3.1 // In Viaggio [revisionato]
Il sole era calato oltre la linea degli alberi, e il carro di Armiral avanzava deciso sulla strada battuta dal vento.
«L’astronomia, in cuor mio, è la scienza che preferisco» cianciava Amrit, che aveva sollevato la borraccia col suo liquore alla mandorla amara. «L’osservazione delle stelle è una pratica misteriosa e affascinante, in continua evoluzione. A palazzo abbiamo una strumentazione che in questa terra di contadini non vi sognate neanche.»
«Ehi, vacci piano» borbottò Sigga, colpita nell’orgoglio. Che sentimento strano, ritrovarsi a difendere il suo paese. Non aveva mai nemmeno accarezzato l’idea di farlo, eppure in quel momento sembrava importante.
«Secondo me ha ragione» ghignò Frederick, che gli stava acciambellato addosso, seduto sulle sue ginocchia, con le gambe distese lungo tutto il sedile da tre.
Era stato malinconico quando erano partiti, ma dopo qualche sbaciucchiamento e un paio di sorsi di liquore pareva essersi ripreso del tutto.
Il principe si stiracchiò, Frederick ne approfittò per strofinare il volto contro il suo collo in quell’improbabile groviglio di corpi.
Ottar, che fastidio. Persino peggio di quando faceva certe cose con Everard, ed Everard era suo fratello quindi avrebbe dovuto essere più imbarazzante per principio.
«Scusate» ridacchiò il principe, poi scosse la testa. «Sto esagerando, sono sicuro che questo Regno ha tante qualità, anche se io non ne ho notata neanche una. Di certo non sono stato abbastanza attento.»
Clarice alzò un sopracciglio, scettica. Era tutta piegata su di lei, e le stringeva il fianco con il braccio. «Almeno un lato positivo mi sembra che l’abbia trovato.»
«Quale, questo qui?» Amrit strinse Frederick più forte, e lui si rilassò nel suo abbraccio. «Sì, diciamo che i modi per godermi il viaggio non mancheranno.»
«Non sia mai!» esclamò il ragazzo, solenne. «Affrontare un viaggio tanto lungo senza il giusto passatempo sarebbe terribile.»
«Visto? Parliamo due lingue diverse, veniamo da culture diverse, eppure ci capiamo benissimo!»
«A me sembra che la cultura sia la stessa» scherzò Clarice, allusiva, e Sigga esplose in una risata incredula tanto forte che superò le esclamazioni di oltraggio degli altri due.
Il momento di ilarità generale si interruppe nel momento in cui la carrozza si arrestò di colpo con uno schianto. Sigga gridò, e da un momento all’altro si ritrovò schiacciata contro lo sportello. Frederick era caduto scomposto tra i due sedili e mugolava di dolore.
Amrit aveva imprecato forte, o almeno Sigga immaginava che l’avesse fatto, anche se non aveva capito una parola.
«Ma che è successo?»
Clarice, che era riuscita a mantenersi al posto, si avvicinò allo sportello e osservò il bosco dallo spioncino. «Non lo so. Siamo fermi. C’è... silenzio e buio. E basta.»
Amrit si sistemava le vesti variopinte, l’aria scossa ma non troppo. Afferrò Frederick per un braccio e lo aiutò ad alzarsi, poi quando si fu assicurato che il ragazzo fosse ancora tutto intero si abbandonò allo schienale, senza forze. «Un animale avrà attraversato la strada all’improvviso, non è così inusuale. Ripartiremo a breve, è tutto sotto controllo.»
Tornarono a posto, anche se la leggerezza che li aveva animati sino al momento precedente era sfumata, e nella notte si udiva solo il fischiare cupo del vento.
«Non sarei mai dovuta partire senza Everard» sbuffò Sigga, quando furono passati sufficienti minuti a far perdere la speranza di una ripartenza veloce. «Lui avrebbe saputo cosa fare, avremmo già ripreso il viaggio.»
«Everard non avrebbe fatto niente perché non c’è niente che possiamo fare» replicò Amrit, freddo. «Aspettiamo qui buoni, e a breve la carrozza ripartirà.»
«In effetti però è un po’ che aspettiamo» azzardò Frederick, a voce bassa. «Insomma, se potessi affacciarti a controllare—»
Il principe si alzò con un sibilo seccato. «Ebbene, avete vinto. Vado a scambiare due parole col conducente, sono certo che avrà un’ottima spiegazione per il ritardo.»
Spalancò lo sportello, che scosso dal vento sbatté sul legno della carrozza, e saltò giù.
«Shayan!» chiamò, indignato, per poi aggiungere qualche frase nella sua lingua che forse voleva essere un rimprovero.
«Grande inizio, vedo» borbottò Clarice, accasciata al suo posto con aria afflitta. «Siamo partiti da neanche un giorno e si è già fermata la carrozza.»
«Secondo voi volerà via con tutti quei veli?» ghignò Sigga. «Insomma, c’è corrente.»
Frederick fece una smorfia. «Sei solo invidiosa perché veste meglio di te.»
«Che dici? Come se mi fosse mai importato dei vestiti... lo prendo in giro perché è pieno di sé.»
«Non è pieno di sé! È solo consapevole del suo fascino. Io la trovo una cosa attraente.»
«Sarà. Secondo me spiccherà il volo a momenti come un gabbiano...»
«Ragazzi.»
Il sibilo di Clarice la allarmò. Si voltò in direzione della compagna, che si era rabbuiata e aveva inclinato il capo come se fosse in ascolto.
«Cosa c’è?»
«Non lo sentite anche voi?»
«Io non sento niente» rispose Frederick, ma persino il suo tono si era fatto più teso.
«Esatto.»
Sigga si raggelò. In effetti, gli improperi incomprensibili del principe avevano riempito il silenzio notturno sino all’attimo prima, eppure nessuno aveva risposto. I due miraliani fuori dalla carrozza non emettevano fiato, non solo Amrit aveva smesso di parlare, ma il cocchiere non aveva neanche risposto.
Ricambiò lo sguardo preoccupato della compagna, poi si rivolse a Frederick. Oh, quanto le mancava suo fratello. Lui si sarebbe già affacciato a controllare. Non avrebbe avuto tutta quella paura.
«Ehi...?» azzardò allora, un po’ più forte. Tirare fuori la voce d’un tratto più complicato. «Tutto a posto?»
Non ricevette risposta, così si sporse appena per guardare verso avanti, attraverso lo sportello aperto sul bosco. Clarice le afferrò il braccio, come se avesse paura di vederla venire risucchiata fuori da un momento all’altro.
Non sarebbe mai uscita di sua volontà, anche perché, non appena fece capolino verso l’esterno, vide qualcosa che non aveva mai visto. Qualcosa che non pensava neanche esistesse, che sino a poco tempo prima credeva si trattasse di una leggenda, nulla più di uno scherzo.
Alto e dinoccolato, gli arti nodosi, la pelle grigiastra sfumata di verde come una pietra colonizzata dal muschio. I capelli neri scendevano dritti sulle spalle, unti e sfilacciati, gli occhi dall’enorme pupilla lucida.
Lo sguardo di Sigga non incrociò il suo, che era fisso sugli occhi di Amrit. Pensò di sporgersi ancora per strattonarlo dentro, ma se si fosse mossa avrebbe attratto l’attenzione dell’elfo e non poteva permetterselo. Afferrò a due mani il pomello e lottò contro il vento per chiuderli dentro, fece scattare il chiavistello e serrò lo spioncino con la serranda in metallo.
Il cuore batteva tanto forte da sentirlo in gola, le mani le tremavano. Schiuse le labbra. «Per tutti gli dèi uno più stronzo dell’altro.»
«Sigga!» sibilò Clarice, e le assestò uno schiaffetto sulla gamba. «Sei uscita di senno? Non puoi bestemmiare così e pensare che—»
«C’è un elfo là fuori. C’è un cazzo di elfo. C’è... c’è un fottutissimo elfo che ha incantato Amrit e credo anche Shayan. L’ho visto coi miei occhi.»
Frederick spalancò gli occhi, irrigidito. «Un elfo? Come fai a saperlo? Magari era una persona. Un brigante, o qualcosa del genere.»
«So riconoscere una persona da un elfo, Frederick.»
«E come? È il primo che vedi, no?»
Spalancò le braccia, incredula. «Accomodati, allora. Vuoi andare a controllare tu?»
Prima che potesse rispondere, il silenzio si ruppe al suono di un urlo bestiale, strozzato. Qualcosa di selvatico che suonava come un animale iniziò a grattare e spingere per entrare nell’abitacolo.
«Dobbiamo solo resistere sino all’alba, giusto?» domandò Clarice. «Se lo sportello reggerà, per allora se ne sarà andato.»
A quelle parole, Frederick si rianimò di coraggio. «Che cazzo dici? Non possiamo abbandonare Amrit così.»
«Senti, non mi importa niente del tuo ragazzo. E comunque ormai è troppo tardi, se non è morto lo sarà tra poco.»
«Non è il mio ragazzo!» protestò, a voce alta perché i colpi alla porta si erano fatti più insistenti. «Everard non l’avrebbe mai lasciato là fuori a morire da solo.»
«Everard non c’è, però» sibilò Clarice. «Poi ‘fanculo Everard, perché non abbiamo portato Solomon? Lui sì che avrebbe–»
«Silenzio!» gridò Sigga, superando il battibecco, il vento, e persino il frastuono della creatura. Fulminò con lo sguardo Frederick che, a sentire nominare Solomon, aveva imitato il gesto del vomito. «Nessuno di loro è qui. Ci siamo solo noi, quindi apprezzerei che restassimo tutti lucidi e pensassimo a come tirarci fuori da questo casino.»
«Io voto per aspettare sino all’alba» dichiarò Clarice, che aveva incrociato le braccia e raddrizzato la schiena per darsi un tono.
«Beh, io voto–»
Frederick non finì di pronunciare la frase. Il chiavistello saltò insieme a un’esplosione di schegge, e in un botto assordante lo sportello si spalancò.
👑👑👑
Solomon si stiracchiò sul letto in un sorriso rilassato, il chiarore del giorno filtrava attraverso le palpebre chiuse.
Convivere era bello. Hildebrand e Dameta gli mancavano parecchio, e Richard lo teneva sin troppo indaffarato in quanto unico druido a corte, ma non sentiva la pressione di sua madre che pretendeva perfezione e rigore in ogni momento, e non c’era niente di meglio che svegliarsi tra le braccia di Everard.
Talvolta dormivano insieme agli altri, giù di sotto dove stavano i ragazzini e i senza dimora. Anche quello gli piaceva, ma avere uno spazio tutto loro, dove condividere quotidianità e piccoli gesti, gli piaceva.
Allungò la mano per tastare l’altra metà del letto. Non aveva paura di svegliarlo, era sempre Everard a farlo per primo, abituato a levarsi alle prime luci dell’alba.
Quando trovò solo lenzuola gelide sul letto sfatto aprì gli occhi, accigliato. Sbatté le palpebre per schiarirsi la vista dal sonno e si guardò intorno.
Everard non c’era. Non solo non era nel letto insieme a lui, ma doveva essersi allontanato da ore: il calore del suo corpo si era già dissipato; non era a guardare il sole nascente alla finestra né a sbrigare faccende alla scrivania... se n’era andato.
«Everard?»
Lo chiamò in un riflesso irresistibile, anche se era evidente che il suo compagno non c’era.
«... Everard?»
Evidente, sì, ma anche anomalo. Difficile da credere. Non gli era mai accaduto di non trovarlo al suo risveglio, prima.
Si sedette sul letto, più sveglio. Cosa poteva mai essere successo?
Qualcuno ha giocato con la tua testa.
Oh, Tanvar grande.
Non sono più in grado di proteggerti.
Ciò che avevano scoperto il giorno prima gli tornò alla mente tutto insieme e lo lasciò senza fiato.
Era tutta colpa sua. Come poteva essersi illuso che attendere sarebbe stata la scelta più saggia? Si era lasciato convincere da Everard, che sciocco.
Era chiaro che il compagno aveva sottovalutato la gravità della situazione, e lui avrebbe dovuto convincerlo a nascondersi al rifugio da Ingerid proprio come aveva proposto all’inizio.
Sapeva di essere il più razionale dei due, ma anziché insistere come avrebbe dovuto si era lasciato ammansire dalle sue parole, dai baci, e gli aveva concesso di restare al castello.
E chissà dov’era finto. Meraviglioso, davvero.
Tutta colpa della sua indulgenza, della sua debolezza, del suo—
Riconobbe un brandello di pergamena sul cuscino vicino al suo. L’afferrò, il cuore in gola e il fiato mozzo.
Lo stirò con le dita — era tutto arricciato — e riconobbe all’istante la grafia sconnessa delle rune mal abbozzate. La grafia di chi aveva imparato a scrivere in un tempo lontano e non si era più esercitato.
Mi sono allontanato di mia volontà.
Sarò al sicuro, te lo prometto.
Non cercarmi.
Ab imo pectore,
Everard.
Di sua volontà? Al sicuro?!
Solomon restò immobile, osservò il biglietto per lunghi secondi, orientato in modo che il sole entrato dalla finestra lo illuminasse abbastanza da coglierne ogni sfumatura.
Che la scrittura fosse la sua era indubbio, e non sembrava più tremante del solito, quindi escluse che l’avessero costretto a lasciare il messaggio.
Forse poteva essere soggiogato mentre lo faceva, ma quanto era probabile che qualcuno avesse superato le sue protezioni, fosse entrato nella loro stanza, e l’avesse rapito senza che lui se ne accorgesse, addormentato proprio là accanto?
Conoscendolo, era molto più probabile che avesse fatto l’eroe suicida sconsiderato come al solito.
Come gli aveva espressamente chiesto di non fare quando erano in viaggio. Come aveva giurato non avrebbe più fatto.
Sbuffò dalle narici, le labbra strette dal disappunto.
Era incredibile, davvero. Gli umani erano incredibili, o forse era solo quell’idiota del suo compagno.
A volte sembrava davvero intelligente, sul serio, parlava con una sensibilità e un intuito degni di un druido, ma altre volte la sua umanità usciva fuori e diventava così—
Irrazionale. Emotivo. Avventato.
Per Tanvar, diventava così stupido.
Scosse la testa. No, era ingiusto. Everard era stato educato in quel modo, umano in mezzo agli umani, non era colpa sua.
Non era meglio né peggio di lui. Forse era meno razionale, ma senza dubbio anche più giusto. Dove aveva meno potere, compensava con più coraggio.
Non era il momento di lasciarsi prendere dalla frustrazione e dalla rabbia. Sarebbe bastato localizzarlo, l’avrebbe riacchiappato e tutto sarebbe tornato a posto.
Tutto a posto dopo una bella strigliata perché... perché gliel’aveva promesso. Gli aveva promesso che avrebbe evitato queste balzane idee disastrose e gli avrebbe sempre detto tutto e—
Stava divagando di nuovo. Doveva smetterla di pensare, ci sarebbe stato tempo per litigare e soprattutto per fare pace. La priorità era trovare Everard e fare in modo che fosse al sicuro.
Si gettò di nuovo disteso e chiuse gli occhi.
Rotolò sul lato opposto e inspirò forte. Era come averlo lì con lui, stare insieme, il suo odore nei polmoni che lo rendeva reale, tangibile, un corpo fisico.
Ogni giorno che passava con Everard diventava più facile localizzarlo. Sarebbe bastato un attimo, un pensiero fugace, e l’avrebbe trovato.
Solo che... solo che non accadde.
Niente. Neanche il minimo fiato.
Perché?
Non poteva essere— no, non ci avrebbe neanche pensato. Era fuori discussione. Everard era vivo, vivissimo. Forse aveva in mano il pugnale, sì, per via degli incantesimi di protezione non l’avrebbe trovato.
Ma era vivo. Era vivo eccome. Doveva esserlo.
Poi sentì qualcosa tirarlo da dentro, una corda che pizzicava all’altezza del petto.
Si riscosse.
Quello sì che era strano.
C’era qualcosa ad attrarlo. Non Everard, non era abbastanza forte, ma aveva la sua impronta. Ed era vicino. Troppo vicino, sembrava... sembrava proprio lì, in quella stanza.
Controllò l’ambiente, rigido e pronto a scattare al minimo rumore sospetto. Non era detto che fosse qualcuno o qualcosa di pericoloso, ma non poteva neanche escluderlo prima di controllare.
Non veniva dal baule coi loro oggetti personali sembrava chiamarlo dal basso, giusto sotto di lui.
Sotto il letto.
Si affacciò, facendo capolino con la testa di sotto, ancora sdraiato. I capelli bianchi sfiorarono terra, chiuse la mano a pugno e una fiammella illuminò uno scrigno ampio proprio sotto lo spazio dei cuscini, addossato al muro. Allungò un braccio. Lo scrigno era pesante, ma strisciò sul pavimento in uno stridio fastidioso sinché non fu abbastanza vicino da permettergli di afferrarlo.
Quando riuscì a metterlo sul letto, uno sbuffo di polvere macchiò il materasso e Solomon tossì, la gola che bruciava.
Strano. Molto, troppo strano. Richard aveva lasciato nella stanza alcuni effetti personali di chi l’aveva abitata prima di loro, ma cosa poteva avere Everard a che fare con questo?
Poco male, l’avrebbe scoperto di lì a poco. Prese una boccata d’aria per farsi forza, aria densa di polvere che sapeva di vecchio, e con uno schiocco di dita la serratura scattò.
«Fammi vedere, avanti» sussurrò, in un filo di voce.
A quelle parole il coperchio si spalancò, e un forte odore acido lo costrinse a una smorfia di disgusto.
Un mantello intriso di sangue ormai secco, annerito dal tempo, era stato arrotolato alla buona e ficcato là dentro. Lo sfiorò con un dito, era colloso e ruvido al tatto.
Posato sulla stoffa imbrattata stava un gioiello. Era composto da una catenella d’argento da portare al collo, che terminava con un pendente incrostato di turchesi, e la lettera D. colata in argento proprio al centro.
Danneville.
Ottar misericordioso. Tra tutto ciò che si sarebbe aspettato di trovare, all’ultimo posto c’era ciò che stava guardando in quel momento.
Note autrice
Gli elfi! Hanno preso Amrit! E prenderanno Sigga, Frederick e Clarice. Oppure no?
Li uccideranno? Scapperanno? Verrano rapiti e portati in un misterioso covo del male?! Lo scoprirete nella seconda parte di questo stesso capitolo.
La stessa parte in cui capirete anche cos’è davvero il medaglione trovato da Solomon, nel caso in cui non l’abbiate capito.
Ma Everard? Che fine ha fatto?
Non temete, scoprirete anche questo! Anche lui avrà un incontro ravvicinato con una creatura pericolosa, che però non è un elfo.
Insomma, siamo ufficialmente in viaggio.
So che sono mancata a lungo, in teoria non avrei nemmeno dovuto postare oggi perché ho cose più impellenti da fare e scadenze da rispettare... ma mannaggia, mancavo da troppo.
Quanto mi mancano quando non scrivo di loro? Troppo!
Vi omaggio con questo bellissimo regalo che mi ha fatto Mari_Blackstar per Natale, il ritratto del mio Everard da parte di Solomon ~
L’ha fatto @frakk_floris0ne su Instagram, vi invito a seguirlo!
Nel prossimo capitolo metterò un altro regalino, eheheh. Siete stati buoni con me quest’anno.
Grazie di essere giunti sin qui e a presto :*
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top