Capitolo 27
Ricordo di dover richiamare mia madre solo il pomeriggio dopo, quando scendiamo dal treno alla stazione Pisa. Provo un lieve senso di colpa per averla fatta aspettare tanto, quindi la chiamo mentre ci dirigiamo a piedi verso il Goblin Cafè, ma questa volta è lei a non rispondere.
Le lascio un messaggio e poi vengo travolta dai pensieri sulla sessione, e anche il senso di colpa si attenua. Avendo trascorso il sabato a Torino, ho dovuto rimettere insieme i pezzi dell'avventura in una mattinata; per fortuna, l'esperienza e l'atmosfera mi hanno aiutata e ho pianificato gli ultimi dettagli seduta comodamente sul divano di Diego, con Celeste accoccolata accanto, mentre lui si dedicava alle piante in giardino. Un altro assaggio di una possibile vita condivisa, nella quale mi sono calata con una semplicità che ormai non posso che considerare rivelatoria.
Da ieri continuo a rimuginare sull'ultima domanda di Anna, chiedendomi se Diego si sia già interrogato su una nostra possibile futura convivenza. Ancora non gliene ho parlato, però, perché una parte di me mormora che è troppo presto, che le coppie normali non pensano a queste cose a pochi mesi dall'essersi incontrate. Una battaglia mentale che ora decido di accantonare, anche questa in favore dei pensieri ben più piacevoli da master.
Siamo i primi ad arrivare al Goblin e io ne approfitto per allestire il mio schermo e rivedere gli appunti per la sessione; con una punta di divertimento, noto che anche Diego si immerge nella rilettura del diario del suo personaggio.
Dopo qualche minuto arriva Enrico, che ci saluta con un inchino e un teatrale: «Signora master, Eowen.»
Diego solleva lo sguardo dal taccuino e ricambia l'inchino, modulando la voce nei toni studiati ed eleganti del suo elfo: «Pendil, è un piacere rincontrarvi.»
«Ancora con il voi?» ridacchia Enrico, prendendo posto accanto a Diego. «Quando si deciderà il tuo personaggio a darci del tu?»
«Sono confidente che accadrà... presto» risponde Diego, e poi ride anche lui. «Come stai?» chiede, tornando alla sua voce normale. «È andata bene la settimana?»
«Insomma. Lavorare fa schifo.»
Enrico si lancia a raccontare la sua terrificante settimana da programmatore sfruttato, della quale riesco a cogliere solo le prime battute prima che il mio cellulare vibri per un messaggio su WhatsApp:
Ho provato a chiamarti ma mi dà staccato...
Mia madre. Osservo le pareti spesse del Goblin, poi i due avventurieri che si sono lanciati in una critica al sistema capitalistico globale. Sospiro e mi alzo, decisa a vestire i panni della brava figlia almeno per qualche minuto. «Torno subito» dico.
Sulla strada verso l'uscita incrocio Giulia e Anna e le saluto con un sorriso e un rapido: «Chiamata genitoriale» con tanto di sventolamento del cellulare.
Loro ridono e mi fanno cenno che hanno capito. Uscita dal locale, compongo il numero di mia madre e inizio a fare avanti e indietro sul marciapiede, mentre mi preparo alla ramanzina che mi farà: una rivisitazione del fatto che non rispondo mai al telefono perché sono una pessima figlia e non ho cura delle loro esigenze.
«Ale, finalmente» è il suo esordio, e sono sul punto di irritarmi per quel finalmente, quando registro che il suo tono è molto più debole e prostrato del solito.
«Ciao mamma, tutto bene?» chiedo. Lei non risponde, ma sospira lentamente. «Mamma? Che succede?»
«Ho bisogno di parlarti...» mormora.
«Di cosa?»
Altra pausa, abbastanza lunga da permettermi di percepire sullo sfondo il gracchiare delle cicale. Dev'essere in giardino, seduta sulla panchina sotto la vecchia quercia, dove tende a rifugiarsi quando ha bisogno di stare sola con i suoi pensieri.
«Mamma?» la richiamo, e lei sospira di nuovo, cosa che mi mette lievemente in allarme: mia madre non è la tipa da lunghe pause e sospiri; è piuttosto una donna-panzer, che ti dice dritto in faccia tutto quello che deve dirti. Compreso, appunto, il fatto che sei una pessima figlia perché non ti fai mai sentire.
Comincio davvero a sentirmi tale per aver aspettato un giorno intero prima di richiamarla. Sto per scusarmi, quando la sento esalare: «Sono malata.»
Mi blocco, perché tutto mi aspettavo tranne che quella frase, e sento salire l'ansia. Mia madre ha sempre trattato le nostre e le sue malattie con la flemma tipica dei medici: quello che non si può risolvere con un po' di sonno e un brodo caldo, si risolve con le visite specialistiche e le medicine, senza fare troppo storie nel frattempo. Che mi stia chiamando ora per dirmi che è malata non è per nulla un buon segno.
«Malata? Di cosa?» La frase mi esce stridula e strozzata.
«Possiamo parlarne di persona? Ti va di tornare?»
Le sue parole sono la conferma che temevo: non mi chiederebbe di tornare, se non fosse grave. Vorrei rispondere che sì, certo che mi va di tornare, ma la mia mente ha cominciato ad attorcigliarsi in un loop che purtroppo conosco molto bene, perché ci sono sprofondata dentro tante volte. «Di cosa sei malata?» ripeto, come un disco rotto.
Lei esita di nuovo, e il suo respiro lento e tremolante è un invito per la mia subdola mente a rievocare tutti i ricordi che finora avevo tenuto bene a bada: la nonna nel letto d'ospedale, il volto tumefatto dalla malattia, la voce gracile e roca come quella che percepisco ora dall'altra parte del telefono. E poi la bara che si chiude e la paura, costante e invadente, che tutta quella sofferenza possa tornare ancora.
Anche se sono all'aperto, comincio a sudare e a sentirmi in trappola.
«Tumore.» Lo dice con la stessa semplicità con la quale potrebbe dirmi che ha comprato un nuovo paio di tende per la sua camera da letto. Nonostante la sua calma, però, non riesco a controllare la paura che si impossessa di me e mi accelera il respiro. Mi si velano gli occhi di lacrime, le mani cominciano a tremare. Vado in affanno e annaspo, incapace di mettere insieme pensieri e parole.
«Non respiro...» mormoro.
Dall'altra parte del telefono, la voce di mia madre si fa più solida, concreta. «Inspira a fondo e poi espira lentamente» dice con fermezza, nonostante in questo momento sia lei quella che dovrebbe essere consolata. «Senti l'aria che entra ed esce dai tuoi polmoni, nessuno te la sta togliendo. Inspira ed espira, Alessandra, non pensare ad altro.»
Faccio come dice, anche se all'inizio mi sembra impossibile che l'aria possa davvero entrare e fluire normalmente; ma la sua voce è salda, non ha più nulla di simile a quella della nonna negli ultimi giorni di vita, e il mio cervello registra la differenza e comincia ad accettare che lei è ancora qui e che i miei polmoni funzionano ancora.
Ho ancora la vista appannata, ma dopo qualche secondo il respiro comincia a regolarizzarsi e tra le lacrime riesco a scorgere Silvia che si avvicina all'entrata del Goblin. Solleva lo sguardo e mi vede, ma non riesco a decifrare l'espressione sul suo volto perché è ancora troppo lontana, quindi torno a concentrarmi sulla voce di mia madre, che sta ancora mormorando: «Inspira ed espira... inspira ed espira.»
Silvia si avvicina e ora capisco che è preoccupata: ha perso la sua espressione solitamente solare e ha inarcato le sopracciglia in una posa interrogativa. Scuoto la testa e scandisco con le labbra: «Sto bene...»
Lei esita e poi annuisce, fa un passo indietro ma resta lì, accanto a me. La sua presenza è rassicurante, e mi sento abbastanza in me da mormorare al telefono: «Mi dispiace...» anche se nemmeno io so bene se è per la malattia di mia madre o per il mio attacco di panico.
«Anche a me» dice mia madre, e la sua voce si incrina per un attimo, prima di tornare solida. «Le probabilità però sono buone» continua, il tono sempre più sicuro mentre indossa i panni della professionista abituata a pronunciare quelle parole ogni giorno. «Il primo passo sarà provare con un ciclo di bioterapia, per rafforzare il sistema immunitario. Se funziona...»
«Se funziona?» la interrompo, suonando più stridula di quanto vorrei.
Lei sospira, prima di continuare. «Sì, non è certo che funzioni, è solo un primo tentativo.»
«E se non funziona?»
«Se non funziona, proveremo un'altra terapia. Come ti dicevo, le probabilità sono buone. Lo stiamo prendendo in tempo.»
Usa il plurale, per riferirsi al sistema medico al quale si sta affidando, quasi fossero un'unica grande famiglia concentrata sullo stesso obiettivo: salvarle la vita.
«Come fai ad essere così tranquilla?» chiedo, e lo so che non è una cosa carina da dire a una persona che sa di essere malata e sta combattendo a sua volta con la paura, ma il suo atteggiamento in questo momento è l'unica cosa che mi impedisce di mettermi a gridare per strada come una matta, o peggio di soffocare di nuovo, e vorrei poterne assorbire almeno un frammento e farlo mio.
Lei sospira, e probabilmente questa è la chiamata nella quale l'ho sentita sospirare più volte in vita mia. «Devo esserlo, tesoro» dice, e nelle sue parole percepisco un'inflessione dolce, la stessa che usava con me nei primi tempi dopo la morte della nonna, quando mio padre era distrutto dalla perdita della madre e a lei era toccato affrontare la mia malattia completamente da sola. «Non c'è altro modo per affrontare questa cosa.»
«Non puoi prestarmi un po' della tua tranquillità?»
Questa volta ride, ed è un suono così bello da risollevare almeno un poco il mio spirito. «Vorrei tanto che fosse possibile. Ma temo che tu abbia preso da tuo padre.»
Il pensiero di papà, che apprende della malattia della mamma dalla sua voce calma e posata, mi causa un'ondata di compassione. «Lui come sta?»
«Insomma...» Mamma fa una pausa e io colgo l'occasione per voltarmi un istante verso Silvia, che è ancora lì a un passo da me, la stessa espressione preoccupata sul volto. Le mormoro un "vai dentro, arrivo subito" ma lei scuote la testa e mormora a sua volta "se ti va, aspetto qui con te".
Provo per lei un moto d'affetto istantaneo e le sorrido leggermente.
«Avrebbe voluto essere lui a dirtelo, ma ho insistito finché non ha ceduto» riprende mia madre. «T'immagini come sarebbe stata la sua chiamata?»
«Straziante» dico, rendendomi conto che l'atteggiamento stoico di mia madre mi sta davvero aiutando a rendere la notizia più digeribile. Almeno per il momento, finché sento la sua voce solida e posso illudermi che andrà davvero tutto bene. «Mamma...»
«Cosa?»
Prendo un profondo respiro, prima di dire: «Controllo subito gli aerei. Prendo il primo disponibile e resto giù tutto il tempo che serve.»
«Va bene, Ale, grazie» dice mia madre, e avverto un'incrinatura nella sua corazza. «Sarà importante averti accanto.»
«Lo so. Arrivo.»
Chiudo la chiamata e torno a guardare Silvia, decisa a mostrarmi sicura e forte come mia madre. Mi basta incrociare il suo sguardo, però, perché tutta la sicurezza vacilli. Le lacrime saltano fuori prima che possa fermarle.
«Che succede?» mi chiede.
Tiro su con il naso, cercando di mostrare una compostezza che purtroppo non mi appartiene. «Mia madre ha un tumore.»
Leggo sorpresa nel volto di Silvia, poi dolore. Senza dire una parola, si sporge e mi avvolge tra le sue braccia. Affondo il naso nella sua camicetta, lasciando che le lacrime sgorghino fuori e le allaghino la stoffa leggera.
«Andrà tutto bene» mormora Silvia, e anche se so che sono solo parole, mi ci aggrappo e le ripeto nella mente come un mantra: "andrà tutto bene, andrà tutto bene".
***
Quando rientriamo al Goblin, le lacrime sono terminate ma il dolore è come un'eco sorda che mi ottunde la mente. Qualunque pianificazione avessi in mente per la sessione della serata è sbiadita, e in ogni caso la priorità ora è rientrare a casa e prenotare il primo biglietto per la Sardegna disponibile, che con tutta probabilità non mi permetterà di partire prima di domani mattina. Come sopravviverò alle ore da qui al volo è un mistero.
Prima di arrivare al tavolo, Silvia mi chiede in un sussurro: «Preferisci non dire niente?»
Io scuoto la testa, perché nascondere la cosa agli altri non la renderà meno reale. «Spieghiamogli cos'è successo, poi vorrei tornare a casa.»
Silvia annuisce. «Ci penso io.»
Mi lascio guidare fino al tavolo, quando arriviamo Silvia mi stringe un po' più forte, prima di lasciarmi e dire agli altri, a voce bassa: «Dobbiamo cancellare la sessione. La madre di Ale sta male e lei deve rientrare in Sardegna il prima possibile.»
Mormorii dispiaciuti si diffondono al tavolo. Tento di evitare che le lacrime riprendano a scorrere e cerco il volto di Diego per rifugiarmici. Ha la stessa espressione colma di preoccupazione di Silvia. Tengo lo sguardo su di lui, mentre dico piano: «Scusatemi, non so quanto dovrò restare giù e...»
«Ci mancherebbe!» esclama subito Enrico. «Hai altro di più importante a cui pensare.»
«Non farti alcun problema» aggiunge Anna. Si alza e mi viene incontro, per passare con dolcezza una mano sulla mia spalla. «Se ti serve qualunque cosa, chiamaci. Anche solo per distrarti un po'.»
Annuisco e sento gli occhi pizzicare. Anche Diego si alza e Silvia gli fa spazio per permettergli di raggiungermi. Affondo tra le sue braccia e, senza una parola, Diego mi stringe forte. In questo momento, d'altronde, non c'è nulla che valga davvero la pena dire.
«Allora noi andiamo» dice Anna, alzandosi a sua volta. «Tienici aggiornati. Se ti va, ovviamente...»
«Certo, grazie» mormoro, spostando il viso per guardarli.
Anche se ancora non ho razionalizzato del tutto la chiamata di mia madre, so che questo è un nuovo punto di svolta della mia esistenza, e che sarà difficile ritrovarci nell'immediato futuro per giocare ancora. C'è la possibilità di continuare a giocare online, certo, ma non sarà comunque la stessa cosa e non me la sento di salutarli così, senza dire loro quanto questi mesi insieme siano stati importanti per me.
Sciolgo l'abbraccio e mi schiarisco la gola per attirare la loro attenzione. «Ragazzi, io...» comincio, ma non è semplice parlare con le lacrime che minacciano di sgorgare nuovamente. «Non so bene quando potremo riprendere a giocare e...»
Sento la mano di Diego che si posa sulla mia spalla per darmi forza. Ricaccio indietro le lacrime e continuo: «Volevo solo dirvi che le nostre sessioni, per me, sono state potenti e bellissime.»
Sorrido e vedo che Anna, Giulia ed Enrico fanno lo stesso.
«Lo sono state anche per noi, Master» dice Enrico, facendomi un piccolo inchino.
«Ti aspettiamo, lo sai?» dice Anna, e Giulia ridacchia. «Siamo tutti curiosi di vedere come finisce la storia.»
Diego e Silvia sono alle mie spalle, ma percepisco la loro presenza e in mezzo a tutti loro mi sento profondamente a casa. «Grazie.»
«Grazie a te.»
Con le braccia di Diego e Silvia che mi sostengono, li osservo mentre raccolgono le loro cose e lasciano il locale. Noi li seguiamo poco dopo. Quando siamo fuori, la mia dolce coinquilina mi accarezza la schiena e dice, rivolta a entrambi: «Volete dormire a casa, stasera? Così nessuno deve viaggiare.»
Diego mi guarda, sul volto un'espressione calma, rassicurante. «Scegli tu. Facciamo quello che ti fa stare meglio.»
Io annuisco e stringo la mano di Silvia. «Va bene, grazie.»
Sorrido, nonostante il dolore e la preoccupazione, perché d'improvviso capisco che ha ragione mia madre, e c'è poco altro che possiamo fare in questo momento, oltre a provare ad essere forti e ad andare avanti. «Farai anche tu l'esperienza di una notte nel bucolocale» dico rivolta a Diego, per scacciare la pesantezza che si è impossessata di noi.
Silvia ridacchia e il suono è piacevole e benefico quanto quello della risata di mia madre. «È una cosa davvero esclusiva, sai?»
«Mi ritengo molto fortunato, allora» ridacchia anche Diego e la sua voce riverbera dentro di me, e insieme a quella di Silvia tampona le ferite che hanno ripreso a sanguinare.
Una parte di me sta già pensando al dopo, al volo che dovrò prenotare stasera, al tempo indefinito che trascorrerò in Sardegna, alla sofferenza che questa nuova malattia porterà sulla mia famiglia e alle cose che mi lascerò dietro nel frattempo. Guardo prima Diego e poi Silvia e una parte di me vorrebbe chiedere loro di accompagnarmi, ma so che questa è una cosa che devo affrontare da sola. Loro hanno le loro vite da mandare avanti e, anche se ancora non ne abbiamo parlato, so già che chiederò a Diego di proseguire nella scrittura senza di me, almeno finché non mi sentirò di nuovo in grado di dedicarmi a un mondo diverso da quello che ha appena reclamato tutta la mia attenzione.
Per il momento, però, metto da parte le paure e i piani per il futuro e mi concentro solo sulla strada fino al bucolocale, sul braccio di Diego attorno al mio e sulla mano di Silvia che ogni tanto mi sfiora la spalla, respirando l'aria di Pisa che, anche se ancora non sono partita, già comincia a mancarmi terribilmente.
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