Capitolo 29

I primi giorni di terapia sono difficili. Mia madre è quasi sempre stanca, a volte preda della febbre, e il colorito giallastro non accenna a diminuire. I medici ci dicono che è normale, che ci vuole tempo perché il suo organismo assimili la cura. Noi cerchiamo di aiutarla, ci prodighiamo perché abbia sempre tutto a portata, perché nulla intorno a lei possa esserle di disturbo. Invece che rasserenarla, il nostro comportamento la esaspera molto presto e siamo costretti a fare un passo indietro per regalarle tranquillità e solitudine, le due cose che sembra bramare di più.

Io finisco per non sapere come passare il tempo. Cincischio per casa, le cammino intorno in attesa che sia lei a chiamarmi ma non accade quasi mai e non mi sorprende, mia madre odia chiedere aiuto. Così, le giornate si dilatano a dismisura nella noia e nella preoccupazione, che le condiscono in parti eguali.

Vorrei avere la forza di rimettermi a scrivere, so che farlo mi aiuterebbe, ma ogni volta che apro il file condiviso mi sembra che tutto quello che ho creato con Diego non sia che finzione, insignificante rispetto a ciò che stiamo vivendo intorno a mia madre. Così, fisso il puntatore e la pagina vuota come mi accadeva le prime volte che scrivevo, sentendo un misto di terrore e disperazione.

Torna a ossessionarmi la domanda che mi ha tenuta compagnia per tutta la stesura della mia Trilogia: e se non ne sono più capace? E se domani mi sveglio e scopro che il dono che mi ha accompagnata fino ad ora è svanito nel nulla?

Preda di questo timore irrazionale, trovo il coraggio di scrivere a Diego per messaggio, di confidarmi con lui e lui mi risponde con dolcezza e pazienza, rassicurandomi che è solo una fase e che tutto tornerà come prima quando mia madre starà meglio. Sono solo parole, ma le leggo e rileggo di continuo per trarne forza e affrontare il giorno successivo.

Tre settimane dopo il mio rientro, la mia mente si è ormai assestata su una nuova routine: sveglia presto, accompagnare mia madre all'ospedale, rimanere in attesa nella saletta per i parenti, oscillare tra lettura, scrolling ossessivo dei canali social, qualche messaggio agli amici per ingannare il tempo che sembra non passare mai; e poi rientrare a casa, aiutarla a mettersi a letto o più spesso sul divano, guardare la televisione con lei finché non si addormenta, fissare il vuoto per un tempo indefinito.

Vincendo le loro reticenze, mia madre è riuscita a convincere mio padre e Nino a tornare a lavoro, il primo al negozio e il secondo da casa, connesso a distanza con il suo gruppo di ricerca. Quando rientriamo dall'ospedale, a volte Nino mi dà il cambio sul divano e io mi concedo qualche ora per raggiungere la spiaggia e approfittare del caldo di fine settembre, sperando che il sole e il mare mi aiutino a snebbiare la mente.

La mia voglia di scrivere sembra essersi completamente dissolta e neanche le parole di Diego, che ormai sento quotidianamente per messaggio, riescono a tamponare la sensazione di star scivolando sempre più dentro un buco nero. Per fortuna, lui continua a scrivere per entrambi, tesse fili immaginativi che riescono, sera dopo sera, a tenermi ancorata al nostro mondo. La notte, prima di addormentarmi, leggo quello che ha prodotto e aggiungo il mio punto di vista, correggo e commento, ma mi sembra un contributo così infinitesimale che non riesco a gioirne.

Anche la campagna di D&D resta in pausa. Ho accarezzato l'idea di riprendere a giocare online ma poi l'ho scartata sentendomi in colpa per averla considerata, quasi divertirmi, in questo momento, fosse un torto a mia madre e alla mia famiglia. Non è un pensiero razionale, ne sono consapevole, ma non posso evitare di credere che più resto concentrata su di lei e sui suoi bisogni, più metto da parte i miei, maggiori saranno le probabilità della sua guarigione.

A ottobre il primo ciclo di terapia finisce e anche la routine dei viaggi in ospedale ha una pausa. Mia madre vorrebbe rientrare subito a lavoro, ma per fortuna i medici glielo impediscono, le consigliano di approfittare delle giornate ancora belle e di andare a prendere un po' di aria di mare, rigorosamente la mattina presto o la sera tardi, quando il sole è meno intenso e meno dannoso.

Così ci troviamo al mare io e lei da sole, lei sulla sedia con un pacco di articoli dei suoi assistenti da leggere e correggere, io sull'asciugamano con un libro che resta per lo più chiuso mentre fisso il mare o trascorro il tempo a mollo nell'acqua.

Una di queste mattine, quando torno sulla spiaggia e mi sdraio a pancia in giù sull'asciugamano ancora grondante d'acqua, mia madre mi fissa con sguardo penetrante, storce le labbra ma non dice niente.

Il suo sguardo però è pesante, troppo per ignorarlo. «Che c'è? Stai male?» le chiedo.

Lei scrolla la testa, guarda il cielo che a inizio ottobre è ancora terso, un regalo del cambiamento climatico che rimpiangeremo la prossima estate, quando di nuovo saremo senz'acqua per la mancanza di pioggia.

«Sono preoccupata» dice infine. Poggia l'articolo che stava leggendo accanto a sé, mi guarda da sotto i grandi occhiali da sole. «Quando riprendi a scrivere?»

Quelle parole cadono tra me e lei, occupano tutto lo spazio rimasto vuoto in queste settimane, acuiscono la mia ansia. «Non lo so...» borbotto, e provo a far finta che queste tre parole bastino, che non ci sia null'altro da aggiungere.

Ma ovviamente, per mia madre sono tutt'altro che sufficienti. «Non hai una scadenza da rispettare?»

«Sì, ma è ancora lontana» mento e, non per la prima volta da quando sono rientrata in Sardegna, mi trovo a scorrere mentalmente i mesi che sono già trascorsi, a contare quelli che restano. Quando abbiamo firmato il contratto con Parisi ci siamo impegnati a consegnare le prime bozze a Natale. Sul momento sembrava un tempo sufficiente per una prima stesura, ma ora ho la sensazione che i mesi stiano scivolando tra le mie dita senza che abbia la possibilità di viverli davvero.

«Alessandra...» sospira mia madre e io mi irrigidisco, come accade ogni volta che usa il mio nome per intero, che quando ero piccola veniva fuori solo prima di una sgridata o di una punizione. «Dovresti tornare in Toscana.»

La guardo come se avesse appena detto che sulla spiaggia sono atterrati gli alieni. «Scherzi, vero?» chiedo, e lei mi guarda fissamente, senza aggiungere nulla. Odio gli occhiali scuri che mi impediscono di decifrare la sua espressione, vorrei leggere nel suo sguardo a cosa sta pensando, prima di rispondere. Mi giro a pancia in su, in modo da poterla osservare senza torcere il collo. Lei continua a fissarmi, la sua bocca ha assunto una piega scontenta. «Non posso rientrare ora» dico, scandendo le parole come se bastasse a renderle un dato di fatto inoppugnabile.

Ma per mia madre nulla è inoppugnabile. «Sì che puoi rientrare» dice. «O se preferisci, puoi restare e scrivere qui. Ma devi riprendere.»

«C'è ancora tempo» ribatto, e lei scrolla la testa e sospira, sposta lo sguardo sul mare.

«Sacrificare te stessa non mi farà guarire più in fretta.»

Sono parole dure e dolorose. Pizzicano corde che in questo momento sono già tese, colpiscono la parte bambina di me che davvero crede all'idea che se la assisto, se le sto continuamente accanto, guarirà di sicuro.

Sento gli occhi pizzicare e ora vorrei essere io a indossare un grande paio di occhiali scuri, per nasconderle tutta la paura che sta venendo a galla.

«È ancora presto per dire se la terapia funzionerà» continua mia madre, ignorando il fatto che le lacrime cominciano a solcare le mie guance. «Ma se c'è una cosa sicura, è che non ho intenzione di permettere che la mia malattia mandi all'aria le vostre vite.»

«Ma se nemmeno ti piace, la vita che ho scelto» mi lamento, come farei se fossi ancora adolescente e non una donna adulta e indipendente.

Mia madre ridacchia. «No, è vero, non mi piace.» Si volta di nuovo a guardarmi, nota le mie lacrime, le labbra si aprono appena in un sorriso. «Ma piace a te e, da quello che ho potuto constatare, sei anche brava in quello che fai. Questo mi basta.»

Sgrano gli occhi, sorpresa. «Hai letto quello che ho scritto?»

In tutti questi anni, mia madre si è sempre tenuta ben lontana dai miei libri. L'uscita del volume completo della Trilogia è stata accolta con qualche sorriso di supporto e null'altro.

«Qualcosa da fare durante la terapia dovevo pur trovarla» dice, come se questo bastasse a spiegare tutto. Estrae dalla borsa il mio vecchio eReader, mi mostra la copertina del mio secondo volume. «Non è il mio genere ma scrivi bene e la trama è molto avvincente.»

Resto senza parole e sento dentro un tumulto difficile da spiegare. Da quando ho iniziato a scrivere, il mio desiderio recondito è sempre stato che lei leggesse le mie storie, che mi desse la sua approvazione. Ho smesso di proporle di leggere i miei romanzi quando è diventato chiaro che la sua riprovazione per le mie scelte di vita non sarebbe scemata, che non si sarebbe mai rassegnata all'idea di avere per figlia una scrittrice e non una medica.

E ora, tutto d'un tratto, quel mare di risentimento, sofferenza e senso di fallimento si è dissolto, grazie a una manciata di parole e a una copertina in bianco e nero su un vecchio lettore di ebook.

Guardo mia madre con ancora le lacrime agli occhi, lei mi sorride e si sporge per asciugarmi la guancia. «Se vuoi stare qui, va bene» dice con dolcezza. «Però, per favore, riprendi a scrivere. Fallo per me.»

***

Vorrei che fossero sufficienti quelle parole per uscire dal buco nero. Purtroppo, però, quando torno a casa e mi siedo davanti al computer la pagina bianca continua a farmi paura. La voce di mia madre mi risuona nella testa, ma anziché darmi forza mi atterrisce: alla consapevolezza di star deludendo Diego, Cristina, il mio editore e me stessa ora si aggiunge la paura di deludere lei.

E se alla fine vince la malattia? E se l'ultimo ricordo che le lascio di me è quello di una persona che ha perso definitivamente se stessa? Spaventata da questo pensiero, mi accascio sulla scrivania e piango. Lo faccio in silenzio, trattenendo i singhiozzi per paura di turbare gli altri abitanti della casa, per timore di preoccupare ulteriormente mia madre.

Il nonno, però, dalla sua camera accanto alla mia mi sente lo stesso. Lo riconosco dal bussare ritmico e leggero sulla porta, dalla voce flebile con la quale mi chiede: «Posso entrare?»

Sussurro un "sì" dimesso sufficiente ad accoglierlo e poi mi sposto sul letto, dove c'è abbastanza spazio perché possa raggiungermi e sedersi al mio fianco. Non fingo di stare bene, né mento sul fatto che si tratta solo di una cosa passeggera. Mi accascio sulla sua spalla calda e familiare e miagolo: «Non riesco più a scrivere. Ho perso il mio talento.»

Il nonno mi stringe forte, mi accarezza i capelli e lascia che le lacrime inzuppino la sua camicia di lino. Solo quando i singhiozzi si attenuano parla, e lo fa con voce dolce: «Non ci credo che l'hai perso. Si è solo rintanato da qualche parte, in attesa.»

«Di cosa?» sospiro sulla sua spalla.

«Di tempi migliori. Un po' come tutti noi.»

La lacrime continuano a scorrere, ma quelle parole intanto si fanno strada dentro di me, scavano tra le preoccupazioni e il dolore, prendono spazio: pensare che la mia capacità di scrivere sia ancora qui, nascosta da qualche parte ma ancora recuperabile, e che come tutti noi attenda solo che la mamma stia meglio per riemergere, in qualche modo mi consola.

Guardo il nonno e mi accorgo solo ora che il suo sguardo guizza da una parte all'altra, come in cerca di un appiglio.

«Tu stai bene?» gli chiedo, e vedo che fa uno sforzo per mostrarsi solido e presente, anche se la sua mente ha probabilmente già ripreso a vagare.

«Sì. Pensavo a tua nonna» dice lui. In queste settimane, complice la malattia di mia madre, è come se quella parte di lui che combatteva contro la dissoluzione si fosse sfilacciata: proprio come ora, alterna momenti in cui è qui, presente e di supporto a tutti noi, a momenti in cui si perde dentro di sé.

«Ti manca?» gli chiedo, provando a immaginare cosa significhi convivere con quel vuoto e impedendomi allo stesso tempo di pensare che la sensazione potrebbe a breve appartenermi.

«Tremendamente.» Il nonno mi guarda, il suo sguardo annebbiato riacquista consistenza, si fissa su di me. «Tu però le somigli così tanto che è come averla ancora qui.»

Lo stringo forte e rimaniamo così, abbracciati per un tempo che sembra infinito, finché non arriva l'ora di cena e lui, rispondendo a un orologio biologico ormai impeccabile, si alza dicendomi: «Devo preparare la cena» e, dopo avermi lasciato un piccolo buffetto al mento, lascia la stanza.

Io resto sul letto, guardo il soffitto e cerco di mettere ordine nel caos di emozioni che mi sta attanagliando da settimane. Seguendo un istinto nuovo, attraente, prendo il cellulare e compongo il numero di Diego, senza sapere bene cosa dirgli, con solo l'istintivo desiderio di sentire la sua voce.

«Ehi, tutto bene?» è il suo esordio, e la sua voce è un'altra carezza, un'altra arma contro la paura.

«Non tanto» dico, con un'onestà che non credevo mi appartenesse. «Ho paura di non essere più in grado di scrivere. Fisso la pagina per ore e... nulla.»

Lo sento respirare dall'altra parte del telefono e, se tendo le orecchie, riesco persino a percepire il lieve gracchiare delle cicale che riempie l'ambiente di casa sua. Chiudendo gli occhi, posso immaginare di essere lì, sdraiata sul suo divano con la testa sulle sue gambe, la sua mano che passa sui miei capelli come poco fa faceva quella del nonno.

«Non penso possa accadere» dice Diego. «Guarda i commenti che hai fatto ai miei capitoli, le osservazioni che mi hai lasciato tra le frasi. Il tuo talento è ancora tutto lì, solo...»

«Rintanato?» dico, citando le parole del nonno.

Diego ridacchia. «Sì, rintanato mi sembra calzante. Non voglio sembrarti giudicante, ma...»

«Ma?»

«Secondo me dovresti essere più gentile con te stessa.» Fa una pausa, sento che cambia posizione, me lo immagino seduto alla sua poltrona, con il computer sulle ginocchia, Celeste accoccolata sul divano a poca distanza. Mi mancano terribilmente entrambi. «Stai vivendo un momento difficile, è normale che le parole non arrivino, che la fantasia si sottragga. Prova a non forzare le cose. Semplicemente, quando ne senti il bisogno, lasciati andare.»

«A cosa?» chiedo, confusa da quelle parole.

«All'ispirazione. Scrivi di qualunque cosa ti venga in mente, anche di quello che stai vivendo, se pensi possa aiutarti.»

«E il nostro romanzo?» chiedo, storcendo il naso all'idea di scrivere di altro a pochi mesi dalla scadenza.

Diego sbuffa. «Dimenticati il romanzo, ora hai cose più importanti alle quali pensare.»

«Ma...»

«Niente ma, fidati. Posa le dita sulla tastiera e lasciati andare.»

«E se non esce niente?»

«Se non esce niente, ci riprovi il giorno dopo. E quello dopo ancora.»

Accarezzo l'idea, più si fa largo in me meno mi sembra assurda. «Parli come se ci fossi già passato...»

Un sospiro, poi il suono di un leggero sorriso. «Perché ci sono passato.»

Vorrei chiedergli quando, come ne è uscito, quanto tempo c'è voluto, ma in questo momento è di me che stiamo parlando, della mia paura, quindi lascio che le domande si posino, senza risposta. All'idea di sedermi al computer e semplicemente scrivere, senza obblighi, senza forzature, mi sento all'improvviso esaltata.

«Penso che ci proverò...» dico, sapendo già che comincerò appena chiuderemo questa chiamata.

«Bene, se ti va fammi sapere se funziona.»

Una pausa, durante la quale anch'io resto in silenzio, ascolto il suono del suo respiro.

«Vorrei che fossi qui» soffio fuori, senza sapere bene neanche io da dove siano venute quelle parole, come abbiano fatto a superare la barriera di indipendenza e riservatezza che mi porto sempre dietro. Forse, semplicemente, tra me e Diego quella barriera si è infranta senza che io me ne accorgessi.

Sento che espira, lascia andare l'aria lentamente, quasi fosse anche lui sorpreso di sentirmi pronunciare quella frase. «Se hai bisogno di me, arrivo» dice alla fine e anche se mi limito a un "grazie" commosso, sento che abbiamo fatto qualche altro passo avanti che non so ancora bene dove ci porterà.

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