7.1 // L'inizio della fine

Edmund si abbassò e sfiorò i fili d’erba che crescevano sul terreno, il palmo e i polpastrelli che passavano leggeri sul velluto verde del prato, proprio al limitare della radura, sul promontorio che dava sul mare. 

Il rumore delle onde copriva ogni altro suono mentre lui si affacciava sulla scogliera di Capo Sud e si sporgeva verso la distesa d’acqua infinita che si estendeva davanti a lui.

Ancora accovacciato a terra, sentì l’energia defluire da lui e scaricarsi nel terreno. L’attimo dopo, sul lato scosceso del promontorio, crebbe dell’edera rampicante che arrivava sino al mare, parecchi metri più in basso, per dare loro un passaggio sicuro sino al punto in cui la parete di roccia si apriva e iniziava la Caverna dei Riflessi. 

Gerta era riuscita a curarlo piuttosto in fretta, dopo che erano scappati alla morte dei loro compagni. La sua magia di Ingar aveva potuto aiutarlo al meglio, e il suo malore era passato quasi subito, permettendo alla sua magia di tornare più forte di prima. La ragazza gli sfiorò la spalla in segno di conforto, abbassandosi accanto a lui. Si era sentita in colpa per averlo attaccato in quel modo, ma lui le aveva ripetuto più volte che nulla di quello che era successo era stata colpa sua. Quell’orrenda figlia di Amma l’aveva costretta ad aggredirlo, lei non aveva fatto altro che piegarsi al suo potere. 

I due osservarono l’edera che si formava lungo la nuda roccia, che scendeva là verso le nere acque del grande oceano. Non appena la pianta rampicante si fu dipanata con successo sino al mare, il ragazzo alzò i suoi occhi grigi sulla compagna. Lei era là, protesa su di lui, come sempre presa da un istinto atroce di proteggerlo, i capelli biondi scossi dal vento là all’orlo del dirupo.

“Sarà meglio andare,” le disse, secco, e Gerta annuì. 

Senza perdere tempo, il druido iniziò a calarsi per la roccia nuda, la pianta che lo sosteneva e che cercava di sorreggerlo, accompagnandolo per la sua discesa. Non guardò giù, era già abbastanza sentire il rumore delle onde fameliche e della schiuma bianca che si abbatteva sulla scogliera. Rivolse il suo sguardo verso l’alto, dove la tunica verde della ragazza ondeggiava scossa dal vento. 

“Ci sei?” gli chiedeva ogni qualche metro, anche lei senza guardare giù, per assicurarsi che il compagno non fosse caduto nelle profondità del mare.

“Ci sono. Tu ci sei?”

“Ci sono anch’io.”

L’odore di salsedine aumentava man mano che procedevano verso il mare, e così il rumore delle acque selvagge che imperversavano al termine del loro cammino. Le dita gli dolevano pur essendo la pianta a fare la maggior parte del lavoro, grattavano sulla roccia e le unghie avevano iniziato a sanguinare. 

La discesa durò diversi minuti, come unico conforto la voce della ragazza sopra di lui che ogni tanto gli parlava e gli chiedeva di confermare la sua presenza là sotto. 

“Ci sono quasi,” disse, quando coi piedi percepì un vuoto là dove ci sarebbe dovuta essere la parete rocciosa, un’apertura sul promontorio che diventava una caverna. 

Si calò per qualche metro con la sola forza delle braccia, per poi lasciarsi andare e atterrare sulla pietra alla base della grotta. “Sono arrivato,” le disse, “ti manca poco.”

La base di roccia arrivava qualche metro sopra il pelo dell’acqua, ma alcune onde riuscivano a superarla rendendola umida e bagnata. Gli arrivavano gli schizzi dal mare, inzaccherandogli la tunica di acqua salata. Si spostò verso l’interno della grotta, per permettere a Gerta di atterrare dov’era arrivato lui.

In breve, con un saltello, la ragazza arrivò sana e salva a destinazione. Era stupenda, coi capelli lunghi e biondi mossi dal vento, gli occhi di un blu scuro quasi nero colmi d’amore e le labbra piegate in un sorriso vittorioso. Ai suoi occhi sembrava una dea. 

“Eccoti qui,” le disse, avanzando verso di lei e sfiorandole il volto. 

Il sorriso della ragazza si allargò e lei si spinse verso il compagno, posando le labbra sulle sue in un bacio casto quanto denso di dolcezza. “Ce l’abbiamo fatta, alla fine. Hai visto? Tu credevi che quelli ci avrebbero superato dopo essersi portati via Daven ed Esyar, invece non c’è traccia di loro. Ci siamo riusciti. Ce l’abbiamo fatta,” ripeté, fiera. “Cancelleremo i loro nomi dal libro. Ingerid dovrà riconoscere che siamo degni di lei. Ci terrà al suo fianco.”

Edmund sentì il petto gonfiarsi di orgoglio a quelle parole. Avrebbe provocato la fine di tutti quelli della sua specie, che non lo avevano mai capito. Di tutti quelli non degni, quelli non baciati dal potere di Ingar. Si sarebbe vendicato di Astrid, che nonostante l’avesse cresciuto aveva sempre preferito quel suo figlio di cui parlava tanto. Si sarebbe vendicato di Hildebrand. Si sarebbe vendicato di quella figlia di Sunnar irritante che gli stava sempre dietro. Si sarebbe vendicato di tutti quelli che lo avevano ingiuriato, offeso, ignorato, umiliato. 

L’unico che non avrebbe potuto fare appassire come un fiore strappato dal terreno era Solomon. La Signora non aveva voluto privarlo dei poteri, non aveva voluto condannare a morte il sangue del suo sangue. Edmund all’inizio era rimasto seccato dalla sua decisione, ma poi aveva capito di aver vinto in ogni caso. Era lui che la Signora aveva voluto accanto, non suo figlio. Era lui che aveva incaricato di cancellare i nomi dal Libro Sacro. Era lui che avrebbe regnato con lei sul Regno degli umani. Non aveva senso essere gelosi, non in quel momento.

E poi Solomon forse non sarebbe morto, ma avrebbe vissuto la morte delle persone che amava, il che per un rammollito come lui poteva essere anche peggio. Sapeva che, quando fosse morto Hildebrand, il suo rivale avrebbe dato di matto. E avrebbe ucciso anche l’umano, sì, la Signora non avrebbe più avuto da ridire su questo. Avrebbe ucciso l’umano o peggio, l’avrebbe asservito, costretto al suo servizio e Solomon sarebbe dovuto restare a guardare mentre il suo animaletto da compagnia faceva tutto ciò che era nel volere di Edmund. 

“Andiamo.” 

La voce di Gerta lo distolse dai suoi pensieri. Annuì. “Sì, sbrighiamoci. Non sappiamo quanto vantaggio abbiamo, potrebbero presentarsi qui in qualsiasi momento.”

Si infilarono nel cunicolo della caverna, procedendo con delle fiammelle che rischiaravano la via. Era riparato dal vento là all’interno, e l’umido gli faceva appiccicare la tunica alla pelle in modo fastidioso. Man mano che si addentravano nella grotta il rumore del mare si allontanava, sostituito da un leggero sciabordio. Il corridoio si strinse sinché non poterono più proseguire uno accanto all’altro ma solo in fila indiana, e poi si aprì in un’enorme grotta in cui le fiammelle da loro evocate si allargarono come piccole galassie. 

Sul fondo della grotta stava uno specchio d’acqua cristallino, che grazie alle fiammelle fluttuanti si rifletteva sul soffitto di roccia in mille rifrazioni diverse, un gioco di luce antico e meraviglioso. 

Edmund sentì Gerta sfiorargli la mano in segno di conforto e lui l’afferrò e la strinse. Con la ragazza accanto a lei poteva fare qualsiasi cosa. Con la ragazza accanto a lei si sentiva al sicuro.

L’acqua della pozza al centro della caverna, un lago sotterraneo illuminato dalle loro luci fluttuanti, si increspò e una creatura emerse in superficie. Una serena, i capelli lunghi e ondulati bagnati sulle spalle, nuda coi seni esposti, dal sorriso malizioso li osservò dal centro del lago.

“Benvenuti, miei cari,” iniziò, poi i suoi occhi si soffermarono su di loro e la malizia nel suo sguardo si spense. “Oh, siete solo voi.”

“Con me non attacca, puoi tornartene da dove sei venuta,” borbottò Edmund, aggirando il lago per arrivare dalla parte opposta della grotta e continuare il suo cammino. 

“Non c’è bisogno di essere così scorbutici,” commentò lei, in tono annoiato.

La superficie dell’acqua si increspò di nuovo e un compagno apparve. Anche lui aveva il petto nudo, e i capelli lunghi che gli arrivavano alle spalle. “Ho sentito del movimento,” disse, guardandosi intorno per trovare i suoi umani.

“Sono solo druidi, torniamo dentro,” disse la prima sirena che era spuntata, tirandolo per il polso.

“Che noia,” rispose lui, “sono mesi che nessuno arriva in esplorazione sin qui. Sono stanco di mangiare pesce tutti i giorni, ho bisogno di un po’ di carne umana.”

“Beh, dovrai aspettare ancora,” borbottò Edmund, sbrigandosi ad arrivare al termine della grotta. “Con noi le vostre malìe non funzionano.”

“Sono così inquietanti…” mormorò Gerta a mezza voce, mentre superavano infine il lago e si infilavano, seguiti dalle fiammelle, in un cunicolo buio. 

Edmund vide con la coda dell’occhio il tritone che gli faceva un gestaccio mentre si allontanava, e alzò gli occhi al cielo.

“Sirene,” disse, sprezzante. “Tutte uguali. Non pensano ad altro…”

Le acque della grotta erano infestate da quelle creature, per ammaliare gli umani che rischiavano di arrivare al Libro Sacro. Solo i druidi avevano il diritto di accedervi, e quei mostri acchiappa uomini erano là per assicurarsi che ciò accadesse.

Non erano le sirene, però, il problema più grande da affrontare. Non erano le sirene che avrebbero dato loro filo da torcere, e sia Edmund che Gerta lo sapevano bene. C’era ancora qualcosa che li attendeva alla guardia del Libro, qualcosa che avrebbe tirato fuori le loro paure più grandi, qualcosa volto a rallentarli e indebolirli, e, perché no, fermarli.

Non ci riuscì. Dopo quella che parve un’eternità, sconvolti ed esausti, si avvicinarono al nascondiglio del Libro, e infine riuscirono a giungere a destinazione, l’ombra di ciò che avevano visto ancora impressa nella mente, che faceva tremare loro le gambe e affannava il loro respiro.

I due avanzarono uniti, mano nella mano, e videro le pareti che iniziavano a presentare delle iscrizioni man mano che passavano, dipinti con le quattro materie simbolo dei quattro dèi.

Ingar, linfa; Tanvar, Cenere; Sunnar, polvere d’oro; Amma, sangue.

Le iscrizioni sacre portavano il simbolo di casa, conoscenza e magia, ancora e ancora, segnate con un dito intinto nelle quattro materie che brillavano alla luce del fuoco.

Il corridoio di roccia si aprì di nuovo, rivelando una caverna più piccola della prima, con un pozzo al centro e un altare in granito su cui sopra era posato l’antico tomo. I due sapevano che non si sarebbe aperto prima del sacrificio, così superarono l’altare consacrato ai quattro dèi minori e arrivarono al pozzo.

Edmund portò su la manica del suo mantello, i volti di Ingerid e di Astrid, di Solomon e di Hildebrand ancora marchiati a fuoco nella sua mente, ma la mano della ragazza lo fermò.

“No,” disse, la voce echeggiò per la caverna, tuonando da un lato all’altro di quello spazio angusto e soffocante. “Lo farò io. Il sacrificio spetta a me.” Gli occhi grigi del compagno si posarono su di lei, apprensivi. I suoi capelli d’oro luccicavano alla luce delle fiamme evocate con la magia, e il suo sguardo insieme a loro. “Tu eri ferito sino a qualche giorno fa, e la prova ti ha distrutto, sei esausto. Ti sei appena ripreso. Non è saggio farti indebolire tanto, non in queste condizioni.”

“Non voglio che ti faccia male.”

“Sapevamo a cosa andavamo incontro. Non mi tirerò indietro adesso, e non intendo assisterti di nuovo. Stavolta spetta a me. Devo essere io, ti prego.”

Edmund resse il suo sguardo. Non voleva che la ragazza si dissanguasse al suo posto, ma aveva ragione. Era ancora debole, ciò che aveva visto nelle grotte l’aveva sconvolto più di quanto avesse fatto con lei, e aveva bisogno di recuperare un po’ di energie. Non era giusto scaricare la responsabilità di sé ferito su di lei, non di nuovo.

“E sia,” disse, in un sospiro. “Ma toglierò solo il tanto necessario.”

Il Libro Sacro, per poterlo aprire, necessitava di un tributo di sangue. Abbastanza sangue da debilitare in modo serio qualcuno, non abbastanza da ucciderlo, un altro modo da indebolire i malintenzionati e renderli inoffensivi, e da accrescere il potere magico del pozzo catalizzatore. 

Gerta si avvicinò al cerchio di pietra, e delle fiammelle tremolanti la seguirono, portandola al suo bordo. Si sollevò la manica e la arrotolò, poi tese il braccio sull’acqua scura.

“Ti amo,” gli disse, per poi passare la sua mano sulla pelle candida del braccio, aprendo un lungo taglio da cui sgorgò copioso il sangue.

Quando le prime due gocce caddero nell’acqua e si mischiarono al pozzo sacro, il Libro si illuminò.

Capo Sud era la città più grande che la compagnia aveva trovato sul suo cammino dopo aver lasciato Beltann, e si stabilirono in una locanda in periferia di modo che, come prima cosa al mattino, potessero partire alla ricerca del Libro, da qualche parte sulla costa.

Everard stava trattando come sempre al bancone per garantire loro una nottata sicura, mentre i druidi erano seduti a un tavolo, attirandosi le occhiatacce sospettose degli avventori. Non si sarebbero mai abituati a essere circondati da tanta gente ostile, che li fissava con tanta diffidenza solo per il fatto che erano diversi. 

“Domani metteremo le mani sul Libro,” commentò Floki, battendo la mano sul tavolo e cercando di ignorare lo sguardo di tutti i presenti sul gruppo di druidi che era con lui. “I figli di Ingar non sono ancora arrivati! Forse davvero li abbiamo spaventati a sufficienza, quando li abbiamo sorpresi l’ultima volta! Forse si stanno ancora riprendendo, abbiamo recuperato terreno!”

“C’è qualcosa di strano in tutto questo. Loro avevano un vantaggio rispetto a noi, noi abbiamo dovuto aspettare perché si riprendesse Solomon ferito,” disse Sigrùn, con una smorfia. “Non ha senso che siamo qui prima di loro. Non ha…” la frase le morì in gola e lei sgranò gli occhi viola, irrigidendosi sulla panca come pietrificata. “Silenzio,” sussurrò.

“Come?” chiese Hildebrand, sporgendosi preoccupato verso di lei. Persino Dameta sembrava impensierita da quel cambio improvviso di umore.

Silenzio,” ripeté, lo sguardo stravolto. “Sento solo silenzio. Non sento… non sento più i pensieri.”

“Che significa?” sussurrò Solomon, sentendo il panico che iniziava a serpeggiargli dentro, stringendogli le viscere come una tenaglia.

“Fate una magia,” sibilò Sigrùn, sporgendosi sul tavolo proprio mentre Everard si avvicinava, dopo aver concluso le trattative con il proprietario della locanda. “Tu,” abbaiò verso Dameta, “annerisci quest’acqua, avanti “

“Non parlarle in quel tono,” sbottò Hildebrand. 

Lei lo ignorò, e tutti gli occhi si spostarono su Dameta. Everard si sedette alla panca libera accanto a lei, di fronte a Floki, e la osservò con aria interrogativa. La ragazza mosse le dita sopra la brocca d’acqua cristallina e Solomon attese il responso col fiato sospeso, sentendo l’angoscia prenderlo con sé. 

Non accadde nulla, l’acqua restò chiara e pura com’era stata un attimo prima. Gli occhi d’oro di Dameta si posarono sconvolti su quelli del compagno, che ricambiava lo sguardo terrorizzato.

“Ci sono riusciti,” disse Floki, a bassa voce. “Ce l’hanno fatta. Abbiamo perso.”

Il cuore di Solomon si fermò. Anche lui guardava Hildebrand in quel momento, gli occhi di ghiaccio e il volto coperto dalle lentiggini. Sembrava un bambino allora, l’espressione sconvolta e smarrita, immobile come congelato. Tempo un giorno e, se non avessero fatto niente per evitarlo, il ragazzo sarebbe morto. Sarebbero morti tutti. 

Si chiese se in cittadella si fossero accorti del calo di magia, ma si rispose che doveva essere così. Le barriere magiche erano crollate, le luci notturne dei figli di Sunnar spente, i figli di Amma non sentivano più i pensieri, nessuno poteva più praticare la magia. Doveva essersi diffuso il panico.

“Congratulazioni, figlio di Ingerid,” sentì Sigrùn chiamarlo, anche con le orecchie che gli ronzavano. “Sei ufficialmente la nostra ultima speranza.”

“Che c’entra Solomon?” chiese Hildebrand. “La sua magia funzionava poco anche prima, ora sarà come quella di tutti gli altri. Non metterlo in mezzo alle tue macchinazioni, per favore.”

Solomon lo guardò, senza sapere cosa dire. Per tutto quel tempo gli aveva nascosto del sogno e di sua madre, gli aveva nascosto che lui sarebbe stato risparmiato. Quello era il momento della verità.

“Avanti,” la voce bassa e calda di Everard riuscì come sempre a confortarlo. “Prova. Puoi farcela, Solomon.”

“Farcela a fare cosa?” chiese Floki. “Di che state parlando?”

Solomon chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. “Mia madre mi ha fatto visita in sogno, durante il viaggio. Mi ha detto che non avrebbe tolto il mio nome dal Libro. Che mi avrebbe risparmiato. Mi ha chiesto di unirmi a lei e lasciarvi, ma io ho rifiutato.”

Al tavolo calò il silenzio, poteva udire il chiacchiericcio degli avventori della locanda, del tutto ignari che un genocidio stava per abbattersi sul Regno, che la loro terra stava per essere conquistata dagli elfi scuri, che i figli di Ingar volevano sottometterli e portarli al loro servizio. 

“Cosa?” Il sussurrò di Hildebrand lo spinse ad aprire gli occhi di nuovo. “Perché… perché non me l’hai detto?”

“Io… non volevo farti del male. Non volevo che pensaste che non mi importava della missione perché non ero coinvolto. E comunque, non ero neanche sicuro che fosse vero. Devo ancora provare. Dopo che l’ho rifiutata potrebbe aver cambiato idea…”

“Tu lo sapevi,” continuò Hildebrand, spostando lo sguardo su Everard. Solomon vide che Dameta gli aveva afferrato il braccio per dargli conforto. “E tu l’avevi capito, ovvio,” disse, rivolto a Sigrùn. “Noi due eravamo gli unici stupidi che non ne sapevano nulla, non è così?”

“Se ti può consolare, neanche io ne avevo idea,” intervenne Floki.

“Hilde, Dameta, scusatemi. Io non volevo ferirvi. Avevo paura che…”

“L’hai fatto per noi, certo,” sibilò, irritato. “Non perché pensi che ce l’avremmo avuta con te.”

“Cosa? No! Non è questo il motivo!”

“E allora qual è? Illuminami, ti prego.”

“Te l’ho detto, non volevo ferirvi. Pensavo che sapere che mamma avesse scelto di rinunciare a voi e non a me avrebbe potuto farvi del male.”

Hildebrand fece una smorfia. “Farmi del male? E a che scopo? Ho sempre saputo che tu eri il suo preferito. Del resto tu sei suoi figlio, noi non siamo niente.”

Solomon fu sul punto di dire che non era vero. Che sua madre aveva voluto loro bene come fossero suoi. Dovette però accettare la verità. Ingerid era disposta a rinunciare a loro per il potere, non li amava come pensava, non più, sempre che mai l’avesse fatto.

“Non mi interessano questi drammi familiari,” sbottò Sigrùn. “Prova a fare una magia, avanti. Se tua madre ha cambiato idea siamo tutti fregati, se ti ha risparmiato abbiamo una speranza.”

“Sono sicuro che non ha cambiato idea. Sono sicuro che ora Solomon farà una magia, e poi ci aiuterà a riprendere il Libro. Giusto, Solomon?” chiese Everard, che in modo del tutto eccezionale lo guardava senza distogliere lo sguardo. Lui prese un profondo respiro e annuì.

Aprì la mano sopra il tavolo e si concentrò. Era sempre stato convinto che sua madre l’avesse amato tanto, ma non ne era più tanto sicuro, non dopo che lui aveva rifiutato per ben due volte la sua proposta di unirsi a lei e di abbandonare i suoi compagni per passare dall’altro lato della barricata. Non avrebbe potuto giurare che la donna l’avrebbe risparmiato, così attese con la stessa curiosità e speranza di tutti gli altri che accadesse qualcosa.

Sentì la sua magia dopo un lungo istante scorrergli dentro, sino a esplodere dalla punta delle sue dita, ancora sconnessa e incontrollabile, e tirò un sospiro di sollievo. Vide che una fiammella attecchiva sopra il tavolo di legno, all’inizio flebile e poco luminosa, e che cresceva diventando sempre più grande. 

“Okay, puoi spegnerla adesso,” disse Floki.

“Non ci riesco,” sussurrò, cercando di concentrarsi nonostante tutti gli occhi puntati su di lui. “Non ci riesco!”

Il suo cuore iniziò a correre, e la fiamma scoppiettò, sempre più grande. Prima che qualcuno degli altri tavoli la vedesse, Everard prese la brocca d’acqua ancora piena e ve la rovesciò sopra, spegnendola in uno sbuffò di fumo. 

L’acqua colò lungo il tavolo e Solomon sentì che gli era scivolata in grembo, bagnandogli la tunica, ma non la asciugò con la magia per paura di fare altri danni. “Scusate,” mormorò, imbarazzato.

“Grandioso,” esclamò Floki, “l’unico druido che può ancora usare la magia ce l’ha difettosa! Siamo in ottime mani!”

“Solomon non ha nulla che non vada. Lui può farcela. Non è vero?” chiese Everard, continuando a guardarlo.

Eppure Solomon sapeva che Floki aveva ragione. La sopravvivenza della sua specie dipendeva da lui e da lui soltanto, e non era in grado di controllare neanche gli incantesimi più semplici. Non sapeva come avrebbe fatto a riprendersi il Libro Sacro, sapeva solo di avere circa ventiquattro ore per metterci le mani sopra e invertire il processo, altrimenti tutti quelli che conosceva si sarebbero consumati come candele di cera accese, sino a svanire. 

Doveva riuscirci. Everard doveva avere ragione, doveva e basta. La vita di troppe persone dipendeva da lui, non poteva permettersi di sbagliare, non quella volta. Eppure, non riusciva a essere speranzoso. Tutto quel peso sulle sue spalle lo schiacciava, le aspettative dei suoi compagni lo comprimevano tanto da frantumargli la cassa toracica. 

Si alzò, facendo strisciare la panca sul pavimento di legno. “Vado a letto,” disse, sentendosi mancare. “Ho bisogno di riposare. Godetevi la cena,” mormorò, e senza aspettare risposta si affrettò ad attraversare da solo la locanda, sotto gli sguardi perplessi e diffidenti degli umani, e infilò le scale in tutta fretta.

La stanza designata che avrebbe diviso con Floki era spoglia ma essenziale ed efficiente. Aveva un candelabro spento, una finestra da cui entrava la luce della luna, due letti ai due lati opposti della stanza e persino uno scrittoio con una seggiola. Si sfilò la tunica e restò nella maglia di lino che portava sotto, per poi spostare le coperte in pelli dal letto sulla destra, addossato al muro, togliersi i sandali e salire sul letto. Sospirò, coprendosi con le pelli e cercando di mettersi comodo.

Il Libro Sacro prevedeva un tributo di sangue, chiunque fosse sceso nella grotta per contraffare il Libro sarebbe stato ancora là dentro, stremato, il giorno successivo. Allora lui avrebbe dovuto affrontarlo, insieme a chiunque fosse stato insieme a lui. 

Si accorse di non avere il minimo sonno, solo di voler stare da solo per un po’, a pensare. Osservò il soffitto con gli occhi spalancati, immobile, provando a rilassarsi senza riuscirci, con i pensieri rivolti al giorno successivo che gli mulinavano in testa senza tregua.

Non passò che un quarto d’ora, durante il quale lui restò immobile steso sul letto, che qualcuno bussò alla porta. A Solomon sembrò strano che Floki fosse già di ritorno in camera e avesse finito di mangiare e bere con gli altri, di parlare delle ultime novità e accettare il fatto che in tutta probabilità in un giorno sarebbe morto. Sperò che non fosse venuto sin lassù per parlargli, perché non ne aveva nessuna voglia.

“Avanti,” disse, con un filo di voce, e la porta si aprì.

Non fu Floki quello che si affacciò alla porta della loro stanza ma Hildebrand, il suo viso costellato di lentiggini e gli occhi azzurri e penetranti puntati su di lui. Solomon sapeva che era arrabbiato per lui per avergli nascosto di sua madre, eppure lo guardò e gli chiese, titubante, “posso?”

Lui annuì, e il druido entrò nella stanza, aveva un piatto di zuppa di cipolle tra le mani. “Ti ho portato da mangiare. Domani dovrai usare la magia, hai bisogno di mettere qualcosa sullo stomaco.”

“Non ho fame.”

“Beh, mangerai comunque. Ci servi in forze, altrimenti…” non terminò la frase, ma si avvicinò ancora. Posò il piatto sullo scrittoio e si sedette alla sediola, Solomon si alzò a sedere sul letto e si forzò a guardarlo.

“Hai ragione, devo mettere qualcosa sotto i denti,” ammise. “Dammi, avanti.”

Lui gli porse la scodella in legno col cucchiaio al suo interno. “Tieni, è buona. Ti piacerà. Non è come il salmone arrosto di tua madre, ma andrà benissimo.”

“Quanto vorrei del salmone arrosto in questo momento,” sospirò, portando una cucchiaiata alla bocca. Hildebrand aveva ragione, la zuppa era saporita, e la cipolla delicata. 

“Ti ricordi quando ci ha fatto crescere i pomodori con la magia perché volevamo provare a fare la pizza? Qui non crescono, e lei era contraria a portare una specie alloctona con un incantesimo, ma alla fine ci tenevamo tanto e ha ceduto!”

“È stato quando, due anni fa? Ed è uscita una vera schifezza!” esclamò, prendendo un altro boccone.

“Sì, non avevamo neanche il forno, l’abbiamo cotta sul fuoco. E abbiamo usato il formaggio di capra anziché la mozzarella, perché qui nemmeno la fanno. E l’impasto non aveva lievitato bene…”

“Davvero, era immangiabile. Però ci siamo divertiti. Abbiamo continuato a trovare farina tra i vestiti per settimane…”

“Secondo te perché mi vuole morto?”

Quella domanda improvvisa lo spinse ad alzare gli occhi dalla sua zuppa. “Oh, Hilde…”

“Dico sul serio. Mia madre preferirebbe che io non fossi mai nato, e la tua mi vuole morto. Cosa pensi che ci sia che non va in me?”

“Non c’è niente che non va in te. C’è  qualcosa che non va in loro.”

“Però è una coincidenza curiosa, non ti pare? Tutti quelli che si prendono cura di me preferiscono che io non esista. Due casi su due.”

“Visto? È per questo che non te l’ho detto. Non volevo che pensassi queste cose, che ti sentissi in questo modo.”

Hildebrand alzò le spalle. “Prima o poi sarei dovuto venire a saperlo comunque.”

“Hai ragione. Scusami.”

“Tanto sarò morto entro domani, non ha più importanza, giusto?”

“Neanche tu credi che ce la farò,” disse Solomon, piano.

“Se c’è qualcuno che può farcela sei tu. O saresti tu, comunque. Ma la tua magia fa le bizze, e non sappiamo loro quanti saranno, o se ci sarà Ingerid, o quanto sarà danneggiato il Libro. Sono realista.”

“Rimetterò i vostri nomi sul Libro,” gli disse. “O morirò nel tentativo. Farò di tutto per riuscirci, te lo giuro su tutti gli dèi. Domani all’alba partirò.”

“Noi saremo con te. Non ti lasciamo da solo.”

“No, non avete magia. È troppo pericoloso. Devo andare solo, voi non potreste fare niente in ogni caso.”

“Gli umani non avevano la magia e hanno raso al suolo la città degli elfi. Qualcosa si potrà pur fare.”

“È diverso, loro sono abituati a non avere la magia. Voi senza non servite a niente, senza offesa. Pensa anche a Dameta, la metteresti a rischio…”

“Credi che non ci abbia pensato? Credi che sapere che sarà lei a morire non sia la cosa che mi fa più male?” chiese, alzando la voce. “È anche per lei che è meglio che ci siamo tutti. Ti servirà tutto l’aiuto possibile. Noi ci saremo.”

“Non posso permettere che vi facciano del male. Non posso permettere… che ti facciano del male. Lo sai.”

“So badare a me stesso.”

“Non ora. Non così.”

“Neanche io voglio che ti succeda qualcosa.”

“Io starò bene.” Solomon gli allungò il piatto ormai vuoto e lui lo posò sullo scrittoio. “Siete voi la priorità, adesso.”

“Ho paura,” sussurrò. “Sono terrorizzato.”

In quel momento sembrava un bambino impaurito, e il cuore di Solomon si strinse nel petto. Non avrebbe permesso che gli capitasse qualcosa, avrebbe fatto di tutto per evitarlo. Se lo immaginò spegnersi in modo tiepido e graduale, perdere le forze e poi la vita in silenzio, senza clamore, insieme a tutti quelli della sua specie. Se lo immaginò abbandonato al letto, la pelle pallida sempre più chiara, gli occhi limpidi senza vita. Morto, andato per sempre. 

Non poteva permetterlo. Avrebbe dato la vita perché non accadesse.

“Ibis redibis non morieris in bello,” sussurrò Hildebrand, piano.

Solomon si alzò in piedi nell’attimo in cui lo fece anche lui, e l’istante dopo lo teneva tremante tra le braccia. Lo strinse tanto forte da mozzargli il fiato nei polmoni, e iniziò ad accarezzargli la schiena per dargli conforto. “Farò di tutto perché non ti succeda nulla. Perché non succeda nulla a Dameta, a tua madre, a nessuno di loro. Te lo giuro.” Lo sentì annuire, il volto nascosto nella curva della sua spalla. “Rimetterò i vostri nomi su quel Libro. Io ce la farò.”

Note autrice
Edmund e Gerta sono arrivati al Libro Sacro, e i druidi hanno perso i poteri. Il capitolo non ha mostrato cosa hanno dovuto affrontare nelle grotte, perché sarà una sorpresa per l’ultimo capitolo. Intanto, grazie al loro arrivo al Libro, Solomon rappresenta l’ultima speranza per la sua specie, l’unico ancora dotato di magia – per quanto difettosa – e l’unico certo che non morirà. Riuscirà da solo a riprendersi il Libro e rimettere tutto a posto coi suoi poteri difettosi?
Non vi resta che leggere per scoprirlo!

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