Capitolo 12

Guardo fuori dal finestrino dell'autobus, fuori pioviggina e questo non aiuta con l'umore tetro. Nonostante la prima sessione sia andata molto bene, il mio spirito è ancora abbattuto dal messaggio di Marco, stanotte non sono riuscita a chiudere occhio e mi sono rigirata le sue parole nella mente in maniera ossessiva, in cerca di una chiave per comprendere cosa pensa davvero di me. Mi ritiene una sciocca, una povera disperata? Vuole vedermi giusto per prendermi in giro?

Quest'ultima non sarebbe proprio nel suo stile, perfino a Capodanno si è comportato da persona elegante e ha finto che il mio spiacevole siparietto fosse solo un brutto effetto dell'alcol. La sua ragazza invece mi lanciava occhiate di fuoco, e pure da ubriaca era difficile non darle ragione.

Gemo e mi accartoccio sul sedile, vorrei diventare così piccola da sparire all'istante. Anche se tra me e loro ci sono chilometri, l'idea che possano rievocare quella scena imbarazzante mi toglie il sonno e la ragione. Per distrarmi indosso le cuffie e metto a tutto volume una canzone dei Faun, poi prendo il Kobo, fedele compagno di letture, e mi concentro sul fantasy che ho scelto per il viaggio. Mi immergo su Roshar cercando di affogare la tristezza nella magia dell'immaginazione, e in parte funziona. Sanderson è uno dei miei autori preferiti e incontrarlo per dirgli che è anche merito suo se la mia trilogia esiste e respira nel mondo è uno dei sogni nel cassetto che prima o poi vorrei realizzare.

Il resto del viaggio in sua compagnia diventa sopportabile, e quando il pullman mi lascia alla solita fermata ho l'umore abbastanza stabile per incontrare e discutere con Diego. Mentre cammino guardo il cielo che qui è più promettente, qualche nuvola offusca ogni tanto il sole ma non sembra voler portare con sé la pioggia. È un'altra cosa alla quale faticherò ad abituarmi, che in queste zone faccia così tante giornate piovose anche in estate.

Suono al portone di casa Vanni e attendo qualche secondo, questa volta per fortuna Diego mi apre con un sorriso, segno che anche il suo umore è migliorato dall'ultima volta che ci siamo visti.

«Ciao, entra» dice, e di nuovo mi precede nel corridoio, un gesto che sto cominciando a considerare familiare. Chiudo la porta e lo raggiungo in salotto, lui mi indica la porta finestra e dice: «Ti va se lavoriamo in giardino? Non c'è troppo caldo e non dovrebbe piovere.»

In effetti c'è la temperatura giusta per starsene al sole, per godersi la serenità e la piacevolezza di una mattina estiva. Il giardino è un piccolo spettacolo che finora ero riuscita solo a scorgere, e che ora mi accoglie in tutto il suo splendore. Vasi colmi di fiori, di piante alte tra le quali spiccano un limone e una camelia, insieme al gelsomino che spandeva quel fantastico profumo già qualche settimana fa. Un muretto basso separa la proprietà da quella accanto, un tavolino con due sedie e un ombrellone riempie quasi tutto lo spazio lasciato libero dalle piante. «È bellissimo» dico con sincerità, poi guardo Diego che esce in balcone con una camicia di lino bianca e accarezzato dal sole e non so dire se il commento si addica più al giardino o a lui.

Sta diventando sempre più difficile non distrarsi mentre lavoriamo. A volte si accorge che lo guardo di sottecchi e sorride leggermente imbarazzato, e sembra ancora più bello quando lo fa. Del rancore per il primo ruvido incontro, del fastidio per la sua poca disponibilità a spostarsi, in questo momento non sembra rimasto quasi nulla. Il che mi urta, perché non trovo corretto che uno se la cavi per la sua maleducazione solo perché è molto bello. Eppure, posso farci poco.

Diego sorride per il mio complimento, si passa la mano sulla barba in un altro gesto che sta diventando sempre più familiare. «Grazie. Mi ci dedico quando ho un po' di tempo, lo trovo molto rilassante.»

Quindi è lui a prendersi cura di tutto questo?

Mi guardo ancora intorno, ammiro il gelsomino che sta cominciando a perdere la sua rigogliosa fioritura, il limone che si alza fiero oltre il muretto, e poi guardo di nuovo Diego e mi chiedo come scortesia e cura possano convivere così strettamente nella stessa persona. Ammesso che la scortesia gli appartenga davvero, e non sia stata solo una veste difensiva che ora, per qualche motivo, ha deciso di non indossare più.

«Prego, siediti» mi dice, indicando il tavolo sul quale ha già pronto il portatile. Io prendo il mio dallo zaino e mi siedo davanti a lui, ancora stordita dalle sue contraddizioni, dal profumo dei fiori, dal tripudio di colori e vita di quel piccolo spazio riparato dal resto del mondo.

«Il profumo del gelsomino è pazzesco» dico, perché in questo momento trovo difficile parlare di qualcos'altro, concentrarmi esclusivamente sul nostro lavoro. E poi, sono curiosa di conoscere questo nuovo aspetto di Diego, scoprire l'animo da amante delle piante che si nasconde sotto quel volto sempre costellato da una leggera barba sfatta, dietro quegli occhi così misteriosi.

«Non è proprio un gelsomino, ma un rincosperma, comunemente noto come falso gelsomino» dice, ma non c'è tono di supponenza nelle sue parole, quanto entusiasmo. Si volta di lato per guardare la pianta che si arrampica sul supporto e corre lungo la parete della casa, sul volto un'espressione fiera e soddisfatta. «Sembra piacergli, questo punto. Cresce bene.»

«Oh wow, sei un botanico?» chiedo stupita.

«No, solo un fisico a cui piacciono le piante» risponde Diego.

Un fisico? Lo guardo con maggiore attenzione, chiedendomi come mai non avessi mai pensato che potesse essere uno scienziato. Forse perché il personaggio di Diane Vane sembra così poco affine al mondo della scienza. Altro pregiudizio che va in fumo, questa volta però lo saluto con una leggera risata.

«Non l'avrei mai detto» dico con sincerità, e anche Diego ridacchia.

«Sì, lo immaginavo, quasi nessuno se lo aspetta.»

«E come mai hai... insomma, da dove è uscita fuori la passione per il romance?» Tentenno un attimo, temendo di fare un enorme gaffe. «Non sembra molto... compatibile con una carriera da fisico.»

Ammettilo Alessandra, non ti sembrano affatto compatibili, stai solo indorando la pillola.

Diego ride ancora, per fortuna prende le mie parole per il verso giusto. «Diciamo che avevo bisogno di un cambiamento drastico» dice soltanto.

«E non ti manca?» chiedo, curiosa. «La fisica, intendo.»

Sul viso di Diego passa un'ombra, non mi viene difficile catalogarla come nostalgia. «Un po'. Ancora studio però, ogni tanto, quando mi viene voglia. È molto meno stressante del doverlo fare perché devi assolutamente pubblicare.»

Annuisco, anche se non so assolutamente nulla di come sia essere un ricercatore e dover rincorrere continuamente una nuova pubblicazione, al di là del poco che mi ha raccontato Silvia. Forse è qualcosa di simile al dover onorare un contratto editoriale, e mi chiedo se Diego abbia lasciato un obbligo per poi finire dentro un altro solo leggermente diverso, e se è per questo che ha opposto tanta resistenza al nostro progetto. Vorrei domandarglielo, ma con la coda dell'occhio scorgo un movimento dietro uno dei grossi vasi e tutta la mia attenzione viene calamitata. «E lui? È il tuo coinquilino?» chiedo indicando il punto in cui una coda pelosa è appena svanita.

Diego segue con lo sguardo la mia mano, si china per individuare l'oggetto del mio interesse, sorride. «Lei, Celeste. È la gatta dei vicini, ma le piace venire a farmi compagnia.»

«La capisco bene» mi sfugge, e Diego mi guarda inarcando appena le sopracciglia. «Be'... questo giardino è così piacevole che immagino possa attrarre anche una gatta» dico, cercando di rimediare alla mia gaffe. Sento le guance scottare sotto lo sguardo incuriosito di Diego.

Lui, per fortuna, evita di soffermarsi. «Cominciamo?» chiede, sollevando lo schermo del portatile. Annuisco e Diego comincia a battere qualcosa sul file condiviso, vedo il testo apparire sul mio schermo ma fatico a concentrarmi, a calarmi nei panni della seria collega di scrittura. Continuo ad adocchiare il suo viso da sopra lo schermo e a chiedermi quando ho iniziato a mettere da parte il nostro brutto inizio e a trovare così piacevole la sua compagnia.

***

Alla fine riusciamo a lavorare sodo due ore di fila, incrociando costruzione del mondo e struttura della trama, portando finalmente a convergere i rispettivi sforzi fatti fin qui. Il pensiero di Marco si è attenuato al punto che posso ignorare che sia mai arrivato il suo messaggio, il che è un bene perché ho di nuovo le energie per concentrarmi unicamente sul nostro lavoro. Ogni tanto Celeste si fa vedere, si struscia sulle gambe di Diego e io un po' invidio quella loro familiarità, ma cerco di non soffermarmi troppo su quel pensiero e di concentrarmi seriamente sul lavoro.

Quando Diego si alza per andare a prendere qualcosa da mangiare e da bere, guardo lo schermo sul quale campeggia il primo vero abbozzo di scaletta funzionante e mi sento terribilmente felice. Adoro questa sensazione, la certezza di avere tra le mani una buona storia, il riuscire a intuirne la forma finale.

Una coda morbida mi accarezza le caviglie, mi abbasso e incrocio gli occhioni di Celeste, capendo subito come mai le hanno dato questo nome. Ha il pelo folto e bianco, gli occhi di un colore simile a quello di Diego che mi squadrano come a chiedersi chi io sia, e come mai sia lì a distrarre il suo amico dal farle le coccole e darle da mangiare.

«Scusami, ma non sei l'unica che apprezza la sua compagnia...» le sussurro, rendendomi conto all'improvviso di quanta verità ci sia in quella manciata di parole. Diego mi piace, e non solo fisicamente. Quando lavoriamo insieme percepisco una sintonia, una sinergia che non pensavo avrei mai provato..

«Hai detto qualcosa?» chiede lui spuntando in giardino e io mi tiro su di scatto, sentendo di nuovo le guance che pizzicano.

«No no, nulla» borbotto, e come a volermi smentire Celeste mi si struscia di nuovo sulla gamba e lancia un "mao" deciso.

Diego la guarda e sorride. «Le piaci» dice, poggiando sul tavolo un vassoio con due bicchieri, del pane tagliato a fette, un coltello e una ciotolina colma di quella che sembra marmellata di fragole. Poi si inchina e mette a terra un'altra ciotola piena di crocchini, sulla quale Celeste si lancia subito.

Si siede e mi avvicina il vassoio. «Prego, serviti pure.»

Guardo il vassoio e non posso che pensare che Diego stia accumulando punti molto rapidamente Non mi faccio certo pregare due volte, anche perché mangiare è un ottimo modo per mascherare i residui di imbarazzo. Acchiappo una fetta di pane e ci spalmo sopra la marmellata, il primo morso è una carezza al palato dolce e deliziosa. «Che buona» mormoro, ancora con la bocca mezza piena.

«È una della specialità della vicina, fa delle conserve fantastiche.»

«La padrona di Celeste?»

Diego ride, scuote la testa. «Non credo che Celeste abbia una padrona, più dei servitori che le danno cibo e coccole.» Si china per dare una grattata alla gatta, che ha spazzolato i crocchini e si è accoccolata sulla pietra calda che regge l'ombrellone; lei sembra gradire e in cambio gli fa le fusa. Gatta fortunata.

«Comunque no, è la signora dell'altra casa.» Diego indica un punto dietro di me. «Lei è il marito vivono a Vinci da sempre, sono simpatici.» Prende anche lui una fetta di pane, ci spalma sopra la marmellata e dà un morso, e non riesco a fare a meno di osservare il rosso che gli tinge le labbra, e il modo in cui sporge appena la lingua per ripulirle.

Sono costretta a scrollarmi e a rimproverarmi per smettere di fissarlo. «Anche noi a Cagliari abbiamo un buon rapporto con i vicini» dico, per cercare di spostare la mia attenzione dalle sue labbra. «Vengo da un quartiere storico che ricorda molto un paese. Tranne per i turisti.»

«Già, i turisti rovinano tutto» annuisce Diego. «Vivere a Pisa dev'essere pesante.»

«Non tanto, anzi. Ci sono molte occasioni per divertirsi, la sera.» Ripenso alla serata di ieri al Goblin, alla gioia che ho percepito in Anna, Giulia, Silvia ed Enrico quando ci siamo salutati, alla loro aspettativa per la prossima sessione e alla mia voglia di scoprire come saranno i loro personaggi in gioco. «Ieri abbiamo giocato la prima sessione di D&D, quella di preparazione dei personaggi. È stato divertente.»

Diego sembra distratto, forse non coglie l'esaltazione che trasuda dalle mie parole. Si china di nuovo ad accarezzare Celeste, si rialza e finisce la sua fetta di pane. Come faccia quest'uomo a scrivere un romantasy e ad essere così estraneo al potere dell'immaginazione per me è un mistero.

Ci riprovo, perché non riesco proprio a mandar giù l'idea che D&D possa essergli del tutto indifferente. «Dovevi vedere i loro volti mentre immaginavano chi sarebbero stati dentro Rüssen! Mi ha dato un'energia pazzesca.»

«Oh, giocate nel nostro mondo?» Finalmente una scintilla di interesse!

«Sì!» dico, entusiasta. «Penso sia il modo migliore per testare l'ambientazione prima di scriverci sopra, per vedere se coinvolge e attrae.»

«Mmm, interessante» dice Diego, e di nuovo si gratta la barba, e io sento qualcosa al centro dello stomaco che saltella. «Potrebbe darci dei buoni spunti.»

Oh, finalmente sta iniziando a capire le potenzialità della campagna. Metto da parte le farfalle e mi calo nel mio ruolo preferito, quello della sponsor delle potenzialità di D&D come supporto alla scrittura. «Ottimi spunti. Pensa solo a quanto può essere interessante osservare dal vivo come reagiscono i giocatori a un risvolto di trama che vogliamo mettere alla prova, come percepiscono quel dettaglio particolare del mondo. Che so... non ti piacerebbe sapere in anticipo se la nostra Processione del Giorno del Ruscello è un evento davvero coinvolgente? O se il sindaco deve chiamarsi Fredegario Sforti o se è poco importante e può tranquillamente rimanere anonimo?»

Ho parlato tanto in fretta che temo di essermi mangiata qualche parola per strada. Mi fa sempre questo effetto, descrivere la mia passione a qualcuno che ancora non la vive: mi viene voglia di infondere ogni energia per convincerlo a provare.

Diego però non sembra particolarmente colpito, o almeno non vedo in lui quella scintilla di riconoscimento che ti fa capire di avere davanti un giocatore in divenire. Peccato, mi sarebbe piaciuto vederlo ruolare al tavolo. «Be', fammi sapere allora come vanno le vostre giocate, sono curioso» dice, ma mi pare più gentilezza che altro.

Eppure ci dev'essere un modo per fargli percepire le potenzialità creatrici del fantasy. Ho come il sentore che finché non respira la giusta atmosfera, non capirà perché l'elemento fantastico piace così tanto, perché l'editore ha insistito per fonderlo a quello romantico.

Mi cade l'occhio sul computer, il salvaschermo è entrato in funzione e segna data e ora: 23 giugno, quasi le undici. Un'illuminazione mi coglie inaspettata. Sblocco il computer e digito in fretta su Google, il risultato mi fa lanciare un gridolino di soddisfazione.

«Cosa ne pensi della Festa dell'Unicorno?» gli chiedo, scrutandolo con esaltazione da sopra lo schermo.

Diego fa una smorfia. «Una gran rottura di scatole. Tendo a non essere a Vinci, quando viene invasa da quella manica di fuori di testa...»

«Ehi!» esclamo, incrociando le braccia e fingendo di mettere il broncio. «Noi nerd non siamo fuori di testa, solo appassionati.»

«Scusami, scusami» dice subito Diego. «Non volevo dire quello. Solo, che non fa tanto per me una cosa del genere, ecco.»

«Come fai a saperlo?» lo sfido. «Ci sei mai stato?»

«No... ma non penso di averne bisogno.»

«E qui ti sbagli!» Torno a sorridere, esaltata. «Non puoi scrivere un romanzo fantasy se prima non hai provato almeno una volta a viverlo, il fantasy.»

«Non credo sia proprio così. Tolkien, ad esempio, non sarà mai andato a una fiera...»

Io sbuffo. «Tolkien è un'eccezione, ci sono sempre le eccezioni. Ma un buon fantasy ha sempre bisogno di stimoli immaginifici e nulla come una fiera - o una campagna di D&D, giusto per dire - può offrirtene abbastanza.»

«Mmm, non sono così sicuro...» comincia Diego, ma io lo interrompo subito. Nessuno spazio per tirarsi indietro, non ora.

«Avanti, prova! Un giorno solo, cosa ti costa? Resta a Vinci per la fiera e vedrai con i tuoi occhi ciò di cui parlo.»

Lo dico con un sacco di energia, e sorprendentemente sembra avere effetto.

Diego esita qualche secondo, poi sospira e finalmente cede. «Va bene, una sola mattina però. Se poi non mi piace - come sono convinto che sarà - faccio i bagagli e lascio il paese.»

«Andata» dico, e gli tendo perfino una mano per suggellare il nostro patto.

Lui tituba qualche secondo e poi la stringe, la sua mano è calda e avvolgente, la sensazione fin troppo piacevole.

«E dove vai quando fuggi dai nerd scalmanati?» chiedo, sfilando la mano e cercando di non pensare a quanto dispiacere mi provoca allontanarla.

«A Torino, a trovare i miei. Ormai è un'abitudine.»

Ah, Diego viene da Torino? Questa non l'avrei mai detta. Ma in effetti, di lui so talmente poco che non dovrei stupirmi di nulla. Sto per chiedergli come mai tra tutti i posti è finito proprio a Vinci, ma lui mi precede e chiede: «Torniamo a lavoro?»

E io sono costretta a dire di sì, anche se la curiosità nei suoi confronti ora è più viva che mai.

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