2.3 // Partenze [revisionato]
Odiava doverglielo nascondere. Lo odiava.
Odiava doverglielo nascondere perché l’avrebbe fatto soffrire. Odiava doverglielo nascondere perché glielo aveva promesso.
Odiava doverglielo nascondere perché... perché Edmund gli aveva fatto qualcosa che l’aveva lasciato sporco, qualcosa che Solomon non avrebbe gradito affatto. E tenerlo nascosto lo faceva sentire complice.
Ripensò allo sguardo deluso di Sigga quando le aveva confessato di aver già imparato a leggere, di ricordare il nome della loro madre che lei non aveva mai saputo. Ripensò alla voce rotta di Frederick quando era venuto a sapere che avrebbe lasciato la strada e lui non l’aveva avvisato, all’orrore con cui l’aveva guardato ed Everard aveva capito che il loro rapporto era finito. Nascondere la verità non l’aveva mai aiutato, mai, al massimo aveva fatto il contrario.
Ma odiava di più l’idea che lui lo seguisse, o che se ne andasse in giro per il castello con tutte quelle informazioni nella testa. Poteva accettare che lo odiasse, non poteva accettare il rischio di metterlo in pericolo. Quello mai.
Si forzò a compilare almeno i documenti per la missione diplomatica, con respiri lenti e misurati per calmarsi.
Ecco, quella era una buona idea. Avrebbe lavorato un po’ e si sarebbe distratto. Poteva farlo.
Solo che...
Cosa sarebbe successo se Astrid fosse entrata nel castello proprio in quel momento, pronta ad andare a prenderlo? E cosa sarebbe successo se si fosse presentato all’altopiano e Edmund l’avesse scoperto prima che lui potesse neutralizzarlo?
Che situazione del cazzo. Non sarebbe mai riuscito a concentrarsi, in quel modo.
La serratura alla porta si aprì in uno scatto secco. Lui sobbalzò, la mano al manico del pugnale, che strinse ancora più forte quando riconobbe il volto di Solomon.
Gli rivolse la lama senza abbassare lo sguardo. «Quanti biglietti vi ha concesso l’Oracolo quel giorno?»
Il druido si adombrò per un istante dalla sorpresa, poi si rilassò. Inclinò il capo e sorrise, seppur preoccupato. «Tre. Ma il contenuto del terzo non l’ho rivelato a nessuno se non a te, perché mi è stato raccomandato di non farlo.»
A quella conferma abbassò il pugnale, così Solomon sgusciò all’interno della stanza e quando richiuse la porta la sigillò con un incantesimo.
Si avvicinò a lui in due passi e raccolse le mani nelle sue. «È venuto qualcuno a cercarti?»
Everard scosse la testa. «No. Tu hai notato nulla di strano?»
«Niente» sospirò, arreso. «Ho riferito che non stai bene e resterò qui con te per curarti, ma anche che è meglio non si avvicini nessuno. Richard era allarmato, ma l’ho convinto a starsene buono. Non so quanto durerà.»
Portò le mani di Solomon al volto e ne baciò le nocche. «Va bene. Sei stato bravissimo.»
«Tu invece sembri sconvolto. Come ti senti?»
Inspirò un tagliente filo d’aria. Amava che Solomon riusciva a riconoscere qualsiasi bugia, perché era sempre certo di essere creduto. Diventava un problema, quando tentava di nascondergli qualcosa.
Omettere. Mai mentire. Il trucco era questo.
«Un vero schifo» ammise, per restare sul vago. Il tocco bollente di Edmund sotto i vestiti riprese a bruciare e mandò giù un groppo in gola che sapeva di acido. «Solomon, io... ho buchi di memoria così lunghi che... se avessi fatto qualcosa di orrendo mentre non ero in me, tu mi odieresti?»
Lui si avvicinò ancora. «No. No, no, no. Come potrei odiarti per qualcosa che ti hanno costretto a fare?»
Everard strinse le labbra. Diceva così perché non sapeva di cosa si trattasse. Se avesse saputo che Edmund l’aveva toccato, lui non l’avrebbe più fatto, perché era disgustoso. Era orribile.
«Sono comunque stato io a farlo.»
«Non è vero. Sarebbe stato il tuo corpo guidato da altri, non tu.» Il suo corpo, già. A volte un corpo poteva essere più che sufficiente. Dato che lui non rispondeva, il druido allargò il sorriso in un debole tentativo di suonare incoraggiante. «E poi, non sappiamo ancora cos’è successo. Magari ti hanno solo rubato qualche informazione, non è detto che ti abbiano costretto a fare qualcosa di brutto, giusto?»
Dargli ragione sarebbe stata una menzogna, così non lo fece. Si sgonfiò in un sospiro e gli crollò addosso, lasciando che lo stringesse. Non scaricò tutto il peso, Solomon non lo avrebbe retto, ma chiuse gli occhi e nascose il volto contro la sua spalla perché i battiti rallentassero e trovasse un po’ di pace.
Per quanto possibile cercava sempre di restare tutto d’un pezzo. Tutti si aspettavano da lui che sapesse sempre cosa dire, cosa fare, che tirasse fuori una scappatoia per ogni imprevisto.
Ogni tanto, era bello anche concedersi di farsi consolare.
Strusciò il volto sull’altro e lo baciò sul collo, lo sentì rabbrividire. Prendimi, avrebbe voluto dirgli, sostituisci il ricordo delle sue mani con le tue.
Non lo fece. Restò in quell’abbraccio ancora qualche istante, poi tirò indietro la testa e fece cenno di stendersi un po’.
«Vedila così» gli disse Solomon, che accettò di buon grado, «non incontrerai nessuno per qualche giorno, puoi lasciare stare i documenti per un po’.»
Soffocò una risata e scosse la testa. «In effetti non è poi così male.»
Si buttarono sul letto ancora avvinghiati, uno sull’altro. Il druido ancora sorrideva. «Sarà la nostra piccola vacanza dai doveri di corte. Prendiamo un sospiro di sollievo e intanto riflettiamo un po’.»
«Sei tu quello bravo a riflettere» ghignò Everard. «Tu ti arrovellerai per me e io mi godrò il tuo adorabile broncio concentrato.»
Le guance di Solomon si imporporarono di un rosso sgargiante. «Non mi sembra molto equo.»
«Mai detto di essere un uomo perbene.»
Si ritrovarono a ridacchiare entrambi, e una spina gelida gli trafisse il petto. Se lo sarebbe dovuto godere, solo una notte. L’ultima notte che avrebbe potuto passare con lui prima di deluderlo e partire per la sua impresa improbabile da cui non era nemmeno detto sarebbe tornato.
Che brutta idea, quella che aveva avuto. L’avrebbe portata avanti a ogni costo comunque.
👑👑👑
Quella notte riuscì a dormire, almeno qualche ora. I respiri regolari del druido steso insieme a lui lo cullavano, dilatavano il tempo che mancava al suo risveglio prematuro.
Quando aprì gli occhi, appena prima dell’alba, teneva Solomon ancora tra le braccia, il volto del druido premuto contro il suo petto. Trattenne il fiato per fare meno rumore possibile e si sfilò da quel groviglio in movimenti lenti e misurati, senza neanche concedersi di indugiare in quel calore che lo avvolgeva sia fuori che dentro.
Solomon non aveva un sonno pesante come quello di Frederick, ma neanche leggero quanto il suo. Era così calmo, il corpo ancora orientato verso di lui.
Etereo, riluceva del pallore lunare che entrava dalla finestra e lo ammantava di un’eleganza dolcissima. Le palpebre bianche riposavano sugli zigomi, ed Everard si chiese quando sarebbe stata la prossima volta che l’avrebbe guardato negli occhi, sempre ammesso che l’avrebbe fatto.
Nel silenzio e nella penombra si vestì, piano come avrebbe fatto se avesse voluto derubarlo.
Lasciò sul cuscino ancora tiepido il brandello di pergamena con le poche informazioni che gli avrebbe concesso e lo guardò un’ultima volta. Attese abbastanza a lungo perché si imprimesse quell’immagine nella memoria, il cuore pesante.
Era per il suo bene. Per il bene del regno. Era per il bene, punto. Poteva farlo. Doveva. Sì, l’avrebbe fatto.
Afferrò il pugnale, lo avrebbe protetto e con quello tra le mani nessuno avrebbe potuto localizzarlo.
«Ibis redibis non morieris in bello.»
Uscì senza più guardarsi indietro.
Percorse con la sua sacca i corridoi deserti, se pure avesse incontrato qualche guardia notturna nessuno gli avrebbe chiesto perché era a zonzo a quell’ora, poteva andare dove voleva quando voleva, ordini del re. Arrivò alle cucine e trafugò del cibo, infilandolo nella bisaccia – carne secca, frutta, del formaggio – poi proseguì.
Non avrebbe avuto bisogno di acqua per lo stesso motivo per cui non avrebbe avuto bisogno di una mappa.
Il fiume.
Il fiume Pynn aveva la foce sui monti di Belt, dove sorgeva la città dell’altopiano. Seguendo il suo corso sarebbe arrivato a destinazione, e avrebbe avuto un’inesauribile fonte di acqua potabile in ogni momento del suo cammino.
Uscito dal castello, il monsone lo investì. Strinse la sacca che portava a tracolla perché non sbattesse contro la sua gamba e digrignò i denti dal freddo.
Era ancora buio, e nonostante Richard avesse smantellato il coprifuoco nessuno era in giro a quell’ora. La città, addormentata davanti ai suoi occhi e sferzata dal vento implacabile, si estendeva davanti a lui come un corpo morto.
Si tenne per quanto possibile nelle vie più larghe, evitando i vicoli dove il vento incanalandosi sarebbe passato rabbioso, e camminò a testa bassa e passo sicuro sino alle grandi mura di cinta. Passò le porte – venivano aperte al passare dei primi uomini verso i campi, un’ora prima dell’alba – e fuori le mura prese la via per il bosco.
Camminare tra le fronde al buio senza l’aiuto della magia non fu facile. Iniziava già a sentire la mancanza di Solomon, che in quel momento si trovava ancora addormentato nel loro letto.
Il loro letto. Era questo che stava lasciando, un posto sicuro che divideva con la persona che amava. In pratica, tutto ciò che aveva sempre sognato e per cui aveva lottato tanto.
Non era come Sigga, non si era mai interessato di avventura e di gloria. A lui bastava un tetto sulla testa, un pasto assicurato e qualcuno da amare senza timore o imbarazzo.
E che qualcuno splendido aveva trovato!
Quando fu giunto al rifugio, la scritta sull’arco d’ingresso apparve, il motto dei druidi che svettava sul granito.
Entrò in perfetto silenzio senza ulteriori esitazioni, e attraversò la Sala del Pozzo con sguardo circospetto.
Si recò al corridoio delle stanze dei druidi, a malapena respirava per non emettere suono. Superò la stanza che era stata di Solomon – ma che non lo era più, perché la stanza di Solomon era diventata la sua – e giunse a destinazione.
Avrebbe ancora fatto in tempo a tornare indietro, infilarsi tra le coperte calde e pensare a un piano meno... drastico. Ma una situazione estrema richiedeva soluzioni estreme, e dunque non sarebbe tornato al castello senza Edmund.
Tirò fuori il pugnale dalla tasca e lo strinse. Quello scintillò appena, gli incantesimi di Tanvar che si attivavano per tenerlo al sicuro.
Bussò piano alla porta con la mano libera, nessuno rispose. Bussò più forte.
Sospirò. Se avesse bussato ancora avrebbe rischiato di svegliare Dameta, nella camera accanto. Si fece coraggio e si affacciò all’interno in un sommesso cigolio.
Sentiva i respiri profondi del druido addormentato, lunghi e sereni. Si chiuse la porta alle spalle per poi avvicinarsi al suo letto. Era buio, ne distingueva solo i contorni, ma la luce della luna che penetrava in un unico raggio tagliente dalla feritoia in fondo alla stanza faceva scintillare in riflessi di ruggine i capelli ramati di Hildebrand.
Allungò la mano verso di lui per svegliarlo, quando il druido spalancò gli occhi in un sobbalzo. Una fiammata divampò per proteggerlo e lo investì con le sue lingue di fuoco.
Everard saltò indietro, a stento soffocando un grido. Il pugnale lo aveva tenuto al sicuro, ma se non l’avesse avuto sarebbe morto.
«Sei fuori di testa?!» esclamò, in un soffio agitato. «Mi hai quasi fatto arrosto!»
«Che accidenti… che accidenti ci fai qui, umano?» Hildebrand aveva lo sguardo offuscato dal sonno. Con un gesto della mano spense la fiammata che aveva attecchito sull’arazzo sopra il letto. «Sei pazzo, per caso?»
La agitò di nuovo e una fiammella più piccola svolazzò per la stanza, propagando una luce giallastra e tremula che affilava i tratti e allungava le ombre.
«Si tratta di tua madre.»
Il bagliore del fuoco era riflesso nei suoi occhi di ghiaccio, li incendiava. «Cosa le è successo?»
«Sta complottando contro la corona, insieme a Edmund. Mi hanno manipolato, ma lui non è abbastanza bravo e sono riuscito a ricordare cosa mi ha fatto» prese fiato e scacciò il pensiero dalla mente prima che potesse paralizzarlo. «Vado a Beltann per incastrarlo. Non posso affrontare lei, è potente, sarebbe sciocco.»
Il druido si accigliò. «Tutto questo è sciocco. Che ne pensa Solomon?»
«Solomon non lo sa» ammise, il peso nel petto era tornato a schiacciarlo. «Se sapesse, Astrid lo scoprirebbe al più tardi al loro prossimo incontro.»
«Ecco perché sei qui» mormorò Hildebrand, il tono si era abbassato tanto che a malapena riuscì a sentirlo. «Perché i miei pensieri sono gli unici che evita in ogni modo di sentire.»
«Sì. Lei non entrerà mai nella tua testa, e dovevo dirlo a qualcuno. Se le cose andassero male, almeno sapresti cosa è successo.»
Hildebrand attese lunghi secondi, prima di parlare. «Lei non è cattiva.»
Quella frase lo infiammò. «Come puoi dirlo?! Come puoi dirlo dopo quello che ti ha fatto? È tua madre, cazzo.»
«Lei non è cattiva» sospirò, rassegnato. «Non vuole me, perché sono io a essere sbagliato.»
«Non è vero. E tu sai che non lo è. Sai che non lo è, non sei stupido.»
Lo vide arricciare le labbra in una smorfia contrariata. «Beh, Ingerid si fida, e mi fido anch’io.»
«Anche Ingerid può sbagliarsi.»
«Cosa ti fa credere che tu, tra tutte le persone del mondo, sia quello più sveglio che ha capito ogni cosa e tutti gli altri invece hanno torto? Altri più anziani di te, più potenti e istruiti, per giunta.»
Everard deglutì. «Perché quello che hanno fatto, l’hanno fatto a me. E io non sarò anziano, o potente, o istruito, ma... ma ho un cervello, un cuore e un corpo. E tutti e tre sanno che quello che ho visto è sbagliato. Lo sentono addosso.»
Hildebrand alzò il mento, aveva un’aria austera che lo faceva sembrare più grande della sua età, ma lui non si sarebbe fatto ingannare. Everard sapeva che quello che aveva davanti era un ragazzino. «E se io mi rifiutassi? Se andassi a raccontare tutto domani stesso?»
Accennò un sorriso. «Forse tu ti fidi di Ingerid, ma io mi fido di te. Ti sto lasciando la mia verità e quello che amo, druido, perché so che li custodirai sino al mio ritorno. Proteggili per me.»
Riuscì a vederlo cedere, quando rilassò le spalle e prese un profondo respiro. «Ho sempre protetto Solomon e continuerò a farlo, ma non per te. Lo proteggerò da te, ho sempre saputo che prima o poi sarebbe successo.»
«Non mi interessa per chi o da chi. Mi basta che lo farai, questo è tutto.»
L’ovattato suono del vento che agitava le fronde mormorava in sottofondo, incessante. Gli occhi azzurri del druido erano fissi nei suoi, gli trafiggevano il cranio in uno sguardo affilato. «Non mi sei mai piaciuto, non mi piaci e non mi piacerai mai.»
Il suo sorriso si allargò. «Peccato. Tu mi piaci molto, invece.»
«Buona fortuna, ragazzo umano. Per quel che vale, spero che non morirai. Tieni stretto il pugnale o verrà a cercarti, non voglio che si metta nei guai.»
«Grazie. Lo farò» rispose, poi annuì. «Spero che ci rivedremo.»
Non attese altro tempo, si voltò e strinse la maniglia per sparire nella notte silenzioso com’era arrivato, quando il druido lo fermò un’ultima volta.
«Everard.» Il sibilo disperato lo congelò sul posto, ma non si voltò a guardarlo. «Ti prego, fai attenzione.»
Quando per uscire dal rifugio passò per la Sala del Pozzo, la luna si specchiava nel cerchio di pietra in modo perfetto.
Note autrice
Ebbene!!! Questo capitolo è arrivato presto perché è breve e non aggiunge molto, ma Everard aveva bisogno sia di spupazzarsi un po’ Solomon prima di partire sia di affidare a qualcuno le informazioni su dove diavolo sta andando a cacciarsi.
Avrà fatto bene ad avvisare Hildebrand? O il suo segreto salterà fuori?
Lo scoprirete solo leggendo! (🎶 lo scopriremo solo vivendo, comunque adesso ho un po’ paura 🎶)
La cosa importante è che nel prossimo capitolo attaccheremo con Sigga, Clarice, Freddie e Amrit! La carovana più bizzarra di Laidiria.
Un’esploratrice asessuale, la sua migliore amica senzatetto in piena friendzone, un principe viziato, e il suo nuovo fidanzato che ha ancora un rapporto torbido col suo ex entrano in un bar...
Cosa può andare storto? (Non c’è nessun bar, tanto per essere chiari, era solo per la finta barzelletta. Sono in carrozza)
MA BANDO ALLE CIANCE, A BREVE SI VEDRÀ!
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