Capitolo 9

Una decina di giorni dopo sono di nuovo davanti a casa Vanni, con parecchia agitazione in corpo. Organizzare il trasloco è stato più complesso di quanto mi fossi immaginata, soprattutto trasportare i bagagli necessari per vivere un anno in una città dall'altra parte del mare. Per fortuna, anche se contraria all'idea fino all'ultimo, mia madre con la sua efficienza si è rivelata una benedizione. È stata lei a convincere mio padre a portarmi in macchina, vincendo la sua reticenza a chiudere il negozio per qualche giorno e a prendere il traghetto e la mia a sorbirmi dieci ore di viaggio con una persona che ha il timore di ogni mezzo di trasporto più complesso di un automobile. Perfino la mia claustrofobia impallidisce davanti al terrore di mio padre per gli spostamenti.

Come mia madre sia riuscita a convincere entrambi è un mistero che solo le madri custodiscono. Va detto che è difficile stabilire chi fosse messo peggio all'arrivo, tra mio padre e me, ma almeno il viaggio è passato, mio padre è ripartito stamattina e ora posso concentrarmi sul dar vita a questa nuova storia.

In nave ho avuto parecchio tempo - e parecchio bisogno, soprattutto quando mio padre attaccava con le sue paranoiche e irrealistiche stime di quanti incidenti capitano ogni giorno in mare - per continuare il brainstorming sul romantasy e ho capito con ancora più certezza quanto voglio che questo romanzo si distingua dal nutrito e discutibile panorama fantasy-romance attuale. Non è solo una questione di evitare vampiri e compagnia, quanto di creare una trama capace di stimolare nelle persone delle riflessioni su temi che mi stanno a cuore. Primo su tutti, l'importanza di realizzare chi vogliamo essere e dove vogliamo portare la nostra vita, anche quando questo contrasta con i desideri della persona con cui stiamo. Molto poco in linea con il romance attuale, ma di questo ne vado fiera.

Ah, e poi ovviamente mi sono concentrata sulle mie adorate driadi, che Diego sembra aver accettato senza protestare troppo. Allo scorso incontro le ha perfino definite "narrativamente stimolanti", cosa che mi ha causato qualche secondo di shock perché non lo facevo certo uno che sa cosa sono le driadi, considerato che non sono ancora arrivate in un romance.

Ho anche provato a buttar giù uno schizzo a matita di una potenziale protagonista, ma purtroppo la dea protettrice delle arti è stata molto selettiva nei miei riguardi e ha deciso di farmi beneficiare di un unico talento. Poco male, in mente ho già ben salda la sua immagine, e questo può bastare.

Suono al campanello pensando a quale sfumatura vorrei che avesse la pelle della mia protagonista, cosa che mi aiuta a scaricare tutta l'ansia accumulata fin qui. Quando Diego apre, non posso non immaginarmi anche il suo volto percorso da linee ramificate di clorofilla. Gli donerebbero, va detto, ma mi sa che con quel viso gli donerebbe quasi qualunque cosa.

«Ciao» dice con un sorriso, ed è la prima volta che mi saluta come una persona normale, il che mi fa sentire improvvisamente di buon umore.

«Ciao a te!» rispondo entusiasta, e lui mi guarda con una certa perplessità. Forse tutta questa felicità è eccessiva. Sposta lo sguardo sui miei vestiti e a questo punto ridacchia. «Vedo che oggi sei stata meno audace.»

«Sono vestita comoda» dico, per difendere la mia tuta in stoffa colorata. A essere oneste l'ho scelta anche per evitare di rischiare un incidente come quello dell'ultima volta, ma non è necessario che lui lo sappia. Né che sappia che ho ricontrollato il meteo tre volte prima di uscire.

«Si vede» ribatte pronto Diego, e si fa da parte per farmi entrare con ancora una risatina tra le labbra. Il buio ci avvolge e mi passa la voglia di ribattere in modo piccato. E, oltretutto, mi impedisce di continuare a osservare quella sua espressione così carina, il che è una fortuna visto che sono qui per lavorare e non per distrarmi.

Diego mi scorta nel salotto, questa volta la porta finestra è aperta ed entra un brezza piacevole, che porta con sé un lieve profumo di gelsomino. Fuori intravedo un piccolo giardino molto curato, pieno di piante in fiore. Chissà se è Diego a prendersene cura, così come a tenere pulito il posto, o se ha una donna delle pulizie che lavora per lui. A parte il bagno, il resto della casa mi è ancora del tutto sconosciuto ma posso già intuire che mi piacerebbe vivere in un posto così idilliaco. Almeno ogni tanto, non credo amerei stare sempre così lontana dalla vita e dal mondo.

Diego prende posto sulla poltrona e mi indica il divano. «Prego, accomodati» dice. Sembra davvero intenzionato a comportarsi da persona civile, ha perfino lasciato sul tavolino dei fogli bianchi e delle penne, due bicchieri e una caraffa piena d'acqua. Sono piacevolmente stupita, devo ammetterlo.

Mi siedo e lascio sul tavolo la busta con i vestiti che mi ha prestato, accompagnando il gesto con un «Grazie per il salvataggio» che gli strappa un'altra risatina divertita. Cerco di ignorarla e tiro fuori dalla borsa il mio taccuino, pronta ad esporre tutte le idee germogliate in queste settimane. Diego mi precede.

«Ho un'idea per la storia» dice, e vedo passare nei suoi occhi una scintilla che riconosco molto bene: anche lui conosce la meraviglia di un'ispirazione improvvisa. Chissà se ha sognato la nostra storia di notte o se l'ispirazione lo ha raggiunto mentre compiva banali azioni quotidiane. Magari mentre si lavava i denti, con il volto ancora impastato dal sonno eppure già particolarmente attraente. «Hai parlato di driadi, e mi è venuto in mente Sannazaro, hai presente?» continua Diego, facendo inconsapevolmente sfumare le mie fantasticherie. «E voi, o Driadi, formosissime donzelle de le alte selve, le quali non una volta ma mille hanno i nostri pastori a prima sera vedute in cerchio danzare all'ombra...»

Resto qualche secondo a bocca aperta. Diego sa citare a memoria Sannazaro? Mi ci vuole uno sforzo tremendo per venire a patti con l'idea che una persona possa al contempo scrivere romance di dubbio gusto e conoscere l'Arcadia. E quando ci arrivo lo stupore muta in profondo disagio verso me stessa: è la seconda volta in poco tempo che Diego mi obbliga a scontrarmi con un mio pregiudizio. Non fossi così colpita, ribatterei subito che le driadi che avevo in mente sono un tantino diverse dalle "donzelle de le alte selve". Invece sto zitta e lo guardo, e Diego prende il mio silenzio per una prova di ignoranza. «È un poeta italiano del Cinquecento» dice con gentilezza. «Non serve che tu lo abbia presente, posso raccontarti in breve la parte che ci interessa.»

«Conosco l'Arcadia» riesco finalmente a dire, e alle mie orecchie suono molto più offesa di quanto dovrei. «Ma non era a quelle driadi che stavo pensando.»

«Ah no?» dice pronto Diego. «Perché, cos'hanno che non vanno? Capelli biondissimi, pelle diafana che fa girare la testa ai pastori. Formosissime donzelle... a me sembrano creature da sogno.»

Faccio una smorfia. «È proprio quello il problema. Dovrebbero essere guerriere, non seduttrici.»

Diego sembra di nuovo sul punto di ridere. «Guerriere? E dove sta scritto?»

«Be', qui» dico, sventolandogli il taccuino davanti al naso.

Diego lo guarda e scuote la testa. «Ah sì? E cos'è quella, la nostra nuova Bibbia?»

«La mia, sì.» Apro il taccuino in cerca degli appunti sulle driadi che ho preso in viaggio. Maledizione, quanto vorrei essere stata capace di buttare giù quello schizzo, ora sarebbe stato un perfetto alleato. Mi fermo alla pagina giusta e glielo porgo. «Ho immaginato la civiltà della nostra protagonista un po' come i Na'vi di Avatar, hai presente?»

È il suo turno di guardarmi con perplessità. Certo, Avatar non ha lo stesso valore letterario dell'Arcadia, però esulto perché ho l'occasione di rilanciargli in faccia la sua boria: «Non serve che tu lo abbia presente, posso raccontarti in breve la parte che ci interessa.»

Lui per fortuna la prende bene, ride e gli occhi sembrano per un attimo ancora più azzurri. Accidenti a me, devo smettere di guardarli con così grande attenzione. Torno a fissare la pagina e Diego fa lo stesso, ma non riesco a fare a meno di sbirciare la sua espressione mentre legge la mia grafia tondeggiante.

«Uhmm...» dice, poi si gratta la barba e volta pagina. Mi sento come se fossi di nuovo alle superiori, in attesa accanto alla cattedra che la professoressa finisca di leggere il mio tema.

«Che ne dici?» dico per spezzare il silenzio, ma lui mi fa cenno di attendere e continua a leggere. E io, vuoi per attenuare l'ansia, vuoi perché ogni occasione è buona per guardare qualcosa di carino, questa volta lo osservo più intensamente. Ha ancora la barba sfatta, ma l'ha un po' accorciata dall'ultima volta e ora si intravede una piccola cicatrice sul mento, forse segno di una rasatura andata male. Alcune ciocche di capelli gli dondolano davanti al viso e lui ogni tanto le scosta distrattamente, un gesto che, insieme al modo in cui si gratta la barba, mi causa una lieve contrazione allo stomaco che preferisco non indagare ulteriormente.

Sono così presa nel mio scrutinio che mi accorgo di essere stata scoperta solo quando i suoi occhi incrociano i miei e le sopracciglia si contraggono leggermente. Resto a bocca aperta per un secondo: Dio quanto sono belli i suoi occhi, ricordano il colore dell'acqua di Chia in pieno agosto.

«Cosa cerchi?» chiede con il sorriso sulle labbra, e io mi scopro ad arrossire perché sento la pelle delle guance tirare. Sono sicura che è perfettamente consapevole dell'effetto che fa, e infatti un secondo dopo ride apertamente. «Stai forse prendendo ispirazione per il bel comandante che sedurrà la protagonista?»

«Che idiozia...» farfuglio. «Hai una ciglia sotto l'occhio sinistro.» Lo dico perché è l'unica cosa che il mio cervello riesce a pensare in questo momento. Non particolarmente brillante, va detto, ma Diego sembra crederci, o finge molto bene.

«Grazie» risponde, passando il dito sulla guancia.

Io ne approfitto per riprendergli il taccuino dalle mani. «Quindi...» dico, schiarendomi la gola e cercando di riacquistare un minimo di dignità. «La storia ti piace?»

«Insomma...»

Tutto lo sfarfallio nel mio stomaco si congela all'istante. Come sarebbe insomma? La sensazione è la stessa di quando alle superiori un mio tema prendeva nove invece del solito dieci: mi sento subito un fallimento. «In che senso insomma?» chiedo, più sconfortata di quanto vorrei.

Diego non sembra farci caso. «Nel senso che alcuni elementi possono starci, altri invece...»

«Cos'hanno gli altri che non vanno?»

Quest'ultima frase mi esce in tono decisamente piccato e questa volta Diego se ne accorge e sospira. Quando parla, lo fa come se stesse parlando con una bambina, e forse un po' è la verità. «Posso rivedere il taccuino?»

Glielo porgo con estrema riluttanza e lo guardo in cagnesco mentre gira le pagine fino a trovare quello che cerca. Mi indica con il dito una frase. «Qui, ad esempio, scrivi che le driadi vivono da millenni in una foresta magica, protette dalla benedizione della loro divinità, e che gli umani le scoprono solo per caso. Lo vedo poco plausibile, che siano sempre state lì e nessuno se ne sia mai accorto prima.»

«Be', è a quello che serve la benedizione» dico, assumendo anche io il tono accondiscendente che si usa con i bambini. Solo che mi esce davvero male e sembro piuttosto in preda a un attacco di capricci.

«E perché a un tratto smette di funzionare?»

«Perché... perché qualcuno ruba l'artefatto che la tiene in vita.»

Quest'ultima cosa non c'è scritta, né l'avevo ancora immaginata. L'ho appena tirata fuori dal cappello per riempire un buco di trama di cui non mi ero affatto resa conto. Guardo comunque Diego con sfida, aspettandomi che applauda alla mia genialità.

«Poco efficace e poco sensato, a parer mio» dice invece. Inconsapevole del nuovo colpo infertomi, gira pagina e mi indica un altro punto. «Qui invece dici che gli umani sono a uno stadio della civiltà comparabile al nostro medioevo. Un po' cliché per un fantasy, non credi? Sarebbe molto più stimolante se fossero, che so, nella nostra epoca.»

Mi vien fuori uno sbuffo di scherno. «Ma così è proprio Avatar

«Il che mi sembra una prova del fatto che la storia non è abbastanza originale» ribatte pronto lui. Ha sul volto un'espressione da so tutto io che improvvisamente trovo odiosa. Come si permette di criticare così il mio lavoro, di definirlo poco originale? Che ne sa lui di fantasy? Tutto quello che ha fatto nella sua vita è stato scrivere pessimi romanzetti d'amore.

«Non mi pare che l'idea dell'Arcadia fosse poi così originale» dico, avanzando dallo stadio di bambina che fa i capricci a quello di adolescente irritante.

Di nuovo, pare che lui non si renda conto dell'irritazione che sto provando. «In realtà, se ci pensi, lo è molto di più» ribatte. «Non mi pare ci abbiano fatto sopra un blockbuster, o sbaglio?»

Ho una voglia feroce di picchiarlo per fargli sparire quell'aria supponente. E ho anche voglia di piangere, reazione che il mio corpo innesca ogni volta che mi trovo davanti a un conflitto che non sono in grado di gestire, e per il quale provo una grande rabbia. È così praticamente da sempre, la mia infanzia e la mia adolescenza sono segnate da terribili pianti dovuti a discussioni con Nino o con i miei. Non sono mai riuscita a venirne a capo, e ora ne pago le conseguenze.

Mi bruciano gli occhi e avrei una gran voglia di andarmene da qui, ma tutta la fatica che ho fatto per arrivare a questo momento mi tiene le membra ben incollate sul divano. La lingua, purtroppo, quella non si ferma, e neanche le prime lacrime che iniziano a pizzicare agli angoli degli occhi.

«Non vedo da quale pulpito pensi di poter stabilire cos'è meglio per un fantasy» dico, con voce troppo tremolante per risultare minacciosa.

«Mi pare di ricordare che questo fosse un romantasy» dice Diego. «E vista la mia maggiore esperienza...»

«Oh, finiscila con questa cosa dell'esperienza!» urlo, scattando in piedi. Ogni briciolo di lucidità è affogato in mezzo alle lacrime, insieme al poco amor proprio che mi permetteva di restare.

Diego mi guarda sinceramente stupito, e se fossi più in me mi renderei conto che sto tirando fuori una scenata per una cosa per la quale tutto sommato non vale davvero la pena di sbraitare. Se fossi in me. «Credi forse di essere l'unico a saper scrivere qui dentro? L'unico ad aver scritto romanzi che vengono letti e amati?!»

«Non ho detto questo...» tenta Diego, ma io non gli lascio il tempo di continuare. «Bene, lascia che ti sveli una cosa: le tue storie sono tutte uguali, un sugo rimescolato con dentro sospiri, tragedie e tanto di quello zucchero da far venire la nausea! Le uniche persone che li leggono sono le povere zitelle che non hanno nessun'altra speranza di sapere cos'è l'amore!»

Afferro la mia borsa e tiro fuori la copia di Legami per sventolargliela in faccia. «Pensi che qualcuno con un minimo di senso letterario apprezzerebbe questo polpettone? Pensi che la storia tra Paul e Audrey sia originale? Se questa è letteratura, allora io sono Jane Austen!» Gli lancio la copia del romanzo sulle ginocchia e marcio a passo spedito verso la porta.

Solo una volta in corridoio mi ricordo del buio, e sono costretta a rallentare e ad avanzare a tentoni fino alla porta per non correre il rischio di sbatterci sopra. Diego non mi segue, dev'essere rimasto bloccato sulla poltrona, scioccato dall'aver appena avuto a che fare con una persona fuori di testa. Trovo la maniglia della porta e la spalanco con rabbia, ho l'istinto di precipitarmi fuori e sbattermela alle spalle ma l'effetto benefico del sole deve iniziare a fare i suoi effetti, perché cammino normalmente e decido perfino di accostare la porta con molta più gentilezza di quanto qualsiasi cosa collegata a Diego Vanni meriterebbe.

***

Resto fuori per un tempo che non sarei in grado di quantificare. Faccio semplicemente avanti e indietro davanti alla porta, prendendo profondi respiri per tranquillizzarmi, cercando di non pensare al fatto che ho appena mandato a monte la più importante esperienza della mia carriera. Anzi, probabilmente ho mandato a monte la mia intera carriera, perché appena si spargerà la voce di quanto sono instabile e infantile nessuno, autore o editore che sia, vorrà più lavorare con me.

Mi accascio sul gradino e gemo per la mia idiozia. So di avere un enorme problema con i giudizi, ne sono perfettamente consapevole. Me lo porto dietro dalle elementari e questo ha senz'altro influenzato il modo pessimo in cui ho vissuto il periodo all'università. Se mi concedo di scavare abbastanza a fondo, posso perfino supporre che abbia a che fare con il perfezionismo di mia madre, con la sensazione di non essere mai abbastanza per i suoi standard. All'inizio, lavorare con la mia editor è stato un inferno, perché qualunque sua correzione mi sembrava un attacco personale, la vivevo come una conferma della mia incapacità di scrivere. Credo si chiami sindrome dell'impostora, questa perenne sensazione che molte di noi si portano dietro di non valere nulla, accompagnata dal timore che presto verremo scoperte per le impostore che siamo.

Nel caso di Diego, credo che buona parte della mia reazione esagerata sia dovuta a una convinzione inconscia che solo lui sappia scrivere, e che i miei tre romanzi fantasy non possano affatto competere con l'esperienza data da nove romance di grande successo.

Prendo il cellulare dalla tasca con l'idea di scrivere a Cristina per cercare conforto, ma so già che la mia agente non mi darà quello che cerco. Lei è stata la prima a dirmi che una buona scrittrice deve essere in grado di gestire le critiche con eleganza, e quello che è appena successo in casa Vanni è stato tutto fuorché elegante.

Sospiro, e per prendere tempo frugo i messaggi arrivati stamattina, anche perché so che a un certo punto dovrò trovare il coraggio per tornare dentro e chiedere scusa a Diego per la mia assurdità. C'è un messaggio di un numero che non conosco, una ragazza dice di aver visto il mio annuncio al Goblin e di aver chiesto il mio contatto a Igor. Lei e l'amica vorrebbero giocare nella mia campagna, e la felicità per questa notizia è smorzata dall'idea che potrei non avercela, una campagna in cui farle giocare. D'altronde, se la mia idea fa tanto schifo come ha suggerito Diego, potrebbe convenirmi darmi all'ippica.

Che poi, forse non è vero che fa così schifo. Ripercorro i contorni della storia che ho immaginato, ne sorvolo i dettagli. È vero, qualche imperfezione c'è, come d'altronde è normale per un lavoro embrionale. Però c'è tanto che si può salvare, molti elementi che piacerebbero non solo a chi mi legge, ma anche a chi è disposto a seguirmi in una campagna di D&D. E forse, dico forse, anche quell'insomma di Diego lasciava spazio alla possibilità di salvare qualcosa.

Improvvisamente, l'esagerazione della mia reazione mi appare in tutta la sua profondità. Forse Diego ha ancora intenzione di lavorare con me, forse è disposto a passare sopra la mia stupidità. O forse no, e in quel caso dovrò cominciare a pensare a un piano B. Rispondo al messaggio confermando alla ragazza la data della prima sessione, prendo un altro profondo respiro e decido di rientrare. Se davvero questa avventura è terminata qui, meglio saperlo subito. Mi alzo e avanzo a testa alta, cercando di incanalare una sicurezza che non possiedo.

La porta è ancora socchiusa come l'ho lasciata, ma nel salotto non c'è nessuno. La porta finestra è però spalancata, e sento venire dal giardino un basso borbottio. Il mio compagno di scrittura rientra poco dopo e quando mi vede si blocca sulla porta. «Sei tornata» dice, stupito.

«Così sembra.» Nell'aria aleggia un odore acre di carne frollata e capisco che viene dalla bustina che Diego tiene in mano. Ci guardiamo in imbarazzo, vorrei romperlo chiedendogli subito scusa ma è molto più difficile di quanto pensassi.

«Scusami» dice Diego, e a questo giro sono io a rimanere basita. Il suo sguardo vaga intorno a me, senza fermarsi sul mio viso. «Ho esagerato, non volevo dire che la tua idea non fosse buona. Solo, che si poteva migliorare.» Fa per passarsi la mano sulla barba, un gesto che, capisco, gli viene istintivo quando è in difficoltà. Ma poi si ricorda della bustina che tiene in mano e le labbra si piegano in un sorriso appena accennato. «Meglio se butto questa. Se ti va siediti pure, arrivo.»

Mi supera e sparisce in corridoio, io resto in piedi al centro del salotto sentendomi ancora più stupida e infantile di prima. Sarebbe spettato a me chiedere scusa, spiegargli che la mia reazione esagerata dipende solo da me, e non da qualcosa che ha detto e che ha fatto. E invece, ho fatto di nuovo la figura della bambina.

Quando rientra sono ancora in piedi e Diego mi guarda con timore. Lo stesso che filtra tra le sue parole quando dice: «Se non vuoi continuare lo capisco.»

«Pensavo fossi tu a non voler continuare» dico, e guardando la sua espressione addolorata mi rendo conto di quanto possano essere fraintese le mie parole.

«No, assolutamente» dice subito lui. «Se ti ho dato l'impressione di volerti cacciare di nuovo sono desolato.»

«No, non intendevo quello...» Dannazione, quanto è difficile essere chiare in questa situazione. Siamo partiti male, e non è facile recuperare. Per dimostrargli la mia intenzione di restare mi siedo sul divano e lui sembra tranquillizzarsi visibilmente. «Intendevo che dopo la mia reazione di poco fa... be', capirei anche io se tu non volessi continuare.»

Lui finalmente sorride, un sorriso così genuino e dolce da strapparne uno anche a me. «Ma no, figurati. Probabilmente anche io reagirei così, se qualcuno devastasse la mia idea.»

Si risiede sulla poltrona e mi avvicina il taccuino, rimasto abbandonato sul tavolo. «Hai delle buone idee, non volevo distruggerle. Solo... provare a migliorarle, per quanto arrogante sembri questa cosa detta a voce alta.»

«Un po' lo sembra, sì» dico, ma sorrido in modo che sia chiaro che scherzo. Non sono sicura che Diego colga del tutto l'ironia, perché sul suo volto passa un'altra ombra addolorata. «Scherzo» aggiungo, per sicurezza. «Per me è un po' difficile accettare le critiche, sai? Sempre stato un mio limite.»

«Mi sa che è una cosa comune.»

Rimaniamo qualche secondo in silenzio, ogni volta che il mio sguardo incrocia quello di Diego lui abbassa il suo, ma poi sento che torna a fissarmi, come in cerca di qualcosa. «Be', come continuiamo?» dico per spezzare il silenzio. «Ammesso di voler continuare...»

Resto con il fiato sospeso, consapevole per la prima volta di quanto mi dispiacerebbe se questa avventura finisse qui.

«Mi piacerebbe continuare» dice Diego, e tutta la tensione accumulata nel mio corpo si scarica. «So che non sembra, visti i precedenti, ma sono davvero curioso di scoprire cosa possiamo creare insieme. E non voglio affossare le tue idee, sia chiaro.»

«Nemmeno io» dico, ma non sono sicura che il contrario potrebbe davvero capitare. Nonostante le cose orrende che gli ho detto, penso che le trame dei suoi romanzi funzionino, e anche molto bene.

«E se ci dividessimo il lavoro?» propone Diego.

«In che modo?»

«Tu pensi all'ambientazione e alle civiltà che la abitano. Io mi occupo dei personaggi e dell'intreccio amoroso. E poi mettiamo insieme le cose e vediamo cosa ne viene fuori.»

Lo guardo dubbiosa. Non sono sicura che una divisione del genere possa funzionare, un'ambientazione ha bisogno di personaggi che la respirino, e una trama ha bisogno di un mondo intorno che la supporti e ne abbracci i risvolti. Però forse, e dico forse, può essere un modo per cominciare.

«Va bene, proviamo» dico, e Diego mi regala un altro dei suoi sorrisi. Potrei abituarmici, a quegli occhi che mi sorridono. Potrei abituarmici troppo rapidamente.

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