VI. Il Bambino non Desiderato
tu insegui un sogno disperato,
questo è il tuo tormento
tu vuoi essere,
non sembrare di essere
ma c'è un abisso tra ciò che sei
per gli altri e ciò che sei per te stesso
e questo ti provoca un senso di vertigine per la paura di essere scoperto
messo a nudo, smascherato
poichè ogni parola è menzogna
ogni sorriso, smorfia
e ogni gesto, falsità
[ body parts ]
•
Eddie Munson, come Morrigan, non era stato accettato da sua madre. Che brutta storia, vero?
Era stato un errore, un lacerante orrore, che non doveva accadere. E se per suo madre era stato un compromesso invadente che poteva scombussolare facilmente la sua vita, per suo padre non era stato così.
Albert Munson non se lo aspettava, molto semplicemente. Era un trentenne, anche se li portava male; le rughe sempre presenti sul viso e le unghie costantemente sporche d'olio per la macchina, dei capelli ricci chiari indomabili e un cuore gentile.
Lavorava da tutta la vita, la scuola non era mai stata idonea per lui, e abitava in una casa piccola insieme a suo fratello: Wayne Munson.
All'inizio di questa storia non esisteva neanche l'idea di Eddie, forse perché entrambi non potevano saperlo.
Forse perché avere un figlio, per una prostituta, era più un male che un bene. Come fai a crescere una creatura così piccola quando non sai mantenere neanche te stessa?
Natalia Serbet non era una sciocca, lo sapeva benissimo, ma quelli erano i rischi del mestiere che delle volte sfiorava.
Albert Munson era stato accecato da quella donna, e aveva pensato che forse andare a letto con una puttana per eliminare i pensieri dalla sua testa non era stata una scelta così male.
Il loro rapporto era intimo, ma intendo oltre il sesso e qualsiasi altra cosa drastica, erano anche amici.
Non si amavano, provavano solo una profonda attrazione, e questo li portava a sfogarsi quando la notte si scagliava su di loro.
Un giorno, però, qualcosa non era andato secondo i piani e lo sbaglio era nato, ed eliminarlo non era più possibile.
Eddie Munson era stato un equivoco dall'inizio, fin dal primo seme. E lo era stato anche per il rapporto dei suoi genitori.
«Non possiamo più vederci, Albert.»
Natalia era seduta sul letto di una camera assai sporca, il motel non era il posto migliore per scopare ma meglio di qualsiasi altro posto. Delle volte si concedeva anche sulla strada, e per lei andava bene così.
I lunghi capelli neri, scuri più della notte e lisci come uno spaghetto, coprivano come un manto la sua schiena nuda. Ma lui, nonostante il panno che aveva, vedeva bene le sue mani occupate a sistemare il ferretto del reggiseno in pizzo trasparente.
Quell'affermazione l'aveva completamente scioccato e destabilizzato, perché non voleva più incontrarlo?
Forse per paura di provare di più della semplice attrazione e dare spazio ai sentimenti?
«Vuoi chiudere?» disse mentre sì alzava con il busto, la coperta era scesa più giù fino a scoprire di poco la sua intimità.
Era estremamente colpito quanto stranito.
«Esattamente, Albert. Ti prego, non chiedermi spiegazioni che non posso darti.» infilò il suo vestitino bianco, anche esso troppo trasparente, e prese tra le mani le sue scarpe con un lieve tacco quadrato. Doveva pensarci prima, perché quello era un guaio tremendo, e forse si stava comportando da villana e da stronza. Ma aveva una fottuta paura di quello che aveva nel ventre che nulla poteva mai fermarla.
Suo figlio.
Poteva avere un figlio, o una figlia, e lei non poteva permetterselo.
Piccolo più di una noce che stava in pace nella sua pancia, ancora troppo ignaro dei problemi del mondo.
Ancora troppo ignaro della vita che gli attendeva li fuori.
«Cosa... cosa intendi? Non vuoi più vedermi?»
Quelle domande erano partite a raffica e velocemente mentre la guardava alzarsi dal letto, bella e terrificante.
Non rispose. Muta. Avanzò soltanto verso il comodino vicino a una parte di letto e vi poggiò sopra un biglietto.
Albert non riusciva a vedere il contenuto all'interno, troppo lontano anche solo per scorgere qualcosa, ma il colorito era di un giallastro troppo consumato e vecchio.
«Quindi è finita?» domandò ancora, senza smettere mai, mentre Natalia raggiungeva la porta cigolante.
I piedi scalzi erano un toccasana per quel pavimento sporco, ma la fanciulla era abituata al peggio e non le importò.
«Non è mai un addio.»
Aprì la porta e, solo allora, Natalia Serbet diventò per lui un'allucinazione. Una parte della sua vita era andata con lei e vi era rimasta. E Dio solo sapeva quanto aveva in petto il desiderio d'incontrarla di nuovo.
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Il bambino non desiderato era nato in un giorno ignoto di settembre del 65 e, solo in quel preciso instante, l'incubo di Natalia Serbet s'era avverato.
Non poteva fare la mamma, e non sapeva farlo, e l'idea di scaricarlo a suo padre era una proposta valida.
Era spregevole e irrazionale, quel bambino non l'aveva fatta neanche lavorare e non poteva perdonarlo.
Era solo uno scricciolo al tempo, i capelli, anche se pochi, avevano un colorito tendente al marrone scuro e gli occhi del medesimo colore. La sua fotocopia.
Natalia Serbet lo guardò molto e il suo cervello ci pensò sopra, non poteva provare affetto per quel bambino. Doveva lasciarlo andare via, perché sapeva che con lei non avrebbe avuto una vita agiata.
Albert Munson mica lo sapeva, mica sapeva che quella donna portava in grembo suo figlio, era troppo impegnato a lavorare che pensare. Ma poi un giorno di metà ottobre, intento a preparare una cena per due, il campanello di casa sua aveva trillato.
Tre squilli. Tre squilli netti e duraturi.
Chi poteva palesarsi alle otto di sera? Con le famiglia impegnate a mangiare e accendere un fuoco per ripararsi dal freddo che stava arrivando.
Poteva fare qualsiasi cosa, quella notte, e lasciare andare il campanello con la paura che forse era solo un brutto scherzo.
In fin dei conti, però, lo era stato.
E anche di cattivo gusto, effettivamente, perché quello era peggio di uno scherzo divertente... era l'inferno. L'inferno che lo stava chiamando e lo stava bruciando con le fiamme rosse e vivide.
Una cesta con all'interno un bambino, coperto fino a sopra il mento. Era tranquillo e dormiva pacificamente, sembrava essere all'oscuro di quello che gli stava succedendo, all'oscuro della sua vita non desiderata.
Albert sì sentì immediatamente male, chi era quel bambino sconosciuto e perché i suoi capelli neri ricordavano lui qualcosa?
Sopra le coperte sì poteva già intravedere un biglietto, giallo e talmente riconoscibile, attento e guardandosi intorno lo prese tra le mani. Il bambino non sembrò scosso dal suo avvicinamento e continuò a dormire, sbuffando e cacciando aria.
Alle prime righe di quella triste lettera, i suoi ricordi arrivarono di botto e all'improvviso. Qualcosa che lui non credeva, eppure la verità era sotto di lui.
Caro Albert Munson.
Recitavano le prime righe.
Devi avere pietà per la mia scrittura tutta trasandata, non scrivo da molto e non sono acculturata.
Sono soltanto una povera prostituta che non riesce a mantenere sé stessa e la sua famiglia, come posso mantenere anche lui?
Nostro figlio.
Ora capisci perché ho voluto chiudere, Albert? Quando il rimorso di avere un figlio era troppo grande per fare qualsiasi cosa?
Non voglio averlo, non posso averlo, e tu puoi crescerlo. È solo un errore, venuto al mondo per sbaglio, ma forse lui una vita migliore la merita.
La scuola, Albert, la scuola è importante. Deve studiare e vivere con il peso della libertà sulle spalle. Me ne pento, così tanto, farei di tutto pur di ritornare indietro e cancellare questo supplizio. I soldi mancano, Albert, e io non credo di arrivare a fine mese.
Curati di lui, devi trattarlo come un figlio degno.
Si chiama Edward, comunque, Edward Munson, ti piace il nome?
Mia sorella ha detto che gli si addice e quello che ho potuto fare era soltanto assecondarla.
Puoi sempre cambiarlo, se vuoi, ormai il figlio è tuo. Spero che tutto possa andare bene tra te e Wayne, sono sicura che lo crescerai sano e forte e specialmente al sicuro.
Cosa che io non posso fare perché il mio mondo è spregevole e soffocante.
La lettera è lunga, forse all'interno troverai anche degli errori grammaticali, ma questo era tutto quello che volevo scriverti.
Buona vita e buona croce, Albert.
E buona vita anche al piccolo Edward.
Natalia.
Abbassò lo sguardo verso quel fagotto dormiente e sospirò, sua madre l'aveva scaricato davanti alla porta e lui fino a due minuti fa non sapeva neanche di avere un figlio.
Eppure, anche se poco affidabile, non poteva lasciarlo lì al freddo.
Quando lo prese in braccio il piccolo Eddie sì svegliò, sbarrò gli occhi e lo guardò con un cipiglio confuso.
Poteva avere un mese al massimo, o forse anche di meno.
Albert non lo sapeva, e sembrava quasi un pazzo a tenere quel bambino tra le braccia davanti all'uscio della porta con il freddo che entrava dentro casa.
Edward Munson era stato da sempre un malinteso e di questo mai si perdonerà.
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Eddie, al tempo ancora Edward, era la copia spiccicata e precisa di sua madre. Sembravano fatti con lo stampino ed era stupefacente.
I capelli neri e gli occhi scuri della stessa profondità, avevano anche molti tratti simili. Da Albert aveva preso solo i capelli ricci e indomabili, ma per il resto non sembrava neanche suo figlio.
Vivevano insieme, ma erano come estranei, non ce l'aveva mai fatta. Albert Munson aveva posato le armi declamando una pausa, perché lui non riusciva per nulla a comportarsi da padre.
Perché forse suo figlio ricordava troppo quella megera strega che lo aveva abbandonato, lasciando a lui il peso di una crescita. E più andava avanti, più diventava sempre più ingestibile da sopportare.
Eddie era curioso, un bambino vivace, che non riusciva mai a stare in silenzio. Per questo tratto gli ricordava molto Wayne, suo fratello. E nonostante fosse un bambino all'epoca le domande riguardo sua madre non tardarono ad arrivare.
«Ritornerà la mamma?»
Wayne Munson sospirò stanco mentre lo rimboccava con il piumone, sempre lui, mai suo fratello. Albert stava dietro la porta ad ascoltare quella conversazione, una birra tra le mani e lo sguardo rivolto verso il pavimento.
Albert non sapeva perché Eddie aprisse sempre quell'argomento, anche perché lui una madre non l'aveva mai conosciuta.
«Non lo so, Eddie.»
Suo zio utilizzava spesso il soprannome, fin da quando era ancora troppo piccolo per camminare, il nome Edward non riusciva a sentirlo.
Il bambino sembrò deluso da quella risposta abituale, ma continuò anche se ormai suo zio stava per chiudere la lampada posta sul comodino.
«Come si chiamava?»
Era una domanda infantile, detta da un bambino di sei anni che non poteva sapere. Wayne allora gli scombinò i ricci lunghi e neri e gli sorrise, sperando di finire al più presto quella conversazione.
Cercò di formulare una frase, ma la presenza di Albert fece irrigidire Eddie sotto il suo tocco. Lo riconosceva subito, dal rumore delle scarpe, dalle ruote della sua macchina che stridevano contro l'asfalto.
Delle volte ne aveva paura.
«Edward! Che fai ancora sveglio?!» quel gesto fece quasi infuriare Wayne che sì alzò completamente girandosi verso di lui.
«Stavamo parlando.» rispose l'uomo più adulto come per parare il culo di Eddie. Perché quel discorso era vietato in quella casa. Natalia Serbet non doveva più esistere, né il suo nome né la sua presenza. Alla fine quella donna aveva davvero lasciato una brutta macchia, e Albert credeva che alla fine sarebbe per sempre rimasta incisa nella sua vecchia memoria
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Indianapolis, 1990
A mattina inoltrata di un giorno qualsiasi di dicembre, con i passanti sul marciapiede che facevano una passeggiata o svolgevano delle commissioni, due ragazzi troppo presi nei loro discorsi avevano dimenticato il tempo.
A loro bastava semplicemente parlare e conoscersi, e non c'era quasi nulla di male.
La mezza cieca emarginata stava avendo una conversazione stabile e divertente con una persona e, addirittura, un ragazzo. Eddie Munson era proprio vicino a lei, una giovane rockstar con l'intenzione di spaccare e conquistare grandi palchi.
Qualcuno che stava cercando di raggiungere un sogno lucido e vivido, ma era anche una persona normale che viveva la sua vita come poteva.
Molto semplicemente stavano scherzando tra di loro, ma poi Morrigan aveva cambiato aspetto. Diventando più pallida di come era prima, sporta in avanti e le narici dilatate. Le mani della ragazza stringevano in maniera più forte e tenace quel bastone vecchio.
Talmente forte che sì sentì la testa mancare sotto i piedi, la nausa che nasceva come una brutta nemica e la faceva sentire male.
Abbassò lo sguardo verso terra, un conato di vomito nella gola, le tempie bruciavano e il respiro mancava. Era successo tutto così all'improvviso, talmente veloce che lei non era preparata.
Eddie sì girò di scatto verso la ragazza, ancora più bianca di prima e più spaventata. Gli occhiali da sole che portava quasi scivolavano dalla presa che teneva dietro le sue orecchie.
«Morrigan?»
Lei alzò una mano come per rassicurarlo e fargli capire che stava apposto ed era tutto okay. Ma Morrigan non stava bene, i suoi capogiri erano sempre più frequenti e delle volte, più di altre, diventavano sempre più difficili da sopportare e lasciar perdere.
Venuta all'improvviso e senza permesso, con le gambe che quasi cedevano e la testa che pulsava, lei non riusciva più a viverlo. Quando il mal di testa superava la ragione e non era capace di fare più nulla, Morrigan cercò di parlare ma a stento riusciva a pensare e quindi cercò di trattenere un lamento.
Passava sempre. Anche ora, ma i primi secondi erano difficili da sopportare.
«Morrigan?» chiese di nuovo, ma questa volta la mano aveva preso posto sulla sua spalla, gentile, e il giramento di testa sembrò calmarsi.
«Va tutto bene, Eddie.» pronunciò delicata, il bastone ancora stretto e il nulla cosmico che le nuotava intorno. Gioiosa com'era provava rabbia per quel attacco, ogni volta che le succedeva qualcosa erano pronti a colpirla.
Quando il suo volto incontrò il suo, Eddie la trovò più triste di prima, non riusciva a decifrare nulla e gli occhiali scuri erano solo uno ostacolo per la sua mente già occupata.
«Cos'era? Intendo questo.»
Stava parlando chiaramente del suo malessere improvviso, ma Morrigan era ancora una ragazza privata e parlò a vanvera
«Solo un lieve capogiro, sopportabile, non preoccuparti.»
Eddie scosse la testa e, anche se non poteva vederlo, Morrigan percepì la sua negazione e la bugia scottante che aveva lanciato.
«Non sembrava così lieve.»
La mano sulla sua spalla aveva aumentato la presa, neppure il giubbino la copriva dal suo tocco forte e sicuro.
Morrigan non sapeva cosa dire, anche perché non era propensa a questi scenari davanti a delle persone quasi sconosciute.
«Ma sto bene, è già passato!» concluse formando un sorriso storto e convincente, la fossetta sul mento spiccava e il ragazzo la trovò adorabile.
Levò poi la mano, portandola lunga contro il fianco, ma i suoi occhi erano ancora puntati sul suo viso e Morrigan non aveva intenzione di abbassarlo.
Sapeva mantenerlo un contatto, anche perché era cieca e quindi non le importava.
«Avrò mai l'onore di vedere il tuo viso per intero?» domandò giocoso e il sorriso di Morrigan sì ingigantì. Ed era strano, perché lei odiava quella domanda o qualsiasi argomento che riportava alla sua vista.
«Mh... no, credo, mi piacciono molto questi occhiali.»
Eddie la guardava divertito e nel mentre incrociava le braccia, la giacca di pelle che sì stringeva con lui.
«Sei spregevole, Morrigan. Te lo hanno mai detto?»
«Nessuno, Eddie, tu sei il primo. Beh, è anche vero che non ho molti amici preferisco stare per fatti miei.»
Morrigan le ricordava molto lui, alla sua età. All'età di Morrigan lui era stato bocciato per la prima volta e lei invece lavorava già. Due teste completamente differenti ma legati.
Sempre.
«Se può consolarti, anche io non amavo stare con gli altri. A scuola mi evitavano e insultavano. Eddie lo strambo, e questo è un epiteto anche troppo gentile.»
Lei scosse la testa, alcune ciocche bianche davanti agli occhiali.
«Per me non sei strambo, Eddie.»
Lo rincuorava e lui non sapeva neanche per quale ragione, perché erano due sconosciuti che stavano parlando dei loro problemi senza pensare alle conseguenze.
«Neanche mi conosci, Morrigan.»
Morrigan spostò lo sguardo puntando l'altro capo della strada, il profilo della ragazza era assai strano quanto affascinante.
«Sbagli, Eddie.»
Questa volta il suo nome pronunciato da lei era più sicuro e forte.
«Ora ti conosco.»
•
Hawkins, 1986
Il caso aveva altri piani per Morrigan, quel giorno, e posso confermare che il caso non sempre era giusto.
Era la fine di maggio dell'86 quando la sua famiglia crollò del tutto, anche se ormai il grande pilastro che li manteneva stava cadendo a piccoli pezzi da quando Morrigan era nata.
Sapeva che a sua madre lei non era mai andata a genio e Anna non faceva altro che confermare la sua ipotesi malata e retrograda, Morrigan non capiva perché. Che cosa aveva fatto di male per meritare tutto l'odio represso da parte di quella donna.
Cambiò tutto quel pomeriggio di maggio, quando sentì in fondo al corridoio delle urla strazianti e durature. Erano sempre più frequenti in quella casa, e lei non si era mai intromessa tra di loro.
Sì chiudeva nella sua camera, seduta sul pavimento freddo, e portava le mani sulle orecchie per non sentire nulla. Quando le urla diventavo più alte e senza nessuna tregua lei cominciava a piangere.
Piangeva così tanto che le mancava il respiro, ma poi i singhiozzi cessavano sempre e tutto sembrava aver preso una linea normale.
Ma quel giorno non era stato così e Morrigan non chiuse la porta. La teneva spalancata, con solo il discorso che stava seguendo e di cui non riusciva a tenere il filo.
Forse sapeva chi era il fulcro dei loro discorsi, ma voleva smettere di pensarci e disattivare il cervello.
Il suo corpo fu scosso da leggeri brividi sulla schiena, tutti insieme e l'ansia cresceva. Era sempre sola in queste situazioni, Oliver era grande e quando lo spettacolo cominciava lui usciva direttamente fuori senza avvisare.
Morrigan non poteva, eppure quella opzione la tentava come un brutto vizio che non puoi sempre soddisfare.
«Io non riesco a starci dietro, Eric! Non posso farlo, lo sai benissimo anche tu.»
La voglia di studiare l'aveva, e anche tanta, ma per lei era sempre stato più difficile capirle le cose. Con più impegno e più tenacia, ci voleva il pugno di ferro che Eric aveva sempre avuto. Anna no, lei era troppo stanca per fare qualsiasi cosa.
«Non puoi farlo! Tu non puoi o semplicemente non vuoi?! Morrigan fa progressi giorno dopo giorno e tu neanche lo sai!»
Anche Eric delle volte rimaneva sconvolto da quei affronti, che sempre portavano a lei. Ma quel giorno Anna aveva utilizzato parole più crude e violente, talmente tanto che anche Eric aveva dato un freno alla sua bocca.
«È malata, Eric! Non sarà mai come gli altri bambini, smettila di sperare in un futuro per lei.»
E sentirlo da una madre, che deve amarti in maniera incondizionata e senza limiti, era anche peggio. Essere odiata senza capire il perché.
E perchè non era arrivata al mondo come gli altri bambini, normale. Assolutamente sana e senza nulla di grave.
Morrigan, come chiunque altro, poteva capirlo. E lo capiva così bene che portava ancora le cicatrici. Una linea dritta che si fermava sul cuore e ogni volta lo distruggeva.
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amici, buonasera.
capitolo di passaggio, ma molto importante. a mano a mano verrà fuori anche il passato di eddie, che viene introdotto in questo capitolo. ma anche un lato che nasconde morrigan.
e nulla, grazie mille per le letture!!
ci vediamo al prossimo capitolo
(devo ancora controllare il capitolo, quindi scusate per gli errori)
mars <3
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