La ribellione di Eros

Ritira le tue forze dalla zona di confine di Olimpia, diceva il biglietto vergato da Afrodite. Eros lo strappò, gettandone i resti sul pavimento, sotto lo sguardo costernato del servo. L'anziano uomo che lo conosceva da anni non osava proferire parola.

Ritirare le sue forze, darla vinta a Kakia. No, non poteva, non dopo aver visto Psiche, aver toccato con mano quanto male quel semidio che si spacciava per una potenza divina gli avesse fatto. Perché Zeus aveva concesso a quell'essere tanto potere? Solo per convenienza, per avere in cambio chissà quale favore nella lotta infinita tra divinità. Psiche aveva sempre avuto ragione su di loro: gli dei erano superbi ed egoisti, non dissimili dagli umani che tentavano di manipolare e governare.

Il servo dopo un respiro profondo si decise a parlare: «Cosa devo farne dei doni di vostra madre?»

Nel salone del castello erano disposti oggetti preziosi, manufatti e vasellame, tappeti e tele. Un omaggio con cui Afrodite cercava di ammorbidire le sue resistenze, blandirlo, usando il suo raffinato senso della bellezza, per poi convincerlo a desistere dai suoi propositi. Ma era troppo tardi.

«Fa' portare via tutto», ordinò al servo, che dopo avergli rivolto uno sguardo perplesso si allontanò per dare disposizioni agli altri.

Eros si rifugiò nella stanza dell'ala occidentale, quella che tante volte aveva visto consumarsi l'amore tra lui e Psiche. Le tende erano ancora squarciate, la lampada ancora a terra. Da quella notte erano passati tre mesi. Da allora il dio non aveva avuto la voglia e il coraggio di toccare nessuno, né dio né umano.

Alle feste in suo onore, ogni mese, aveva preferito abbandonarsi sulle sedie di vecchie osterie, coperto dal suo mantello, mentre portava alle labbra liquori dal sapore disgustoso, e pensava alla sua ferita, al fatto che le regole dell'Olimpo erano state crudeli e lui vi si era sottomesso per l'eternità. Aveva visto crimini e prepotenze, e mai, convinto della sua superiorità, aveva fatto qualcosa di concreto per intervenire. I consessi divini, dove tentava di portare gli dei a più miti consigli, non erano sufficienti.

La stanza si fece buia, ma la luna sorse presto a rischiararla. Eros aveva preso la sua decisione per cambiare le cose, ma prima voleva vedere per l'ultima volta Psiche.

Le luci che avvolgevano il castello di Afrodite la notte gli avevano sempre conferito un'aurea magica, come mille lucciole dalla vita eterna la cui missione era quella di compiacere la dea. Durante i primi lunghi anni della sua vita, quando Eros era ancora un bambino paffuto con due piccole ali bianche che spuntavano dalle scapole e la faretra di dardi sulla spalla con cui combinava solo guai, ne era stato affascinato.

Rimpiangeva quel tempo in cui i suoi dardi creavano situazioni imbarazzanti, senza che però fossero guidati da secondi fini e interessi politici. Attraversò il grande giardino godendo della brezza che sapeva di rose e di erba. Quanto piaceva respirare anche a Psiche l'aria della notte. Affrettò il passo e giunse all'aria più estrema del palazzo. La stanza di Psiche si affacciava su un piccolo porticato dal pavimento lastricato e colonne avvolte da edera L'ultima volta che c'era stato non ricordava i vasi di terracotta che ricolmi di fiori ornavano la piccola balaustra. Psiche era seduto su un sedile in pietra e contemplava la volta celeste. Il rumore dei passi di Eros lo fece voltare, ma non si alzò.

Nell'aria lunare, Eros scorse nei suoi occhi un tremito. Gli si avvicinò, ma non osò prendergli la mano. «So che mi odi, ma dovevo vederti un'ultima volta».

«Odiarti...», ripeté Psiche sottovoce.

«Perché non ti sei fidato di me? Delle mie parole? Non ti rendevo abbastanza felice?», disse Eros, e pronunciare quelle parole gli provocò quasi un male fisico. Non mi amavi?, voleva domandargli in realtà, ma non ne ebbe il coraggio.

Psiche incrociò i suoi occhi. «E tu perché non sei venuto a prendermi subito?»

«Mi avevi ferito, e poi...»

Psiche sorrise amaro. «Le regole, vero? Le maledette regole dell'Olimpo. Avrei dovuto fidarmi, ma tu non mi hai trattato come un tuo pari, e so che è una pretesa assurda per te, ma per me no», una smorfia di dolore increspò la sua bocca, «e adesso cosa vuoi che mi importi del tuo orgoglio ferito?» Si accarezzò il ventre.

Eros aveva fatto di tutto per proteggerlo, per impedire che Psiche portasse in grembo un figlio loro e adesso il giovane era costretto a portare quello di Kakia. Si inginocchiò e gli prese le mani. «Perdonami. Il Tartaro sarebbe stata una tortura minore, ma allora non lo capivo, allora credevo che noi dei potessimo disporre della vita degli uomini. Sono sempre stato educato così, ma quando ti ho perduto ho capito che in me nulla era rimasto del dio dell'amore. Niente di divino può esserci in chi non riesce a proteggere chi ama».

Un lampo d'orrore passò negli occhi chiari di Psiche. «Non parlare così, alzati. Vuoi che tua madre mi faccia pagare anche per questo tuo gesto di umiliazione?»

Psiche si appoggiò a una colonna con il fiato corto. Il dio che amava era ai suoi piedi, ma il suo cuore era troppo ferito per esultarne, per darsi un'altra possibilità e ricominciare a lottare.

Eros si alzò, e gli cinse la vita. Per un attimo parve a entrambi di trovarsi in un altro castello di delizie, nel loro nido d'amore, in una notte di luna piena, trascorsa a scambiarsi dolci parole, nella quiete della natura.

Eros portò una mano sul ventre del giovane. «Se accettassi il mio amore, mi prenderei cura del tuo bambino, diventerebbe il nostro e io l'amerei come se l'avessimo concepito insieme», Eros sussurrò.

Gli occhi di Psiche si riempirono di lacrime, non trovò la forza di rispondergli. Rimproverava tanto agli dei il loro orgoglio, ma adesso si stava comportando, forse, come loro. Non riusciva ad accettare che Eros lo avesse trattato come un umano e non come un dio, che non gli avesse rivelato dello stratagemma grazie al quale lo aveva strappato dalle mani di Kakia, che non lo avesse avvertito del rischio che correva. Lasciò che il dio lo stringesse, ma la sua lingua rimase immobile.

«Sono venuto stanotte per dirti che mi ribello all'Olimpo».

Psiche si voltò di scatto, ma ai suoi occhi spalancati Eros rispose posando un indice sulle sue labbra. «Niente rimedierà alle ingiustizie del passato o al tuo dolore, ma io scaccerò Kakia dall'Olimpo, scaccerò Kakia dalle terre che controlla e libererò i suoi prigionieri».

«No», Psiche lo implorò. Si sforzò di assumere un tono glaciale, uno sguardo duro. «Se lo fai per me, non farlo. Non ti amo, Eros, mai tornerò tra le tue braccia. Questa storia mi ha insegnato che uomini e dei appartengono a due mondi diversi, che non si sarebbero mai dovuti incontrare».

Eros posò le labbra sulla sua fronte. Psiche sentì un senso di calore invadere il suo corpo per quel gesto di tenerezza, chiuse gli occhi, ma quando li riaprì Eros gli era volato via tra le dita, proprio come quella notte di tre mesi prima.

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