Presente ✸ Capitolo 05
Il viso del ragazzo, dai contorni confusi, sparì non appena aprii gli occhi. Avevo allungato le mani verso di lui, mani che tremavano, nel vano tentativo di afferrargli il mento per studiarlo meglio. Mi ero girata sul lato sinistro e lo sconosciuto aveva fatto un balzo indietro aumentando ancor di più la distanza tra di noi. Lo volevo vicino a me, sentivo il bisogno fisico del calore della sua pelle accanto al mio corpo.
Ma non lo conoscevo, non sapevo chi fosse.
Erano da poco passate le undici di sera quando mi risvegliai dal mio riposo pomeridiano. Il giovane aveva lasciato il posto al lato del letto vuoto e freddo. Mi tirai su con ancora le palpebre pesanti e gli ultimi rimasugli di sonnolenza. Il silenzio della camera venne interrotto d al brontolio della mia pancia ma l'ora di cena era passata da un pezzo e mio padre aveva preferito non svegliarmi.
Consapevole di essere grande abbastanza per prepararmi un uovo in padella da sola, mi alzai dal letto e mi diressi verso la cucina fermandomi, però, ad osservare mio padre che si era addormentato sul divano. Non era affatto strano per me vederlo così, rannicchiato sul sofà a tre posti con un plaid a scaldarlo e il chiacchiericcio della tv a fargli compagnia. Poco prima del divorzio dei miei, quando la situazione era diventata ingestibile perfino per me, mio padre aveva preso il vizio di dormire in salone. Litigavano spesso, a volte anche tutto il giorno e, anche se non lo davano a vedere, sapevo perfettamente che il culmine delle loro discussioni arrivava la sera, quando era il momento di coricarsi nei letti.
Mi avvicinai a lui e lo coprii con un pile marrone, giusto per essere sicura che non sentisse troppo freddo. A guardarlo così, con i pugni chiusi e il braccio sotto la testa, somigliava ad un bambino cresciuto troppo in fretta: il viso da adulto, le rughe attorno agli occhi e sulla fronte, ciuffi di capelli bianchi che avevano sovrastato il rosso della gioventù ma l'espressione di un ragazzino spaventato che finalmente poteva godersi quei pochi momenti di pace.
Mi allontanai da lui domandandomi se, come me, anche i sogni di mio padre somigliassero tanto a dei ricordi confusi.
Nel frigo di mio padre , che non era ben fornito come quello di mamma, trovai il necessario per far tacere il mio stomaco che non aveva smesso un solo momento di brontolare. Mi attaccai allo yogurt bianco e ad una mela verde - di certo non una delle mie preferite - e mi sedetti a sfogliare distrattamente un vecchio quotidiano. Era di cinque giorni prima e i titoli strillavano a grandi lettere che a Roma, in un certo locale del centro, si era consumata l'ennesima tragedia passionale tra due adolescenti innamorati. Mi soffermai sulla foto sbiadita della piazza e qualcosa si accese dentro me: ero stata lì!
Campo de' Fiori, questo il nome del luogo, era stato lo scenario di quella folle impresa d'amore in cui aveva perso la vita una mia coetanea. Rabbrividii al pensiero del suo corpo rovesciato sull'asfalto sotto lo sguardo incredulo dei passanti e di nuovo mi chiesi se davvero volessi andare a vivere proprio lì.
Certo, pensai chiudendo il giornale e concentrandomi solo sulla mela, ma come mi comporterei io in una situazione simile?
Mi diedi della stupida: nessuno aspettava in trepida attesa il mio ritorno nella capitale, tanto meno un giovane innamorato disposto a tutto pur di riconquistarmi. E poi insomma, le tragedie capitavano un po' ovunque quindi perché farmi spaventare proprio ora da una simile notizia?
Sistemai le ultime cose in cucina e tornai in camera da letto per esaminare più attentamente le fotografie. Quella di Campo de' Fiori, scattata a Febbraio, ritraeva un gruppo di ragazzi davanti ad una statua ed uno di loro, presumibilmente un ragazzo, se ne stava sdraiato a terra, quasi come se fosse caduto da pochi istanti.
"Tomei +18 col botto".
Di nuovo quel soprannome.
Da quella distanza non riuscivo a riconoscere nemmeno una sola persona. Perché accidenti scattavo foto del genere? Poi però guardai meglio, avvicinai l'immagine agli occhi e mi riconobbi in mezzo alla folla: c'ero anche io, accanto a questo ragazzo, ed ero china su di lui a ridere. Il giovane aveva il viso rivolto verso di me, la bocca distorta da un sorriso e le braccia allargate in segno di resa.
Era Tomei quello a terra?
Dovevamo essere molto intimi dato che quel nome compariva in più e più foto. Era forse lui il ragazzo a cui si riferiva mio padre?
Gettai le foto sul materasso e le scrutai in silenzio mentre le mani iniziarono a formicolare: avevo bisogno di risposte. Subito.
Sgusciai fino in salone dove mio padre aveva appena cominciato a russare. Spensi la televisione, mi sedetti sul tavolinetto basso di fronte a lui ed allungai una mano per scrollarlo via dal suo sonno.
Ma mi bloccai ad un centimetro dal suo braccio; forse non avevo veramente voglia di sapere.
«Cecilia?» mi chiamò lui, tirando su la schiena per indovinare il mio viso nella penombra.
Mi alzai dal tavolinetto ed indietreggiai silenziosamente, chinando il capo nel tentativo di mandare giù l'enorme groppo che mi serrava la gola.
«Cecilia?» chiamò di nuovo e questa volta la sua voce parve composta, sveglia «Tutto okay?»
Trovai il coraggio di parlare soltanto quando imboccai la porta del corridoio.
«Sì pa', tutto bene, solo un po' di agitazione prima della partenza...»
Quella piccola bugia sembrò convincerlo e calmarlo. Lo sentii sospirare nel buio e girarsi nelle coperte alla ricerca della posizione adatta per riaddormentarsi.
«Sta' tranquilla appapà,* sei coraggiosa, vedrai che andrà tutto bene!»
La sua bugia, invece, mi convinse un po' meno della mia.
L'imponente struttura della stazione di Milano Centrale sembrava scrutarmi già da un centinaio di metri di distanza. Avvertivo i suoi occhi di pietra sul mio viso teso e sentivo la vita al suo interno - i treni che andavano e tornavano, le valige trascinate sull'asfalto - inglobarmi dentro di sé un po' per volta. Entro pochi minuti anche io avrei preso parte di quel piccolo ecosistema a parte fatto di persone di fretta e di viaggi.
Ero stata buona e tranquilla per tutto il tragitto in macchina e la radio aveva piacevolmente coperto il silenzio calato su di me e mio padre. Quando però mi ero accorta di essere quasi arrivata, quando ero certa di dover affrontare il terribile momento "dei saluti", era cominciata la tremarella: era partita dalle gambe, il piede ballerino che non la smetteva di muoversi, fino ad arrivare alle mani con cui torturai instancabilmente i miei capelli.
Papà impiegò più tempo del dovuto per parcheggiare perciò non solo sentivo la paura attanagliarmi lo stomaco ma avevo iniziato ad essere anche in ansia per un possibile ritardo.
E se avessi perso il treno?
Papà tirò il freno a mano alle nove e girò la chiave per spegnere il motore che si addormentò con un borbottio. Ero mezz'ora in anticipo.
«Quindi... Ci siamo» era il peggiore inizio nella storia degli inizi ma non avevo nient'altro di brillante da dire. Percepivo soltanto il terrore di cominciare qualcosa da sola.
«Speravo che arrivasse questo momento» bisbigliò mio padre voltandosi verso di me e inforcando gli occhiali da vista «Ho sempre pensato che tu fossi troppo grande per una vita così piccola. Certo, io e tua madre abbiamo fatto il possibile per far sì che tu crescessi nel migliore dei modi ma...» sospirò «Non è mai stato abbastanza. Sei troppo in gamba per accettare questa vita così com'è, questa vita che anche io ti ho imposto credendo di proteggerti...»
Si bloccò per riprendere fiato e mi afferrò una mano.
«Vai giù e prendi tutto quel che è tuo, non aver paura di ferirti e, soprattutto, non temere la verità. Ritrova te stessa, Cecilia, riscopri chi eri e decidi chi diventare, d'accordo?»
Annuii incapace di aggiungere dell'altro.
«Dai, andiamo, altrimenti farai tardi. Vuoi che ti accompagni al binario?»
«No, no» risposi secca, ma poi aggiunsi «voglio andare da sola, se non ti dispiace...»
Non è che non lo volessi lì con me ma sapevo benissimo che, vederlo lì fermo sulla banchina, mi avrebbe spezzato il cuore e reso ancor più difficile il viaggio.
«D'accordo signorina, almeno lascia che ti prenda la valigia» sbuffò lui in tono affettuoso.
Scese dalla macchina e mi aiutò a tirar fuori il bagaglio dal retro dell'auto. Si infilò le mani in tasca e tirò fuori una busta.
«So che forse non ne avrai bisogno ma qui ci sono un po' di soldi che potrebbero farti comodo»
«Ma... Papà!» tentai di protestare. Da quando avevo preso la decisione di andare a vivere e studiare a Roma, avevo risparmiato rinunciando a cene e sfizi personali, lavorando part-time come baby-sitter per degli amici di famiglia e mettendo da parte qualsiasi cosa, dai due euro per la merenda fino ad arrivare a somme più promiscue ricevute durante le festività pasquali e natalizie.
«Lo so, lo so, hai lavorato sodo eccetera eccetera, ma lascia che ti aiuti. Ti serviranno un po' di soldi per la spesa, no? Almeno finché non troverai lavoro voglio che tu stia tranquilla»
Ci ragionai su e decisi di accettare il suo piccolo aiuto.
«Ah, non dirlo a tua madre, uscirebbe di testa...» ripensai a lei e a quei cinquanta euro gettati distrattamente sul tavolino, quel sostegno completamente disinteressato, e provai un brivido di disgusto.
«No non ti preoccupare, al momento la mia comunicazione con lei è limitata» se non inesistente, avrei voluto aggiungere.
«Apri la busta solo quando sarai arrivata a casa, intesi? Dentro c'è un'altra sorpresa per te che spero apprezzerai. Servirà a farti sentire un po' meno sola...»
«Fammi indovinare: è per caso una registrazione audio della mamma che mi ripete quanto io sia stata incosciente? Quello sì che sarebbe un gran bel regalo!»
Papà ridacchiò e scosse il capo.
«Tua madre non c'entra nulla, è tutta opera mia! E di nuovo non...»
«Dire nulla alla mamma, ricevuto...»
Ci guardammo attorno e notammo un gruppo di studenti in procinto di infilarsi nella stazione. Erano una ventina di ragazzi più piccoli di me con al seguito alcuni genitori che gridavano saluti ed agitavano le mani. Alcuni di loro, soprattutto i ragazzi, si mostravano infastiditi da quei comportamenti così affettuosi e gridavano frasi come: "Tanto ci vediamo tra cinque giorni!".
Mio padre mi abbracciò e mi scoccò un bacio sui capelli.
«Vai adesso, altrimenti rischi di perdere il treno. Chiamami appena arrivi in stazione, capito? Non te lo dimenticare altrimenti vengo giù io per prenderti a calci nel sedere. Non farmi stare in pensiero...»
Alzai gli occhi al cielo e sbuffai.
«Tranquillo pa', non lo dimenticherò»
Mi lasciò andare e mi rifilò un buffetto sul braccio.
«Buon viaggio Cecilia e chiama!» intimò di nuovo alzando di un'ottava la voce.
«Sì, sì, papà» borbottai iniziando a muovere i primi passi verso la stazione, lontana da papà.
Aspettai di sentire il rumore dello sportello prima di voltarmi a guardarlo. Oh Dio, quanto avrei voluto affrontare quel cambiamento con lui: sarebbe stato un modo di ricominciare per entrambi! Via, distanti da Milano, dai problemi, dalla mamma e dal divorzio, nascosti nella periferia romana a costruire una vita insieme, padre e figlia e...
«Papà!» bussai al finestrino prima che partisse. Lui tirò giù il vetro, tirò fuori il braccio e mi lanciò un'occhiata incuriosita.
«Sì?»
«Ti prego, rispondi sinceramente. Quando ero a Roma mi piaceva andare allo stadio? Sì insomma, facevo il tifo per qualcuno, seguivo le partite,...»
Il suo viso si illuminò di una luce nuova, serena. Mi sorrise orgoglioso e annuì con vigore.
«Sì Cecilia, sì. Eri una delle più grandi tifose della Roma, proprio come me!»
Gli sorrisi a mia volta e mi allontanai verso la stazione con il passo più leggero: avevo appena inserito un piccolo pezzo nel grande puzzle scomposto della mia vita precedente
*appapà: qui a Roma, e penso anche da qualche altra parte, i papà (ma anche le mamme) usano chiamare i propri figli "appapà" (e quindi per le mamme è "ammamma"). Dato che il dialogo ed il rapporto tra i due è parecchio intimo ed affettuoso (♥) ho voluto trasmettere questo tipo di sentimento tramite quella specie di soprannome uwu
Angolo autrice: e dopo questa spiegazione un po' inutile - ed anche confusa - posso dire ufficialmente di essere tornata. Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e spero che anche voi, come me, iniziate ad amare un pochino il personaggio di Cecilia. Lo so, ancora non sapete quasi nulla di lei eheh ma già dal prossimo capitolo (volete qualche anticipazione? Ehhhh no!) inizierete decisamente ad inquadrarla un po' di più :3
Ho immaginato il personaggio di Cecilia così
con un viso delicato e quasi da bambina, piccola e fragile.
Tutti gli altri volti li scoprirete soltanto vivendo nananana.
Okay basta, domani si lavora.
Un abbraccio,
aboutjune (o Karma?)
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