6.1 // Legami
Clarice era per strada, in quel piccolo angolino sicuro in cui si era sempre rifugiata coi suoi compagni, dove dormivano per terra tutti appiccicati e scappavano dalle guardie seminandole per i viottoli della città.
In quel momento George e Dott erano seduti per terra su un giaciglio di vecchi stracci a sistemare le trappole per topi, Everard e Frederick erano in giro a rubare, e infine Clarice e Sigga erano sdraiate in un angolo, le gambe intrecciate e i volti a pochi centimetri di distanza.
Sigga aveva un braccio intorno al fianco di Clarice, mentre Clarice teneva una mano sulla sua, e stavano là accoccolate e in pace a parlottare tra loro e ridacchiare. Era tutto così domestico, spontaneo e naturale che il cuore di Clarice venuta dal futuro si strinse a vederlo.
“Un giorno andremo via da qui,” disse Sigga, accoccolata contro di lei, accarezzandole il fianco. “Saliremo su una carrozza trainata da dei grandi cavalli e andremo via, verso il mare. Il mondo sarà nostro.”
“Tu sogni,” rispose Clarice, con un sorriso incredulo. “Questa cosa non accadrà mai.”
“Invece sì. Ti porterò via da qui, da tutto questo. Ce ne andremo in un posto dove ci rispetteranno, vivremo tante avventure fantastiche e potremo vestirci come vogliamo e andare dove vogliamo e non dovremo preoccuparci di mangiare.”
“E come intendi portare avanti questo grande piano, sentiamo?”
Sigga sorrise imbarazzata. Era bella da far male, le labbra piene tanto invitanti, quella pelle bronzea che amava toccare, i lunghi capelli lasciati liberi a incorniciarle il viso, e poi gli occhi. Occhi grandi, scuri, innamorati del mondo. Occhi infuocati impossibili da arrestare. “Sto limando i dettagli,” disse, lottando per non scoppiare a ridere.
“Stai limando i dettagli, eh?” chiese Clarice, tirandola più a sé. “Allora dev'essere quasi cosa fatta!”
“Diciamo che ho fatto il possibile...”
Clarice avvicinò il volto e le stampò un bacio sullo zigomo, proprio sotto l'occhio destro. Il sorriso di Sigga si allargò e anche lei le baciò il volto, come erano abituate a fare quando vivevano per strada e anche dopo, dopo tutta la storia dei druidi e salvare il Regno.
Solo negli ultimi tempi, dopo il risentimento di Sigga, quelle effusioni erano sparite. Perché la sua amica era arrabbiata con lei, si sentiva ferita e tradita da quello che Clarice aveva fatto, e non si sentiva più a suo agio con lei in quel modo.
La Clarice del futuro si avvicinò ancora alle due ragazze sul giaciglio di foglie secche. Mancavano solo due stagioni al momento in cui Everard e Sigga si sarebbero trasferiti via dalla strada, al momento della grande rivelazione di Clarice in cui si sarebbe resa conto di essere innamorata.
In quel momento la loro era solo un'amicizia pura, genuina, due cuori affini che riescono a trovarsi e votano la vita al sostenersi a vicenda e passare del tempo insieme. Clarice non aveva più avuto nulla del genere nella sua vita, neanche con Frederick, con cui aveva vissuto in simbiosi e condiviso tutto. L'unica per cui aveva provato quell'affetto incondizionato e costante era stata lei, Sigga.
D'un tratto Sigga urlò, tra le risate, perché Clarice aveva iniziato a farle il solletico. Clarice le salì sopra a cavalcioni e continuò a torturarla, e la ragazza si dimenò sotto di lei pregandole di fermarsi. Allora lei obbedì e la guardò, sotto di lei, sorridente e ansimante, la guardò con occhi tali che resero tanto chiaro alla sua versione futura che lei già l'amava, solo che non lo sapeva ancora. Sigga si sollevò e iniziò a baciarle il volto, le guance, la linea della mascella, le palpebre, la fronte, il naso. Clarice sapeva che in quel momento, il cuore della sua versione passata scoppiava di gioia.
Era vestita di stracci, sulla strada in cui viveva, senza niente da mangiare o un tetto sotto cui dormire. Non aveva niente, neanche la prospettiva di un futuro, eppure in quel momento si sentiva ricca, ricchissima, in cima al mondo. L'affetto della persona sotto di lei le bastava.
Vide l'accecante bagliore di un lampo e la Clarice del futuro sobbalzò. Dopo qualche attimo, la terra tremò e arrivò il rumore del tuono. Clarice si irrigidì, spaventata, ma nessuno dei presenti parve accorgersi di nulla.
“Clarice,” la chiamò il rombo del tuono. “Clarice, figlia mia, hai infranto il tuo giuramento.”
L'attimo seguente non si trovava più nel vicolo scombinato dove aveva vissuto con la banda. Era nella foresta, al buio, ma sapeva cosa stava accadendo e non aveva paura. L'unica cosa che sentiva dentro era la bruciante sensazione di ciò che aveva perso, e ne voleva ancora.
“Sì mia signora,” mormorò, facendo in inchino. “Ho infranto il mio giuramento. L'ho fatto perché ero convinta di stare per morire, l'ho fatto per amore. Mi dispiace averti offesa, ma non potevo che agire nel modo in cui ho agito.”
“Non mi hai offesa, bambina. Apprezzo sempre un buon vecchio sacrificio per amore. Sai, ogni sacrificio per amore è un sacrificio in mio nome,” tuonò il cielo. “Ma vedi, i tuoi amici intendono salvarti. Intendono andare contro il voto che hai fatto a me, e per fare questo c'è bisogno di un sacrificio ancora più grande. Una vita per una vita.”
“Dimmi cosa devo fare. Dimmi cosa devo fare per salvarmi, e allora Sigga non mi odierà. Lei mi perdonerà forse, tornerà tutto come prima. Avrò più tempo. Dimmelo, ti prego.”
“Come ho detto, bambina, la questione è semplice. Puoi scegliere, se vuoi e lo desideri più di ogni altra cosa avrai salva la vita. Però dovrai pagare un prezzo.”
“Lo farò. Farò qualunque cosa. Io .. non voglio morire.”
“Se accetterai, se sceglierai di vivere, sarà lei a morire, quando verrà il momento. Prenderà il tuo posto e morirà. La persona che tu più ami.”
Clarice alzò la testa e guardò verso il cielo, sconvolta. Non poteva vedere la dea, nessun mortale poteva farlo, eppure desiderò vederla per osservarle il volto, capire se era seria o se stava solo scherzando.
“No,” rispose in un sussurro. “Non può essere vero. Non puoi chiedermi davvero di farlo.”
“Non c'è altra via. Una vita per una vita, questo è l'unico modo.”
Fu in quel momento che Clarice tentennò. Lei non voleva morire, voleva vivere. E cosa doveva a Sigga, che non l'aveva mai voluta, non come Clarice voleva lei? Niente, non le doveva niente. Nessuno l'avrebbe biasimata se avesse accettato l'offerta della dea. Nessuno. Perché sarebbe dovuta morire per qualcuno che era risentito con lei, per qualcuno che qualcuno che non l'aveva mai guardata davvero? Che non aveva mai ricambiato il suo amore?
Se lei fosse sopravvissuta, allora Sigga sarebbe morta. Lei ci sarebbe stata male all'inizio, si sarebbe sentita in colpa, ma poi l'avrebbe superata, sì. Perché avrebbe capito che quello che aveva perso non era davvero fondamentale per lei.
Eppure...
Eppure Sigga era una parte di lei. La sua amica più cara, un pezzo di cuore. Sigga era spigliata, intelligente, coraggiosa, buona. Non meritava di morire. La sua morte le avrebbe spezzato il cuore. Perché l'amava, con ogni fibra del suo essere, e perché le voleva bene. Non poteva permettere che morisse, per salvarsi per giunta. Sigga aveva ambizioni, aveva sogni, che avrebbe portato a termine. Avrebbe viaggiato, sarebbe andata al di là del mare. Non poteva toglierle questo.
Era Sigga, la persona più vitale che conosceva, una bomba di energia, una gioia prorompente. Non poteva morire.
“Rifiuto le tue condizioni,” disse, col cuore in gola. “Non posso accettare, non posso.”
“Ne sei certa, bambina? Se davvero rifiuti, nel giro di qualche settimana morirai.”
“Ne sono certa. Rifiuto le tue condizioni. Questa è la mia ultima parola.”
“E sia,” rispose il frusciare del vento, poi tutto scivolò nel buio.
L'elfo era alto e imponente, dagli arti sottili come giunchi e il ventre piatto da cui si intravedevano le costole. Aveva l'inguine coperto da stracci, i capelli dritti che gli ricadevano sulle spalle e la pelle tra il nero pece e il verdastro del muschio. Il bulbo oculare era una grande pupilla, nero in ogni sua parte, e lo fissava.
Everard era in pace col mondo a guardarlo, sereno, come se tutto fosse come avrebbe dovuto essere. Quella creatura era per lui la più bella che avesse mai graziato il mondo della sua presenza, e si sentiva onorato di stare al suo cospetto.
L'elfo aprì la bocca e gli disse qualcosa nella sua lingua, che Everard non conosceva, eppure lo capì. La sua voce arrivò musicale alle orecchie dell'umano, il suono più dolce che avesse mai udito, che diceva Portati il pugnale alla gola e recidila in un colpo solo. Ucciditi con le tue mani, un taglio da parte a parte.
Everard avrebbe fatto qualunque cosa per accontentarlo, così obbedì. Strinse il pugnale con mano ferma e se lo portò alla gola, la lama gelida a contatto con la sua pelle.
Fallo.
Il ragazzo strinse la presa, ma un attimo prima che potesse esaudire quella richiesta udì un urlo, e la creatura distolse lo sguardo. L'incantesimo si spezzò e lui gemette d'orrore, lasciandosi sfuggire il pugnale che cadde sul prato con un rumore attutito dall'erba del bosco. Una lingua di fuoco si interpose tra lui e la bestia, che urlò e iniziò a correre nella direzione opposta.
“Fermatelo!” il grido di Sigrùn scosse la quiete della foresta. “Gli stavo leggendo nella mente, fermatelo!”
Una seconda fiammata, opera di Hildebrand - Solomon non avrebbe mai potuto controllarla ormai, non in modo tanto preciso - lo chiuse in un cerchio di fuoco. L'elfo lanciò un urlo stridulo, imprigionato tra le fiamme, schiumante di rabbia.
I druidi si avvicinarono di corsa, Everard si voltò a guardarli. “Grazie,” mormorò, rivolto verso Hildebrand.
“Sei davvero un umano inutile,” borbottò lui, scontroso. Everard gli sorrise.
Dameta era con lui, gli occhi dorati colmi di preoccupazione, lo sfiorò come per assicurarsi che stesse bene. Poi si avvicinarono Floki e Sigrùn, che non lo degnarono di uno sguardo. Gli occhi della figlia di Amma concentrati oltre la linea di fuoco, sulla creatura urlante, quelli di Floki sulla ragazza, cercando di capire cosa stesse leggendo nella mente dell'elfo.
L'ultimo ad arrivare, camminando a fatica, fu Solomon. Era ancora debole e pallido, aveva la febbre e la nausea, e non era più riuscito a fare magie. Eppure aveva mantenuto la sua promessa, era riuscito a camminare quel giorno, e ora, sopraggiunta la notte, si era rimesso in viaggio insieme a loro.
Fu accanto a lui più in fretta di quanto Everard si sarebbe aspettato. “Stai bene?” gli chiese a bassa voce, quasi un sussurro.
“Sì.”
Dopo il confronto che avevano avuto nella sua camera, la situazione tra loro si era un po' ammorbidita. Non avevano ricominciato a parlare come prima, ma avevano smesso di evitarsi e di distogliere ogni volta lo sguardo.
Solomon annuì, abbassando la testa e sospirando dal sollievo. Everard raccolse il pugnale dall'erba del prato, le grida dell'elfo impaurito che continuavano a fendere l'aria.
“Puoi lasciarlo andare,” disse Sigrùn, dopo aver frugato nella sua mente per qualche minuto. “So quello che volevo sapere.”
“Sarà saggio, liberarlo?” chiese Floki, gli occhi puntati sulla bestia oltre la linea di fuoco. “Potrebbe fare del serio male a qualcuno.”
“È la vita,” rispose lei, alzando le spalle. “Se ucciderà qualche umano sarà perché gli dèi hanno voluto così. Non sta a noi spezzare il ciclo.”
“Questa storia non mi piace,” disse Everard.
“Non ci sta attaccando,” rispose Floki. “Non possiamo ucciderlo, non sarebbe per difenderci, ma per attaccare. Noi druidi non creiamo conflitti, usiamo la magia per proteggerci, non per fare del male.”
“Come no,” sbottò Everard. “Ho notato, infatti. I figli di Ingar ne sono un grande esempio.”
“Non lo uccideremo,” disse Sigrùn, in una voce che non ammetteva repliche.
Everard sapeva che, se la ragazza avesse voluto, avrebbe potuto convincerlo che liberarlo era la scelta migliore. Non l'aveva fatto, e lui gliene fu grato, anche se continuava a non approvare le sue parole.
Una parte del cerchio di fuoco evocato da Hildebrand svanì, e l'elfo corse via nel fitto della foresta, là dov'era più buio. Everard lo guardò svanire, col cuore pesante, pensando che quello rappresentava un concreto pericolo per gli umani, la sua gente, che forse altre persone sarebbero morte a causa sua, perché loro non avevano avuto il cuore di fermarlo.
Sigrùn lo guardò, sapeva cosa stava pensando, ma non disse nulla. Non lo prese in giro per il suo pensiero, ma neanche si scusò.
“Allora?” chiese, dopo essersi schiarito la voce. “Cosa hai scoperto?”
Solomon, ancora debole, si appoggiò a Hildebrand scaricandovi sopra il suo peso. Il druido lo sorresse, aiutato da Dameta, e gli altri si misero ad ascoltare.
“Gli elfi si stanno muovendo verso le principali città del Regno. A breve attaccheranno. È questo il patto. I figli di Ingar liberano il mondo dalla magia, sterminando i druidi, e in cambio loro li liberano dall'egemonia umana.”
“Le principali città del Regno? Anche la capitale?”
“Soprattutto la capitale,” rispose Sigrùn. “Il maggior contingente di forza elfica si sta recando proprio là, passando per dove la foresta può schermarli dai raggi del sole. Attaccheranno di notte.”
Il cuore di Everard si fermò. Aveva lasciato Sigga, Frederick e Clarice diretti a Bürgann perché convinto che là sarebbero stati al sicuro, credendo che fossero i druidi ad avere bisogno di protezione. Invece, era venuto fuori che Frederick aveva ragione. Aveva abbandonato la sua famiglia e l'aveva lasciata nel momento del bisogno, in pericolo. Doveva tornare subito.
“Torno a casa,” disse infatti, non appena digerì quell'informazione e si sedimentò in lui. “Non posso più proseguire con voi. Hanno bisogno di me.”
“Non puoi lasciarci proprio adesso!” esclamò Floki. “Ci servi come lasciapassare nel mondo degli umani. Avremmo troppi problemi senza di te, non arriveremmo mai in tempo!”
“La mia famiglia ha bisogno di me. Non posso starmene qui a portarvi in gita mentre loro aspettano un attacco elfico. Non posso.”
“Non arriveresti mai in tempo senza di noi,” commentò laconico Hildebrand. “Ti ci vorrebbero mesi per arrivare a Bürgann a piedi, e settimane a cavallo, che tu comunque non sai cavalcare. E nessuno di noi ti accompagnerà.”
“Devo provarci! Sigga, Freddie, loro... non posso abbandonarli, devo tornare da loro. In qualche modo farò.”
“È impossibile.”
“L'impossibile non mi ha mai fermato, prima.”
“Resta,” disse Solomon, sorprendendo gli altri, “puoi aiutarli di più restando con noi. Se arriveremo in tempo, se faremo prima di Edmund e troveremo il libro, il patto sarà rotto. Torneranno nelle loro caverne, come hanno sempre fatto. Stare con noi è il tuo unico modo per salvarli.”
“Lo stai dicendo per farmi restare. Perché tu vuoi salvarti e salvare il tuo popolo, come io il mio.”
“È vero,” rispose il druido, a mezza voce. “È per questo che lo dico e che spero tu mi ascolterai. Ma ho ragione. Accompagnarci e aiutarci ad arrivare al Libro Sacro è l'unico modo che hai per tenere quelli che ami al sicuro.”
Everard lo guardò allora. Era tanto piccolo, ferito, debole, e ormai aveva perso quasi del tutto la sua magia. Non era mai stato tanto vulnerabile come in quel momento. Il suo istinto protettivo gli ruggì nel petto, come sempre. Se non li avesse aiutati, se non fossero arrivati a Capo Sud in tempo, Solomon sarebbe morto e con lui tutti quelli della sua specie.
Come poteva voltargli le spalle per raggiungere delle persone che non avrebbe potuto aiutare comunque, che avrebbe trovato troppo tardi? Sarebbe stato inutile, e lui avrebbe perso su entrambi i fronti in un colpo solo.
La verità era che Solomon aveva ragione, come sempre. L'unico modo che aveva di aiutare Sigga, Frederick e Clarice era stringere i denti e andare avanti, giungere a Capo Sud prima di Edmund e dei figli di Ingar, soffiare loro il Libro da sotto il naso e portarlo ad Astrid perché lo proteggesse a dovere.
Poi sarebbe tornato e si sarebbe scusato. Avrebbe detto a Frederick che aveva sempre avuto ragione, gli avrebbe chiesto di perdonarlo, e se lui non l'avesse fatto, avrebbe saputo di essere lo meritato.
“E sia,” rispose. “Verrò con voi. Ma vediamo di sbrigarci, e che ne valga la pena.”
Quando Sigga si ritrovò nel bosco insieme ai suoi compagni, rispedita indietro dall'oracolo come la prima volta, si accorse subito che qualcosa non aveva funzionato. Aveva stretto un patto con la dea, aveva rinunciato all'affetto che nutriva per Clarice e non avrebbe dovuto provare paura o ansia al pensiero che, qualunque cosa avessero dovuto affrontare gli altri, avrebbe potuto non funzionare. Invece si ritrovò preoccupata per la sua amica, preoccupata da matti, e quella consapevolezza serpeggiò in lei e le stritolò il cuore con le sue spire.
“Qualcuno ha fallito il test. Non ha funzionato,” sussurrò.
Frederick si tastò il petto e il volto, per assicurarsi di essere ancora tutto intero. Guardò Clarice, poi Sigga a occhi sgranati. “Ricordo ancora,” disse, sembrava stravolto. “Ricordo ancora tutto!”
“Com'è possibile che non abbia funzionato?” sbottò Sigga, il fastidio che iniziava a montare in lei. “Torniamo indietro! Torniamo indietro e mi sentiranno!”
“Ferma.” La voce di Clarice, debole ma sicura, la spense sul nascere. “Non ha funzionato perché io ho rifiutato. Non accettato la sua proposta. Sono stata io a non passare il test, invalidando tutti gli altri.”
Fu come se sulla sua testa si fosse rovesciato un secchio di acqua gelata. Sigga restò immobile, la guardò con gli occhi spalancati, senza sapere cosa fare o cosa dire. “Tu... cosa?”
“La sua proposta era peggiore della mia morte,” rispose, distogliendo lo sguardo. “Non ho potuto accettare. Avreste fatto lo stesso, al mio posto.”
“Cosa ci può essere di peggiore della morte?” chiese Frederick, che non riusciva a capacitarsi della verità.
“Fidatevi,” rispose, con voce tremante. Sigga notò che non riusciva a guardarla in faccia, guardava tutto meno che lei, come se la sua vista le facesse male, come se non riuscisse a reggere il suo sguardo.
“Dimmi che scherzi. Clarice, dimmi... dimmi che non hai rifiutato l'offerta. Dimmelo.”
“Io... non posso. È quello che ho fatto. Ho rifiutato l'offerta dell'Oracolo. Morirò tra una luna e mezza al massimo, questa è l'unica verità.”
“No...” la sua voce uscì spezzata, sul punto di dare di matto. “No, non può essere. Clarice, non...”
“Credi che sia facile per me? Credi che non soffra per questo?”
“Allora perché farlo? Perché scegliere di morire? Non capisci come questo potrebbe farmi sentire? Non capisci che questo è anche sulle mie spalle?”
“Come osi dire così? Questa non è una cosa che riguarda te! È della mia vita che si sta parlando! Non faccio niente per fare un dispetto a te, Sigga! Se ho scelto di morire è stato perché ho valutato i pro e i contro sulla mia pelle, ho preso una mia decisione. Non ruota tutto intorno a te.”
La ragazza la guardò a occhi spalancati come se le avesse appena dato un ceffone. “Io... io non voglio che tu muoia.”
“E pensi che io voglia morire, invece? Pensi che io mi diverta a morire per farti un dispetto?”
“No, ma allora... allora perché non accettare la proposta dell'Oracolo? Perché scegliere di morire? Questa cosa... questa cosa mi fa imbestialire!”
“Perché la proposta dell'Oracolo era peggiore della morte!” sbottò la ragazza. “Ora devi decidere. Se vorrai restarmi accanto quest'ultimo mese che mi resta da vivere, io sarò con te. Se vuoi passare le mie ultime settimane di vita offesa con me perché sei convinta che voglia morire per darti un dispiacere, fai come ti pare. Quello che pensi non mi riguarda.”
Detto questo, si voltò e cominciò a camminare verso la città, a passo spedito. Sigga vide Frederick, che durante la discussione era rimasto a osservare le fronde degli alberi a disagio, guardare con aria di scuse nella sua direzione e poi correre dietro la sua amica, chiamandola per nome e incitandola a rallentare un pochino.
Sigga restò immobile, da sola in mezzo al bosco. Sapeva che era pericoloso, che anche se si trovavano lontani dalle grotte dei monti di Belt non era sicuro indugiare nella foresta, ma non le importava. Clarice aveva bisogno di sbollire, del suo spazio, e ne aveva bisogno anche lei.
Non credeva di essersi comportata da egoista. La morte di Clarice era anche sua responsabilità, in quanto la sua amica sarebbe morta per il suo amore. In più le voleva bene, teneva a lei, era rimasta distrutta dalla notizia che le mancasse poco da vivere, e questo l'aveva portata ad arrabbiarsi con lei perché aveva gettato quella possibilità di salvezza come se non valesse nulla. Sbuffò adirata e si chiese cosa mai potesse averle chiesto l'Oracolo di tanto tremendo da essere peggiore della morte, ma non le venne in mente nulla.
Aspettò che Clarice e Frederick sparirono tra gli alberi e poi iniziò anche lei a camminare verso la città, a passo lento e misurato, senza affrettarsi per non rincontrarli lungo la strada. Aveva bisogno di sbollire, era arrabbiata e delusa. Aveva fatto tanto perché Clarice vivesse, aveva rinunciato al bene che provava per lei, e quella sofferta decisione si era rivelata inutile.
Chissà cosa aveva dovuto decidere Frederick, a cosa aveva dovuto rinunciare per poi scoprire che l'incantesimo non aveva fatto effetto. In tutta probabilità si trattava di qualcosa di importante, eppure lui non era arrabbiato.
Pensò a tutto quello che aveva vissuto insieme alla sua amica di sempre, ai pianti e alle risate, alle fughe rocambolesche sui tetti e ai momenti in cui la fame li accecava e li rendeva insensibili. Non c'era mai stato un momento in cui lei non aveva tenuto a Clarice, sin da quando l'aveva vista la prima volta e l'aveva fatta ridere.
Sigga amava la sua risata, era musica per lei, e sapere che l'avrebbe persa per sempre le faceva stringere il cuore, lo stracciava in pezzi e glielo faceva battere tanto forte da schizzare fuori dal petto.
La verità era che non era pronta a perderla, e questo la faceva impazzire.
Edmund, col suo colorito giallastro, era piegato in avanti dal dolore, il suo volto contorto in un'espressione di pura sofferenza. Solomon si rese conto di essere lui a provocare questo male, entrambe le sue braccia tese verso di lui, la sua magia che selvaggia e indomita gli scorreva nelle vene più potente di com'era mai stata.
“Fermo!” gridò, un urlo strozzato quasi muto, rauco, pregno di dolore. “Fermo, ti prego!”
La sua esaltazione aumentò al sentire quella preghiera, e d'un tratto fu preso dal viscerale bisogno di distruggerlo, fare in modo che di lui non restasse più nulla.
“Solomon,” supplicò ancora, cadendo in ginocchio, lacrime iniziavano a rigargli le guance e il suo corpo si contorse in preda all'agonia. “Solomon, basta! Basta!”
Lui però non accennava a smettere, le sue braccia ancora rivolte verso il druido singhiozzante, senza pietà. Era tanto euforico che non riusciva neanche a parlare, neanche a spiegargli perché faceva tutto questo. Per tutte le volte che aveva stuzzicato Hildebrand, per come aveva torturato Everard sull'altopiano, per essersi unito a sua madre e averlo sostituito come suo pupillo, desiderava solo che continuasse a soffrire.
D'un tratto, l'espressione sul suo volto mutò. Non l'aveva più contorto dalla sua tortura, sembrava sereno, tranquillo, gli sorrideva persino. Solomon si accorse di non stare più esercitando alcuna magia, e abbassò le mani facendo tornare le braccia lungo il suo corpo.
“Bravo,” gli disse, allargando il sorriso, ma non era più Edmund. Era sua madre.
Ingerid era in ginocchio là dove il druido era stato, lo guardava coi suoi occhi di un verde silvano e bestiale, lo stesso che lui sapeva di aver ereditato. La sua tunica color del muschio si confondeva col prato su cui si trovava. Erano in una radura simile a quella in cui avevano combattuto contro i figli di Ingar, ma era giorno inoltrato e brillava la luce del sole, al contrario di com'era stato quella sera.
“Mamma,” la chiamò, ma sì trattenne dal fare un passo in avanti e aiutarla ad alzarsi, anche se provò il desiderio di farlo.
“Sei stato bravo, Solomon. Questo sogno era molto migliore rispetto all'ultimo a cui ho assistito. Forse ti stai davvero disintossicando, chi lo sa.”
“Cosa ci fai qui?” chiese lui, gelido. “Mi sembrava di essere stato chiaro, l'ultima volta. Non voglio vederti, non voglio parlarti. Vai fuori dalla mia testa. Non verrò mai con te. Mai.”
“Ho sentito che vi siete scontrati coi miei, nei dintorni di Arlann. Ho sentito che due dei miei sono morti.”
“Hai sentito bene. E continuerà ad andare così, faremo piazza pulita di chiunque troveremo sulla nostra strada. Compreso Edmund. Compresa te.”
“Io non tengo affatto a lui,” gli disse, come se avesse saputo che saperlo al suo fianco l'aveva turbato. “Ha sete di comando, è giovane e manipolabile, per questo mi servo di lui. Andrebbe in capo al mondo per me, ma quando non mi sarà più utile mi dimenticherò di lui. Tu, d'altro canto...”
A quelle parole, Solomon distolse lo sguardo. “Per favore, basta.”
“Quell'odio e quella rabbia che ti consumano, ciò che ti ha spinto a distruggere quell'uomo, arderlo vivo, potrai usarli per me. Con me. So che lo vuoi, l'ho capito da che ne hai fatto di quell'uomo l'altra sera. Tu sei ancora mio Solomon, noi due siamo uguali.”
“Io non sono come te. Mi stavo difendendo quando ho ucciso quell'uomo. Ci hanno attaccato loro per primi.”
“Solo perché ne hanno avuto l'occasione, altrimenti saresti stato tu a farlo. Lo so.”
Solomon rabbrividì. Sua madre aveva ragione, aveva desiderato fare piazza pulita dei figli di Ingar già da quando li aveva visti addormentati.
“Io non sono come te. Non passo sopra le persone che mi amano per il potere. Io lo faccio solo per proteggere chi amo.”
“Anche io lo faccio per chi amo. Tutto quello che faccio è per creare un mondo migliore per te.”
“Bugie!” esclamò, voltandosi e dandole le spalle per non essere tentato di guardarla in faccia. “Tu fai quello che fai per asservire gli umani. Per portare i tuoi fratelli alla guida del Regno.”
“Le due cose si completano a vicenda. Voglio asservire gli umani, salire al potere, e voglio fare tutto questo per te. Non lo capisci? Lascia i tuoi compagni e vieni da me. Abbiamo già vinto, siamo più avanti di voi sulla strada per il Libro. Vieni e goditi con noi la mia rivalsa, com'è giusto che sia. Altrimenti, i tuoi compagni moriranno comunque e tu resterai solo.”
“Come puoi farlo?” chiese, alzando la voce. “Come puoi fare questo a Hildebrand e Dameta? Li hai cresciuti come fossero tuoi, io pensavo... pensavo che li amassi.”
“Hildebrand e Dameta mi stanno a cuore, è vero, ma il mio sangue non scorre nelle loro vene. Solo tu sei degno, e dei sacrifici sono necessari per ottenere ciò che voglio. Farò ciò che devo col cuore pesante, ma lo farò.”
“No. Io non te lo permetterò, hai capito?” si voltò ancora, la guardò negli occhi e sentì la rabbia montare in lui. “Ti fermerò, mamma. Fosse l'ultima cosa che faccio.”
“Se non ti unisci a me ora sarà troppo tardi. Non tornerò per supplicarti, sappilo. Questa è la tua ultima possibilità.”
Solomon restò immobile, osservando sua madre. La donna che lo aveva cresciuto, su cui si era sempre affidato, che l'aveva amato e che ancora, a suo modo, l'amava. La sua volontà vacillò.
“So che lo vuoi. Vieni da me, non voltarti indietro. Cancelliamo i nomi dal libro, dividiamo il potere con gli elfi, pieghiamo gli umani al nostro volere. Facciamolo insieme.”
Solomon se l'immaginò allora. Si immaginò di alzarsi, vestirsi, scivolare via dalla stanza senza che Floki se ne accorgesse. Si immaginò di raggiungere Ingerid nel suo nascondiglio e assistere a lei che cancellava i nomi del Libro, poi aiutarla a mettere sotto scacco gli umani. Si immaginò al suo fianco, circondato dai figli di Ingar, rispettato e temuto.
“Non ti sarei utile,” le disse, in un filo di voce. “La mia magia...”
“La tua magia migliorerà. Ti curerò dalle ferite inferte dai miei uomini, e l'umano lo dimenticherai. O potrai averlo, se ancora lo vorrai. Gli uomini saranno al nostro servizio, potrai avere qualunque di loro tu voglia.”
Quella frase, quell'ultima frase, gli fece gelare il sangue nelle vene. Costringere Everard a stare con lui, obbligarlo a compiacerlo, poteva essere qualcosa che faceva gola a sua madre, ma non a lui. Lui provava solo disgusto e rabbia.
“Esci dalla mia testa,” sibilò. “Esci dalla mia testa e non tornare.”
Lo sguardo di Ingerid, prima dolce come il miele, si indurì. “E sia. Ma quando cancellerò il loro nome dal libro, quando il tuo umano sarà morto, allora tu resterai solo. Non ci sarò io a proteggerti. E allora ti pentirai di non essere venuto da me, perché avrai ottenuto lo stesso risultato ma sarai finito dalla parte sbagliata.”
“Vai, ho detto. Vai!”
Note autrice
Sigga è giusto un po’ offesa con Clarice per aver rifiutato la proposta dell’Oracolo e non essersi salvata la vita. Si sente responsabile della sua morte, perché morirà per averle confessato il suo amore, dunque teneva ancora di più al fatto di salvarle la vita.
Ciò a cui Sigga e Frederick hanno rinunciato, Sigga al bene che prova per Clarice e Frederick a quello che ha passato con Everard, è ancora in loro possesso per questo. L’incantesimo non ha funzionato perché Clarice non ha fatto la sua parte.
Intanto, i druidi ed Everard hanno scoperto che gli elfi sono in procinto di attaccare la capitale, e lui ha un po’ sbarellato per questo, ma alla fine è rimasto con gli altri.
In ultimo, Solomon ha ricevuto l’ennesima visita di Ingerid, rifiutandola anche questa volta.
Nel prossimo capitolo avrà l’occasione di rivelare a qualcuno quel che è successo, in una scena che trovo molto carina. Ma chi sarà questa persona? Lo scoprirete solo continuando a leggere!
Sperando che questo ultimo libro vi stia piacendo, noi ci aggiorniamo come sempre venerdì e come sempre sono più che felice di avere il vostro feedback!
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