Capitolo 10
Per il resto della settimana, tra me e Diego si instaura una routine fatta di viaggi a Vinci, messaggi su Telegram e commenti alle rispettive pianificazioni su file condivisi. Non lo facevo un tipo tecnologico, eppure è stato lui a proporre di creare una cartella in cloud e di collaborare agli stessi file, così da sapere sempre cosa l'altro sta ideando. Avevo già sperimentato una cosa del genere con la mia editor, ma con un collega di scrittura è molto diverso. Soprattutto, è diverso farlo con Diego: dove io sono caotica, disordinata e abituata a riempire paginate di stimoli visivi e frasi sparse, lui è preciso e pignolo perfino nei commenti. Ieri, ad esempio, ha risposto a uno dei miei vaneggiamenti sull'ambientazione con un elenco puntato di osservazioni. Chi è che usa gli elenchi puntati nei commenti? Non che le osservazioni fossero assurde, anzi, avevano parecchio senso, ma resta assurdo che fossero inserite in quella forma.
Prendo posto sul treno e tiro fuori il cellulare per rileggere il suo commento, perché quando è arrivato, ieri sera, stavo guardando un film con Silvia e gli ho dedicato poca attenzione. La lista di punti che Diego mi ha lasciato ha lo scopo di suggerire - e che si tratti di un suggerimento è precisato con cura al principio - perché potrebbe non essere una buona idea per la nostra trama inserire certi avanzamenti tecnologici nella nostra ambientazione medievale; Diego cita perfino il mito di Prometeo e le sue declinazioni morali in un'opera di Levi che non conoscevo, a supporto della sua idea che troppa medicina potrebbe renderci la vita difficile in alcuni snodi della storia. Invece che offendermi per la sua ingerenza in un ambito che abbiamo stabilito dovesse essere il mio, mi scopro a sorridere per la cautela che traspare dalle sue parole, e di nuovo mi sorprendo che l'uomo dietro Diane Vane faccia citazioni così colte.
Lo rivedo, mentre mi chiede scusa sulla porta finestra con la bustina di straccetti in mano, e non posso che trovarlo dolce. Mi viene in mente che in casa sua dev'esserci un gatto, anche se non ho visto peli sui divani né ho sentito miagolii, ed è un'altra delle cose che lo riguardano che vorrei approfondire. Ho voglia di conoscerlo meglio, di scoprire che persona si nasconde dietro la ruvidezza dei primi giorni, il che è strano e divertente al contempo.
Lascio vagare lo sguardo fuori dal finestrino, il paesaggio toscano è ammantato da una nebbia opaca che impedisce di godere del rassicurante verde delle colline, e che incide pesantemente sul mio umore. Per fortuna il pensiero di Diego continua ad aleggiare nella mia mente e rende più tollerabile il viaggio, anche se devo ammettere che sta diventando complicato fare così spesso avanti e indietro: l'ora e passa di viaggio mette a dura prova la mia tolleranza dei luoghi chiusi e mi provoca un leggero ma insistente mal di testa che poi mi accompagna per i giorni successivi.
Non sono mai riuscita a risolvere questo problema della claustrofobia, che ormai mi porto dietro da più di quindici anni. Mia madre mi ha trascinata nello studio di diversi psicologi, ma nessuna delle terapie che ho seguito negli anni è riuscita ad alleviare gli effetti di quello che è stato definito un vero e proprio trauma infantile. Solo, a renderne più chiari i contorni e a definire qualche strategia di sopravvivenza: leggere o scrivere durante il viaggio è tra quelle che funzionano meglio.
Quando scendo a Vinci mi trovo a inspirare ed espirare profondamente diverse volte, come mi ha insegnato una delle terapeute più capaci e comprensive che ho conosciuto. Ho ancora un sordo ronzio alla testa e anche qui il paesaggio è soffocato dalla nebbia e non c'è via di fuga per lo sguardo, cosa che non aiuta certo a farlo passare. Raggiungo casa di Diego camminando piano, cercando di scorgere segni di umanità in mezzo al biancore spettrale. Per distrarmi dalla viva e spaventosa sensazione di camminare dentro un sogno, penso a modi carini per dire a Diego che forse dovremmo fare a turno, e ogni tanto dovrebbe essere lui a venire a Pisa, anche solo per una questione di equità.
Suono il campanello sentendo l'ansia montare per una discussione che non so ancora come affrontare. La sua accoglienza è meno sorridente dell'ultima volta, quando apre la porta ha lo sguardo stanco e il volto tirato. «Ciao, entra» mi dice, e invece che aspettarmi come le volte scorse rientra in casa aggiungendo: «chiudi tu, per favore.»
Lo raggiungo in salotto, si è già seduto nella poltrona con il computer sulle ginocchia e ha l'espressione a metà tra il concentrato e lo scoraggiato tipica di chi non riesce a venire a capo di un tormento letterario.
Mi siedo sul divano, in quello che sta rapidamente diventando il mio posto abituale. Dalla porta finestra non si vede più il giardino, è stato anch'esso fagocitato da questa spessa nebbia fastidiosa. Perfino il salotto di Diego oggi sembra piccolo e soffocante, e non c'è nessuna traccia del gatto che mi sarebbe piaciuto conoscere. Cerco di scrollarmi di dosso la sensazione di disagio e chiedo: «Problemi con l'intreccio?»
Diego annuisce ma non mi guarda, digita qualcosa sul computer, la cancella e poi sbuffa. «È da ieri che cerco di definire una scaletta sensata, ma non c'è verso di far tornare le cose» dice.
«Stai già tirando giù la scaletta?» chiedo, sorpresa. Iniziare a delineare una scaletta ora, quando personaggi e ambientazione non sono ancora stati definiti, mi sembra un azzardo perfino per Diane Vane.
Lui continua a fissare lo schermo, le dita battono febbrili sui tasti. «Ci sto provando» dice in tono seccato, e ho la netta sensazione di non essere l'unica a non stare bene stamattina. Lo osservo con più attenzione, cercando di capire cosa possa averlo turbato. Scarto l'ipotesi di essere stata io, ché oltre ad essere un'idea egocentrica, è anche poco plausibile, visto sono qui da meno di cinque minuti. Forse soffre anche lui per la nebbia? Magari è metereopatico.
«Stai bene?» chiedo alla fine, perché non riesco proprio a starmene qui a osservarlo senza fare o dire nulla. Diego finalmente mi guarda, ha due occhiaie che fanno spavento, dentro le quali i suoi occhi azzurri sembrano annegare. «Ma hai dormito stanotte?» mi scappa, e per fortuna lui la prende bene e sorride.
O meglio, ci prova. Le labbra si sollevano ma gli occhi non le seguono, e il risultato è più triste che rassicurante. «Massì» dice, con davvero pochissima convinzione. «Sono solo stato molto preso.»
«Dalla scaletta?»
«Anche.»
Poggia il computer sul tavolo, sfrega le mani sulle ginocchia. «Vuoi qualcosa da bere? Qualcosa da mangiare?» chiede, ed è palese che sta cercando di cambiare argomento.
«Un bicchiere d'acqua va benissimo.»
Annuisce e va in cucina, io resto qualche secondo in attesa e poi non riesco più a trattenermi e ruoto il computer verso di me. Sullo schermo c'è davvero l'abbozzo di una scaletta, un file che Diego non ha ancora condiviso con me. Ma basta un'occhiata rapida per capire che è un palese fallimento. Diego ha provato a immaginare dei possibili punti essenziali della nostra storia, ma senza avere ancora l'intero quadro del mondo la storia è così vaga che potrebbe essere una storia d'amore qualunque. Manca completamente di mordente, di personalità.
«Va schifo, vero?» chiede alle mie spalle, e io per poco non caccio un urlo, perché non mi aspettavo ricomparisse così silenziosamente.
«Scusami, non volevo sbirciare!» mento, ma lui si limita a scrollare la testa e mi porge il bicchiere.
«Non c'è verso di farla tornare» si lamenta. Fa per risedersi ma poi cambia idea, poggia il suo bicchiere sul tavolo e comincia a girottare per il salotto, come un bambino annoiato che non sa come impiegare il suo tempo. «Ho provato a usare la solita struttura, che fin qui si è sempre rivelata buona. Ma per qualche motivo questa volta non va.»
«Che struttura è?»
«Quella di Orgoglio e Pregiudizio.»
Rimango qualche secondo in silenzio, perplessa. «Cosa c'entra Orgoglio e Pregiudizio?» riesco finalmente a dire. «La storia non è mica ambientata nell'Ottocento.»
Diego si ferma e mi guarda, ora siamo in due ad essere perplessi. «No, certo che non è ambientata nell'Ottocento. Infatti sto parlando di struttura narrativa, mica di intreccio.»
«Ah...» Di nuovo mi ammutolisco, uso i secondi di silenzio per cercare di capire cosa intenda Diego. Per quanto io mi sia impegnata sodo e abbia studiato per scrivere la mia trilogia, non sono certo un'esperta di strutture narrative. Ho studiato letteratura, ma mai narratologia e a stento so la differenza tra struttura narrativa, intreccio e trama. La Luna Calante è nata da un sogno, è frutto di un momento di incredibile estro creativo, di serate di gioco intorno al tavolo, di discussioni e compromessi con la mia editor. So che esistono delle strutture cardine intorno alle quali molte delle storie di successo ruotano, ma se dovessi dire quali sono, o quale impernia la mia, non ne sarei in grado.
Però, ragionandoci un po' sopra sono capace di intuire quale possa essere la struttura di Orgoglio e Pregiudizio, e capire perché Diego l'abbia scelta per il nostro romanzo: i protagonisti partono come nemici e alla fine diventano amanti, uno dei cliché più funzionali del romance ma anche del fantasy, soprattutto degli ultimi anni. E visto che siamo davanti a due persone che provengono da razze in guerra, direi che gli assunti possono tornano. Il problema è che Diego ha ipotizzato fatti e avvenimenti che non tornano affatto con il mondo che dovrebbe accoglierli.
«Non sarebbe meglio se l'intreccio lo costruissimo insieme?» suggerisco.
«Avevamo detto che...» comincia Diego, e io mi trovo senza volerlo a interromperlo, quando mi salta alla mente il suo commento sugli avanzamenti medici e su come questi avrebbero potuto rendere più complesso l'intreccio. «Sì, so cosa abbiamo detto. Ma siamo sicuri che possa funzionare?»
«In che senso?»
«Pensaci un attimo: tu stai avendo problemi con l'intreccio, perché non hai ancora un'ambientazione solida sul quale innestarlo. E io mi trovo a pianificare tecnologie senza sapere se potrebbero o no creare problemi alla nostra trama. Non ti sembrano segnali che stiamo andando nella direzione sbagliata?»
«Può essere...» Diego finalmente si siede e intuisco dalla sua espressione che sta valutando seriamente le mie parole. Gli lascio il tempo per pensare e intanto tiro fuori il mio tablet e provo a confrontare la mia pianificazione e il suo intreccio, a mettere insieme i pezzi per vedere cosa ne esce fuori. Potrei farlo dal suo computer, d'altronde gli ho condiviso praticamente tutto il materiale, ma non mi sembra il caso di mettermi a frugare di nuovo senza il suo permesso.
Ci sono alcuni punti in cui la struttura che ha scelto palesamente stona, ma questo non è un problema perché perfino io so che le strutture sono plasmabili, soprattutto quando si ha l'esperienza per modificarle e Diego sembra averla. In molti altri punti però le cose si armonizzano bene, e non riesco a trattenere un gridolino soddisfatto.
«Che c'è, che succede?» chiede Diego, riemergendo dalle sue elucubrazioni.
Con un largo sorriso ruoto verso di lui tablet e computer e gli indico i punti dove i nostri lavori si possono ricongiungere. «Partiamo da qui» dico, sentendo finalmente la malinconia di questa giornata nebbiosa attenuarsi. «Partiamo dalle cose che funzionano, e vediamo dove arriviamo.»
«Perché, tu vedi qualcosa che funziona?»
Lo dice con un tono talmente triste che mi viene un'improvvisa voglia di abbracciarlo. Sarà anche stato ruvido e scortese le prime volte, ma più lo frequento più mi rendo conto che Diego Vanni nasconde in sé un sacco di personalità diverse che ancora non conosco.
«Sì, direi proprio di sì» dico con un largo sorriso. «Proviamo a lavorare insieme, e non in parallelo. Se poi non funziona torniamo all'altro metodo. Che ne dici?»
Diego esita, poi finalmente sorride e anche gli occhi sembrano riecheggiare un pizzico di serenità riconquistata. Ancora poca, ma un passo alla volta. «Va bene, proviamo.»
Quasi mi sento in colpa a lanciare la prossima proposta, ma se c'è una cosa che queste giornate con Diego mi stanno insegnando è che devo cercare di essere il più onesta possibile, altrimenti non andiamo da nessuna parte.
«Ho un'altra richiesta» dico, e la frase mi esce tutta timida e tremolante. Maledizione alla mia incapacità di indisporre le persone. Tiro un bel respiro, prima di sganciare la bomba. «Puoi venire tu a Pisa ogni tanto?»
Il sorriso di Diego svanisce tutto di colpo.
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