Capitolo 24

Quando apro gli occhi, il viso addormentato di Diego è così vicino che riesco a vedere le sue ciglia che tremano, e a percepire il respiro quieto di chi ancora abita piacevolmente il mondo dei sogni. È solo la seconda volta che mi sveglio al suo fianco ma sembra già una cosa normale, come normale è stato addormentarci a tarda notte, abbracciati stretti sul divano, svegliarci ancora abbracciati e fare colazione insieme in un sabato mattina limpido, per poi trascorrere una giornata intera ad amarci, mettendo il naso fuori di casa solo per andare a comprare qualcosa per cena.

A giudicare dalla luce che ora inonda la stanza dev'essere già domenica inoltrata. In un certo momento di questa notte il braccio di Diego mi ha circondato la vita e io mi sono rannicchiata a lui ed è così che ci troviamo ancora, stretti l'uno all'altra e coperti solo da un lenzuolo leggero. Mi prendo del tempo per osservarlo, per studiare tutti quei piccoli dettagli che fanno del suo viso un quadro del quale non penso mi stancherò molto presto. Mentre dorme, ogni tanto la sua fronte si contrae, le labbra si aprono leggermente seguendo il flusso del respiro. È così bello, e vivo, e reale, che sento di nuovo una fitta al cuore.

Mi muovo piano per accostare il naso al suo e Diego socchiude gli occhi, emergendo dal sonno. Quando mi mette a fuoco sorride, e penso che potrei abituarmi molto facilmente al suo sorriso che mi accoglie al mattino.

«'Giorno» dice, la voce ancora impastata, le labbra che cercano le mie per un bacio dolce.

«Buon giorno a te» rispondo, passando il naso sul suo, accarezzando la sua guancia. «Sei davvero bello al mattino, lo sai?»

«Tu sei sempre bella.» Allunga il braccio e mi circonda la vita, facendomi aderire al suo corpo. Indossa solo i boxer e la sua pelle emana un calore piacevole, nel quale mi rintano per qualche altro minuto. Quasi mi addormento, ma il mio stomaco brontola, sonoramente, scatenando in Diego una bellissima risata. «È veramente autoritario, il tuo stomaco» dice, sfilando il braccio e rotolando di lato per scendere dal letto.

«Dove vai?» miagolo, sorpresa dal freddino che si impossessa del letto e di me.

«A prepararti da mangiare. Non voglio che il tuo stomaco mi odi.»

Lo guardo mentre cerca i suoi vestiti, ancora mezzo addormentato. Quando si ricorda che sono rimasti tutti al piano terra sorride e scuote la testa. «Mi toccherà indossare una tuta» dice. Si avvicina all'armadio e lo apre, fruga all'interno e dalla mia posizione riesco a scorgere delle pile di vestiti ben ordinati.

«Se ne hai una anche per me, la accetto volentieri.» Anche i miei vestiti devono essere rimasti da qualche parte giù al piano terra, mi ricordo, e sorrido al pensiero.

«Certo.» Estrae due paia di pantaloni e due magliette e lascia quelli per me sul letto. «Usa pure il bagno di qui, io vado giù.» Si sporge a darmi un altro bacio fugace e lascia la stanza a piedi nudi, io seguo la sua schiena finché non sparisce dietro la porta e mi sfugge un sospiro.

Rotolo a pancia in su e osservo il soffitto, chiedendomi cos'ho fatto per meritarmi un momento perfetto come questo. Ieri, oltre ad amarci abbiamo chiacchierato, raccontandoci cose di noi che ancora non avevamo avuto occasione di dirci. Ho scoperto che Diego scrive da quando è bambino, anche se fino al divorzio l'aveva sempre considerato un passatempo, una cosa infantile da non raccontare troppo in giro. Trovo molto bello che questo suo dono sia riemerso spontaneamente nel momento in cui il resto della sua vita stava crollando in pezzi, dandogli un appiglio per ritrovare sé stesso e andare avanti.

Io ho scoperto la scrittura solo da adulta, per caso, mentre cominciavo a giocare a D&D, eppure posso capire cosa significhi crescere nutriti dalla propria fantasia, le storie di nonna Rosa sono state per me quello che i raccontini di Diego bambino sono stati per lui, e penso che anche questo sia un elemento che ci accomuna, forse l'origine della familiarità che si sta creando tra noi. Non mi sono mai sentita così a mio agio con qualcuno, mentre Diego scopriva il mio corpo e il mio piacere un frammento alla volta, e io che scoprivo il suo.

Scendo dal letto e vado in bagno continuando a ripercorrere nella mente brandelli di questa notte, rievocando sensazioni, sospiri, risate. Quando scendo in cucina vestita della tuta di Diego, lo trovo intento a tagliare il pane, nell'aria aleggia il profumo del caffè appena macinato.

«Sembra fatta apposta per te» osserva, alzando il capo per guardare la tuta con un sorriso fiero.

«Mi piace parecchio indossare le tue cose, sai?» rispondo. Mi avvicino e lo abbraccio, affondando il naso nel suo collo. Sa di caldo, della notte passata insieme, di buono.

Diego finisce di affettare il pane e mi guida fino alla tostiera, che ha già messo a scaldare. «Prendi la marmellata e il burro dal frigo?» chiede, mettendo le prime fette a tostare.

«Mmm» mormoro. «Dovrei staccarmi...»

La risata di Diego riverbera dalla sua schiena al mio petto, penetra strati e anni di mancata intimità, di desideri inespressi, di solitudine, e riempie tutti gli spazi rimasti vuoti fino a qui. «Hai ragione, sarebbe un crimine. La prendiamo dopo.»

«Grassie» bofonchio, il naso di nuovo immerso nel suo collo. «Sei davvero buono, lo sai?»

«Tu sei buona.» Si volta e mi bacia, poi torna a concentrarsi sul pane che abbrustolisce, mentre una nota aromatica invade la cucina.

Quando il pane è pronto, recuperiamo dal frigo il resto degli ingredienti, Diego prepara i due caffè con la macchinetta e ci sediamo al tavolo, uno accanto all'altra, le mani intrecciate, le labbra che alternano cibo e baci, gli occhi che si cercano di continuo.

«Stavo pensando una cosa...» dice a un tratto Diego, e il tono della sua voce è teso, ricorda la prima volta che abbiamo discusso a causa della mia incapacità di accettare una critica, lo stesso timore di dire di nuovo la cosa sbagliata.

«Cosa?» chiedo, accarezzandogli la mano per dargli coraggio, e prendendo l'ultima sorsata del mio caffè.

Diego esita, si agita sulla sedia, il suo sguardo guizza da me alla tazza, poi all'unica fetta di pane sul tavolo. «Quella è tua» dice, e capisco che lo fa per prendere tempo, per darsi tempo di trovare le parole, il coraggio.

Una leggera paura mi invade, ma la mattina è stata troppo perfetta per permetterle di guastarla. Prendo la fetta di pane e la addento, dando a Diego lo spazio di cui ha bisogno.

Finalmente, torna a guardarmi e piega appena verso l'alto gli angoli della bocca, un inizio di sorriso che ancora non sa se aprirsi o no. «So che abbiamo detto di andarci piano...» Deglutisce, riprende: «Ma il prossimo fine settimana è il compleanno di mia madre, e mi chiedevo se...»

Fa una pausa, la mia mente è svelta a riempire il vuoto, a capire dove cadranno le sue prossime parole. Stranamente, la mia paura sembra evaporata.

«Mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi a Torino.»

Una volta che la frase è uscita, Diego sembra riprendere coraggio, le parole successive le pronuncia in fretta, facilmente. «Non si tratta propriamente di una festa, sarà solo un pranzo, una cosa semplice: mia madre, mio padre, io e se ti va...»

«Mi andrebbe molto» dico, così rapida da sorprendere me per prima, eppure quando pronuncio la frase so che è reale, potente e bellissima.

Il sorriso di Diego si apre, il suo sguardo è un misto di sorpresa e sollievo. «Davvero?»

«Sì.» Stringo la sua mano, poso per un attimo la guancia sulla sua spalla, poi mi rialzo e torno a guardarlo, sorrido anche io. «Mi piacerebbe davvero tanto conoscere i tuoi genitori.»

***

In treno, guardo la Pianura Padana che scorre fuori dal finestrino, le nuvole basse che si rincorrono, le fabbriche e le poche case che punteggiano il paesaggio. Di fronte a me, Diego è immerso in un libro, quando si accorge che lo sto osservando alza lo sguardo e mi sorride, la sua felicità è così tangibile da farmi tremare la pelle. Ricambio il sorriso e torno a perdermi nel paesaggio, cercando di acchiappare i pensieri che fuggono via troppo veloci.

Ho passato la settimana a interrogarmi sul perché sia stato così facile dire di sì alla proposta di Diego, a chiedermi dove sia finita la paura che appena una manciata di giorni fa mi rendeva impossibile anche solo immaginare una situazione come quella che stiamo vivendo. Dopo averne parlato a fondo con Silvia, ho capito che qualcosa è cambiato in quel primo fine settimana insieme. Forse perché ho sentito, per la prima volta in vita mia, che far entrare un'altra persona nella mia esistenza poteva essere semplice e indolore.

Se ripenso a quest'ultima settimana trascorsa insieme, a scrivere d'amore tra le pagine e a viverlo fuori, mi rendo conto di quanto io sia cambiata, e in meglio, da quando ci siamo conosciuti. Sorrido all'idea di quanto ritenessi l'amore una cosa stupida. Rubo un'altra occhiata e Diego e penso che non ci sia nulla di stupido in tutto quello che stiamo vivendo; al più tanto di misterioso, e bellissimo.

Trascorro il viaggio alternando tra il finestrino, i miei pensieri e un libro. Ogni tanto alzo lo sguardo su Diego e lui è sempre lì, pronto a incrociare il mio, una presenza solida che allontana il malessere di essere chiusa in una scatola semovente, i dubbi sul mio posto nel mondo.

Siamo quasi a Torino quando il mio telefono e quello di Diego vibrano all'unisono. Prendo il mio e vedo che si tratta di una mail, Diego continua a leggere quindi la notizia gli arriva direttamente dalla mia esclamazione sorpresa.

«Parisi è entusiasta del libro!» dico, a voce troppo alta per non attirare l'attenzione delle persone intorno a noi. Per fortuna, l'anziana signora che mi siede accanto prende bene la mia maleducazione, mi lancia un'occhiata ilare e torna alla sua rivista.

Il volto di Diego è luminoso. «Davvero?» esclama, e prende anche lui il cellulare per leggere la mail del nostro editore, che ci ha dedicato quasi dieci righe di complimenti per il modo in cui siamo riusciti a "trovare la perfetta sinergia".

«Se sapesse quanto l'abbiamo trovata...» ridacchia Diego e io gli faccio una smorfia felice. In effetti, in questa settimana abbiamo avuto occasione di sperimentare diverse varianti di sinergia.

«Non è necessario che Parisi sappia proprio tutto tutto» ribatto, e non posso non pensare a come la prenderà, quando saprà in cosa si è evoluto il sodalizio letterario che ha progettato. Probabilmente si sentirà terribilmente orgoglioso di sé stesso.

«Lo dirai ai tuoi?» chiedo, e quando l'espressione di Diego si fa fintamente scandalizzata ridacchio. «Del libro, intendo.»

Lui scuote la testa e torna serio. «Non lo so» ammette, posando il cellulare sul tavolino. «Non ho ancora deciso quanto gli dirò. Non voglio rovinare la festa raccontando che il loro unico figlio è passato dall'essere un fisico brillante a vestire i panni di una scrittrice di romance per... com'era?» Ride, prima di continuare: «"povere zitelle che non hanno nessun'altra speranza di sapere cos'è l'amore"?»

«Ouch» dico, imbarazzata. «Te lo ricordi a memoria?»

«Be', una sfuriata così, in vita mia, non me l'ero mai presa.» Si sporge per accarezzare la mia mano, aggiungendo: «Non che non me la meritassi...»

«Insomma... ho parecchio esagerato.» Ancora brucia il ricordo di come l'ho trattato le prime volte. Poi però mi ricordo di come mi ha trattata lui e faccio una smorfia. «Certo che anche tu non eri proprio amichevole...»

«Colpito» dice Diego. «Pensa che, nella mia testa, quello doveva essere il modo migliore per allontanarti.»

«Per fortuna ho insistito per starti intorno» dico, stringendogli la mano.

«Davvero.»

Gli altoparlanti annunciano in quel momento il nostro ingresso a Torino e siamo costretti a sciogliere l'intreccio delle mani. Rubo comunque un'occhiata al bell'uomo con il quale sto viaggiando, che si è preparato all'incontro con i suoi accorciando la barba e pettinando i capelli altrimenti perennemente arruffati.

Quando scendiamo dal treno, Torino ci accoglie con una giornata grigia e piovosa, che strappa a Diego un borbottante: «Piove, tanto per cambiare», che mi fa intuire che abbia ancora tante questioni aperte con la sua vecchia città. Io in realtà la trovo fin da subito bellissima, anche sotto la pioggia. L'uscita della stazione si apre su un grande viale trafficato che, invece che destabilizzarmi come avrebbe fatto a Milano, qui sorprendentemente mi esalta e mi trasmette una certa vitalità.

«Sempre sicura di voler andare a piedi? Non è vicinissimo» dice Diego, e io annuisco.

«Non mi scoccia camminare. E lo preferisco al tram.»

Camminiamo stretti sotto un solo ombrello, muovendoci tra portici e strade alberate, e io tengo quasi sempre il naso all'insù per osservare la maestosità dei palazzi che ci circondano. Mi ricordano quelli di Parigi, hanno la stessa aria signorile, la stessa storia di ricchezza e potere da raccontare.

«Com'è crescere qui?» chiedo, allacciando la mano a quella di Diego, il naso ancora sollevato verso i balconi stretti da anguste inferriate in metallo.

«Piacevole, credo» risponde lui, aggiustando lo zaino sopra la giacca. Nonostante la pioggia, il clima è ancora caldo e sotto porta solo una maglia scura e dei jeans neri, un abbigliamento che gli dà proprio l'aria da scrittore. Io ho scelto una tuta larga rosso mattone, accanto a lui sembro l'organizzatrice del festival al quale è stato invitato a parlare. O meglio, al quale è stata invitata la celebre Diane Vane. L'effetto è così esilarante che mi viene da ridacchiare. «Che c'è? Cos'ho detto di buffo?» mi chiede, e io scrollo la testa.

«Nulla, è che faccio ancora fatica a realizzare che stiamo facendo una cosa del genere insieme.»

«Cosa, camminare sotto la pioggia?»

«Anche. E andare a conoscere i tuoi.»

Diego si ferma al centro del marciapiede, qualche passante frettoloso ci supera ma lo fa senza urtarci, come se fosse abituato alle persone che bloccano il passaggio. «Sei sicura di sentirtela?» mi chiede, e c'è un filo di timore nella sua voce.

Annuisco, con un sorriso sincero. «Sicurissima. Dicevi che è stato piacevole crescere qui?» Riprendo a camminare e Diego mi segue con un filo di riluttanza, non so se le mie parole sono state sufficienti a dissipare i suoi dubbi ma faccio di tutto per mostrarmi solare e tranquilla.

«Sì, abbastanza. Alle elementari ero il nuovo arrivato, quello con l'accento strano, ma è durato poco e dopo aver fatto amicizia con i figli dei vicini di casa, mi sono ambientato senza troppi problemi.» Sorride, forse ripensa alla sua infanzia, che io riesco a immaginarmi solo in parte. «Crescere in un vecchio condominio ha i suoi vantaggi, dopo poco tempo ci si conosce tutti e si condividono spazi e momenti. Giocavamo un po' a casa mia un po' a casa dei vicini, sorvegliati dalle rispettive mamme. Era divertente.»

«Non è molto distante dalla mia infanzia» osservo; anche se la mia è trascorsa a correre per gli orti, c'era la stessa dinamica di mutuo-aiuto tra le famiglie di vicini. «I tuoi vivono ancora nello stesso condominio?»

Diego annuisce, poi mi fa cenno che dobbiamo attraversare uno dei grandi viali alberati. Il traffico è denso, il rumore delle auto sovrasta il suono della pioggia, e quando scatta il verde siamo costretti a tenere un passo svelto per arrivare dall'altra parte prima che le auto ripartano. «Sì, sono rimasti nello stesso posto» riprende Diego. «Hanno finito di pagare la casa qualche anno fa e ora si godono la pensione di mio padre, che per fortuna basta a entrambi per vivere sereni.»

Ci inoltriamo in un quartiere meno storico, i maestosi palazzi del centro lasciano il posto a condomini più modesti, circondati però da zone verdi che ne allietano il grigiore. La pioggia si è ridotta a un leggero gocciolio, che ci permette di chiudere l'ombrello e accelerare il passo.

«Tutta la zona un tempo era abitata da famiglie di operai della Fiat» mi dice Diego a un certo punto, indicandomi i palazzi che si susseguono ai margini del grande viale che stiamo percorrendo. «Oggi è diventata una zona residenziale molto ambita, perché abbastanza vicina al centro.»

Io mi guardo intorno e provo a immaginare come doveva essere questa zona nei primi decenni del Novecento, cercando di indovinare quali modifiche abbiano subito i palazzi e le strade con l'evoluzione della città. Uno sforzo immaginativo estremamente complesso, per una che è sempre vissuta ai margini dell'industrializzazione e del progresso.

Continuiamo a camminare tenendoci per mano, ogni tanto Diego rallenta e mi tira leggermente a sé per lasciarmi un piccolo bacio sulla testa, e finisce che ci mettiamo molto più tempo del normale ad arrivare a casa dei suoi genitori.

Quando finalmente si ferma davanti a un complesso residenziale in mattoni rossi con un grande parco davanti, prima di suonare il campanello mi stringe leggermente la mano e mormora: «Sei pronta?»

Io sento un lievo formicolio di preoccupazione, ma annuisco. D'altronde, non ho fatto tutti questi chilometri per tirarmi indietro proprio adesso, no?

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