2.2 // Maratona

La donna si alzò, i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle ondeggiarono al movimento. Il ragazzo si sentiva uno straccio, era debole, aveva male al petto, però non si sentiva più in pericolo. Sapeva di essere al sicuro, non sarebbe stato più male come ore prima.

Astrid aprì la porta della stanza e uscì, forse per dar loro l’impressione di avere un po’ di privacy. Ironico, visto che avrebbe letto nelle loro menti com’era andato quell’incontro appena li avrebbe rivisti dopo l’accaduto. 

La prima ad affacciarsi nella stanza fu Dameta, esitante. I suoi occhi dorati indugiarono sulla figura di Everard nel letto e si avvicinò a lui a passi misurati, quasi avesse paura di spaventarlo. Everard le rivolse un breve sorriso e lei lo ricambiò, sfiorandogli con la mano i capelli per assicurarsi che stesse bene.

Poi entrò Hildebrand, gli occhi azzurri come sempre annoiati. “Non hai proprio istinto di conservazione tu, eh?” gli disse, raggiungendo la ragazza vicino al letto. Sembrava seccato dell’inconveniente, ma Everard non poté fare a meno di individuare un velo di preoccupazione nelle sue parole.

L’ultimo a entrare nella stanza fu Solomon, e quando lo vide il cuore di Everard si fermò. Non si vedevano da settimane, ma quando si erano salutati l’ultima volta lui era stato convinto che non l’avrebbe più rivisto. Entrò nella stanza quasi timido, esitante, e non lo guardò in faccia. I suoi occhi verdi si soffermarono sulla finestra della stanza, osservando la luce flebile che veniva dal bosco, senza parole.

“Avevo una certa fretta,” rispose a Hildebrand, schiarendosi la voce. “Quel druido è andato a dire in giro che sareste morti. Avresti preferito che perdessi tempo a riposare?”

“Oh, non fraintendermi, penso che se continuerai così ti ammazzerai prima o poi, ma non era un invito a smettere. In realtà della tua vita non mi importa più di tanto…”

“Ah no? Che ci fai qui allora? Sentiamo.”

Hildebrand esitò. “Io… Dameta ci teneva tanto a venire, e io l’ho accompagnata! Tutto qui.”

“Ma certo…” commentò Everard, con il sorrisino di chi sapeva che alla persona là davanti importava di lui, almeno un pochino.

“Come stai?” 

La voce di Solomon gli fece riportare gli occhi su di lui. Il druido non lo stava guardando, osservava ancora fuori dalla finestra, e aveva su un’espressione neutrale, indecifrabile. Sembrava tra loro quello che aveva meno interesse in lui, e il cuore di Everard si strinse in una morsa.

Non vuole neanche guardarmi in faccia.

“Bene,” mentì. Si rese conto che tutte le persone in quella stanza potevano capire che era una bugia bella e buona solo dopo che l’ebbe detta. Non se la rimangiò, perché sarebbe stato ridicolo.

“Si vede infatti,” commentò Hildebrand, secco. “Stai una favola.”

“Mi sto riprendendo,” rispose Everard, “Astrid mi ha rimesso in sesto.”

“Non è stata lei,” gli disse Hildebrand, annoiato. “Mamma è un po’ carente negli incantesimi di Ingar. Se la cava meglio con quelli di Tanvar, tra quelli che non sono i suoi. Solomon ti ha rimesso a posto.”

“Avrei continuato, ma stavo esaurendo le forze e mi hanno costretto a smettere,” aggiunse Solomon, a bassa voce. Ora guardava i piedi del letto, sempre senza incrociare il suo sguardo. “Se stai ancora male posso riprendere, ora mi sento meglio.”

“Non c’è bisogno,” rispose Everard, asciutto. Il fatto che non lo stesse neanche guardando in faccia gli faceva male, e pensava che il druido si sarebbe trovato davvero in imbarazzo a restare solo con lui e avvicinarsi abbastanza per guarirlo. “Devo solo riposare un po’. Mi passerà.”

Lui non aveva pensato ad altri per quelle settimane che erano stati separati, per quelle settimane che si erano detti addio. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per continuare a guardarlo il più a lungo possibile. Solomon a quanto pare non era dello stesso avviso. 

Vide Dameta che indicava Hildebrand, poi la ragazza gli diede una pacca sulla spalla e lo guardò con gli occhi colmi di preoccupazione. 

“Che ha detto?” chiese Everard, volgendo lo sguardo verso il druido dal cipiglio severo. 

“Ha detto che ho ragione, che devi riguardarti di più. Ti farai ammazzare se continui così. Ti si è quasi fermato il cuore, lo sai questo?”

Everard rabbrividì. Ricordava la fitta al petto, il dolore acuto e accecante che aveva provato quando si era accasciato in terra nella Sala del Consiglio della cittadella. Ricordava la presenza di mani confortanti su di lui, della magia familiare che gli scorreva dentro e sanava le sue ferite, calmando il suo cuore impazzito. 

“Siete venuti qui per farmi la ramanzina? Non so se ve ne siete accorti, ma vi ho salvato la pelle. Potreste mostrare un po’ di gratitudine!” borbottò, offeso.

Dameta si chinò verso di lui e gli stampò un bacio sulla tempia, per ringraziarlo. 

“Io un bacio non te lo do, perdonami, ma morirei piuttosto,” esclamò Hildebrand.

L’unica persona da cui Everard davvero voleva un bacio non disse nulla, e lui si chiese perché mai era entrato lì dentro se non aveva intenzione di guardarlo o di rivolgergli la parola.

Come se gli avesse sentito i pensieri, Hildebrand si voltò verso Solomon e gli disse “Ora possiamo portarti a riposare. Abbiamo visto che lo squinternato sta bene, ti porto a letto.”

“Che gli succede?” la frase gli uscì fuori prima che potesse controllarla. “Stai male?”

Fu Hildebrand a rispondere per lui. “Ti ha curato. E ultimamente la sua magia dà più problemi del solito. È senza forze, dobbiamo portarlo via.”

In effetti Solomon, pur non incrociando il suo sguardo, aveva gli occhi più stanchi di quello a cui Everard era abituato, di solito vispi e brucianti di vita. Sembrava fragile, bianco come la carta su cui amava tanto disegnare, aveva il viso più scavato del solito e gli occhi spenti.

“La sua magia dà più problemi del solito? In che senso? Che problemi?”

“Cose da druidi,” liquidò Hildebrand.

“Perché allora non mi ha guarito qualcun altro?”

“Perché non abbiamo figli di Ingar qui, e lui è il più esperto con gli incantesimi di guarigione. Ingerid glieli ha insegnati, e anche se non sono potenti come quelli del marchio giusto sono stati sufficienti a salvarti.”

“Non c’è bisogno che rispondi per lui,” commentò Everard, seccato. “Può parlare anche da solo.”

Voglio sentire la sua voce, pensò. Ottar, ti prego, solo un’ultima volta.

Everard, che stava ancora guardando lui, lo vide irrigidirsi. I suoi occhi puntati verso il muro lampeggiarono di sorpresa, poi disse “Sto bene. Dovevo guarirti e l’ho fatto. Ora me ne vado a riposare.”

“Grazie di avermi guarito.”

Solomon alzò le spalle. “Grazie a te. Sei venuto sin qui di corsa per dirci di Astrid. Se non l’avessi fatto sarebbe stata una strage.”

L’ho fatto per te. Frederick lo sapeva, anche se io gli ho detto che non era vero. L’ho fatto per te, e lui che mi conosce l’ha capito.

“Non potevo voltare la testa davanti a una cosa del genere. Chiunque sarebbe accorso al mio posto.”

Dameta si sedette sul letto, posandogli una mano sul ginocchio. Guardò Hildebrand, intimandogli con gli occhi qualcosa che Everard non capì.

“Ah, già,” rispose il ragazzo. “Com’è andata nella città degli elfi?”

“Quel posto è un incubo. Tengono gli umani come bestie da soma, li chiudono in gabbie di radici intrecciate e li tengono senza bere né mangiare se non il minimo per sopravvivere. Quando è il momento aprono loro le viscere e le usano per leggere il futuro, poi riutilizzano tutto per mettere su quella loro città inquietante. La pelle, i capelli, la carne, tutto. Ci hanno rinchiusi nelle loro gabbie, ma non erano riusciti a portarmi via il pugnale. Così ho scassinato la serratura e ho dato fuoco a tutto.”

Hildebrand fischiò, impressionato. “Umani,” aggiunse. “Voi amate distruggere. È una cosa che vi viene talmente bene…”

“Ci puoi contare,” disse Everard. “Con Sigga ne abbiamo anche ucciso uno… l’unico che non è scappato. Sembrava un pezzo grosso. Spero fosse il capo.”

“Non poteva essere davvero l’Arshim. L’Arshim degli elfi, Zvanak, ha almeno trecento anni. Non muore così facilmente.”

“Oh, non è stato affatto facile. Comunque non so chi fosse. Mi sembrava il capo, ma potrei sbagliarmi. Non capisco tanto di gerarchie elfiche.”

Fu Solomon a intervenire, allora. “Clarice? L’avete trovata?”

Il ragazzo lo guardò, sorpreso. Era convinto che non gli interessasse nulla del loro viaggio o di cos’era successo, ma quella domanda forse significava che aveva pensato a loro, almeno un pochino. Pensato a lui.

“È viva, ma è molto debole. Sigga e Frederick la stanno portando al villaggio vicino per guarirla. Non so se ce la farà…”

“Almeno l’avete trovata,” disse Hildebrand. “Sa che non l’avete abbandonata. Se morirà, ne sarà valsa la pena comunque. Potrete mandarla nell’aldilà.”

Per consegnare le anime a Ingar, il traghettatore nel Regno dei Morti, era necessario cremare un corpo e mandare i suoi fumi nel cielo. Solo così lo spirito sarebbe potuto accedere all’aldilà. Se Clarice fosse rimasta in mano agli elfi, senza la sua cremazione, la sua anima si sarebbe dissolta con il marcire del corpo, non avrebbe mai avuto accesso all’altra vita, non si sarebbe mai riunita coi suoi cari nelle terre di Ingar. 

“È vero,” mormorò Everard. “Ne sarà valsa la pena comunque. Ma io spero sopravviva. Non siamo pronti a lasciarla andare.”

“Clarice è forte,” disse Solomon, con un tono della voce neutro e misurato. “Sopravvivrà.”

“Va bene, basta chiacchiere,” esclamò Hildebrand, facendo segno a Dameta di alzarsi in piedi. “Ti porto a letto. È ora di riposare.”

“Sto bene!” protestò Solomon.

“Non voglio sentire nulla. Ora si fila a letto, forza!”

In ultimo, quando Dameta si alzò e si avviò verso la porta, quando Hildebrand afferrò il braccio di suo fratello e tentò di portarlo fuori dalla stanza, gli occhi di Solomon si posarono su Everard. Il mondo smise di girare, e quei due pozzi profondi lo ingoiarono intero. Poteva vedere bene quanto fosse stanco, e l’idea che lo fosse per colpa sua lo faceva indignare nel profondo. Non si sarebbe dovuto ridurre così, non per lui. 

“Tu starai bene?” gli chiese, in un filo di voce.

“Starò bene,” rispose Everard, che non ne era affatto sicuro. “Vai pure a dormire.”

“Hai sentito?” abbaiò Hildebrand. “Andiamo!”

Il ragazzo si lasciò trascinare fuori dalla stanza, continuando a guardarlo. L’ultima cosa che Everard vide di lui furono due grandi occhi verdi, espressivi e colmi di una preoccupazione sincera.

Quella notte, Solomon dormì un sonno agitato. Non ricordava cosa avesse sognato, ma aveva addosso la sensazione di terrore puro che l’aveva preso durante il sonno, e sapeva a cosa poteva riferirsi. 

Da quando c’era stata l’ultima battaglia al castello, aveva iniziato ad avere gli incubi. Da quando aveva visto Everard frapporsi tra Jasper e Richard, da quando era svenuto senza accorgersi di aver fatto un incantesimo, credendo di averlo perso per sempre, continuava a rivivere quel momento ancora e ancora e ancora.

La presenza di Everard, la visione di lui che si accasciava a terra col cuore che gli scoppiava nel petto, doveva aver risvegliato in lui paure che credeva sopite. Si alzò a sedere con un sussulto, il cuore in gola. Aveva gli occhi lucidi, nel sogno doveva avere pianto, e un velo di sudore freddo gli copriva la fronte. Ansimava, si portò la mano al petto prendendo una bella boccata d’aria. 

Hildebrand e Dameta dormivano avvinghiati a pochi passi di distanza, sotto strati di coperte di pelliccia calda. Sui monti di Belt faceva freddo, un freddo strisciante, che ti entrava nelle ossa e ti spingeva a tremare e a battere i denti non appena il sole calava sull’orizzonte, sparendo alla vista. Lui però in quel momento si sentiva accaldato, sentiva la magia ruggire in lui, alla ricerca di uno sfogo che non sarebbe arrivato.

Da quando era andato via da Bürgann aveva avuto qualche problema a controllarla, sapeva la ragione. La stessa ragione che in quel momento si trovava là, in casa di Astrid, a pochi metri di distanza. 

Quando l’aveva visto quel pomeriggio, quando non era riuscito a trattenersi dal voltarsi a guardarlo anche se aveva giurato non l’avrebbe più fatto, gli era arrivata come una frustata. Lui era là, solo e spaventato, ancora a pezzi e confuso, e lo aveva osservato come se ancora gli importasse qualcosa di lui, anche se era stato proprio lui a lasciarlo, a buttarlo via come se non fosse niente.

Solomon non poteva biasimarlo, sapeva di aver combinato qualcosa di grave, che Everard aveva perso la fiducia in lui. Capiva le sue motivazioni, il fatto che fosse stata Ingerid a inculcargli nella testa della loro relazione. Forse, se Solomon avesse scoperto che dietro i sentimenti di Everard si celavano le macchinazioni di qualcuno, anche lui sarebbe stato spinto a lasciarlo. Non avrebbe voluto rinchiuderlo in una relazione che non aveva voluto davvero

Eppure lui la voleva. Sentiva di volerla, e non c’era cosa che desiderava di più che correre in casa di Astrid, svegliarlo e pregarlo di perdonarlo. Pregarlo di lasciar correre, di non pensarci. Dirgli che aveva bisogno di lui, che ogni fibra del suo corpo soffriva per quel distacco, che la sua magia ne aveva risentito e ora ribolliva in lui selvaggia e scostante. 

Decise di andare a fare un giro. Sapeva di essere stanco, che avrebbe dovuto riposare, ma sapeva anche di avere bisogno di prendere aria, di fare due passi per schiarirsi le idee. Così uscì dal groviglio di coperte in cui era avvolto, si infilò i sandali e la sua tunica, e uscì all’addiaccio. 

I globi di luce messi su dai figli di Sunnar rilucevano ancora, ma a luce più bassa di quanto era stato prima che si mettesse a dormire. Illuminavano di luce soffusa quella parte del bosco dove il vento arrivava smorzato dagli alberi e dalle increspature di roccia. Camminò per le tende e le case appena costruite senza meta, eppure in cuor suo sapeva dove sarebbe dovuto andare. Era notte, faceva freddo, e a parte per i globi di luce dorata la foresta era immersa nel buio più nero.

Quando giunse a casa di Astrid, non si era nemmeno accorto di esserci arrivato. La costruzione in legno e pietra si arroccava su un’insenatura della roccia della montagna, e lui si ritrovò a sbirciare da quella finestrella al suo interno, sperando di scorgerlo nel buio della sua stanza. Voleva assicurarsi che stesse bene, che fosse tutto intero, ma soprattutto voleva vederlo coi suoi occhi, dato che quel giorno l’aveva guardato per tanto poco, lui che temeva non l’avrebbe più rivisto.

L’aveva guardato così poco perché aveva avuto paura di ricascarci, paura di innamorarsi di lui come ogni volta che lo vedeva, ancora, ancora e ancora, perché nonostante Everard sostenesse che quello che Solomon provava era solo frutto delle influenze di sua madre, lui era sicuro che non fosse così. 

La porta di casa si aprì, e lui si congelò sul posto. Per un attimo si concesse di sperare che fosse lui, che fosse uscito a cercarlo attratto dal richiamo del suo corpo come Solomon era uscito attratto dal suo. Quando vide la cascata di capelli rossi, quella pelle diafana, il suo cuore si incrinò e lui si vergognò di essere stato sorpreso a sbirciare.

“Non riesci a dormire?” chiese la donna, i lembi della tunica blu che sfioravano il terreno erboso coperto di foglie secche. 

“Brutti sogni,” rispose lui, sicuro che lei lo sapesse già. “Tu invece?”

“Il mio letto è occupato, e non sono buona a dormire per terra,” rispose lei, con un’alzata di spalle. “Dovresti andare a riposare. Domani partirai, e devi essere in forze per quello che ti aspetta.”

“Partire? E per dove?”

“Tua madre vuole cancellare i nostri nomi dal Libro. Dobbiamo arrivarci prima che ci arrivi lei, dobbiamo prenderlo e portarlo in cittadella. Solo così saremo al sicuro.”

“Perché io? Ci sono decine di druidi più esperti, più anziani di me qui.”

“Perché tu sei suo figlio, la conosci, puoi farla ragionare. Perché non vuole ucciderti, almeno te. Perché sei potente, ti ha istruito alla magia di Ingar quasi quanto alla tua. E perché mi serve che un umano vi accompagni, e se ci sarai tu lui verrà con te. Ti seguirà ovunque andrai.”

Solomon distolse lo sguardo. “Io non conosco mia madre, pensavo di conoscerla, ma non la conosco affatto. Non sarei così certo del fatto che non vuole uccidermi, non a questo punto. E riguardo alla mia presunta abilità, beh, sono settimane ormai che non sono più come prima. Ma soprattutto, se speri che Everard vorrà passare del tempo con me più dello stretto necessario ti sbagli.”

“Conosco Ingerid da tanto, troppo tempo,” rispose lei, piano. La sua voce arrivò carezzevole alle orecchie del ragazzo, più dolce di quanto non l’avesse mai sentita. “So che ti ama, so che non vuole perderti. Cercherà di contattarti e allora avrete qualcosa su cui lavorare. E sono convinta che il tuo cuore guarirà presto, e con quello i tuoi poteri. Quanto all’umano, conosco il suo cuore quanto il tuo. Se sarai tu ad allontanarti dalla cittadella in cerca del Libro, verrà.”

“Cosa ti fa pensare che io voglia andare? Cosa ti fa pensare che accetterò?”

“Io so tutto di te, Solomon della foresta. Non dimenticarlo.”

“Non voglio farlo. Stavolta ti sei sbagliata. Non andrò da nessuna parte, non cercherò il Libro, non fermerò mia madre. Devi mandare qualcun altro.”

Astrid lo guardò. I suoi occhi azzurri e taglienti, tanto simili a quelli di Hildebrand, si piantarono in quelli verdi dell’altro. Furono di conforto per lui, abituato ad avere degli occhi glaciali simili a quelli guardarlo con affetto. 

Come ogni volta che qualcuno pensava alla sua somiglianza con suo figlio, la donna tremò dell’indignazione e dalla rabbia, ma si trattenne dal fare commenti. 

“Va bene,” sibilò. “Manderò qualcun altro. Puoi andare.”

Solomon restò senza parole. “D… davvero?”

“Sì. Manderò Ailin con Hildebrand, è una figlia di Tanvar molto dotata. Lei saprà che fare.”

“Vuoi mandare Hildebrand a cercare il Libro? Sul serio?”

Fu il turno della donna di distogliere lo sguardo. “Meno l’ho intorno e meglio è. E poi mi fido di lui.”

“Quindi io non dovrò andare? Sicura?”

“Ritieniti esentato. Torna pure a dormire, ora.”

Solomon restò fermo dov’era, guardandola a occhi sgranati. Non pensava che si sarebbe arresa così presto, eppure ora gli aveva appena dato quello che voleva.

“Va bene,” rispose, a bassa voce. “Grazie.”

La donna abbassò la testa, per fargli capire che aveva inteso. Solomon si voltò e fece due passi verso la sua tenda, poi si fermò. 

Non voleva lasciare Hildebrand andare da solo, l’idea di saperlo in viaggio per Capo Sud con chissà che druido al fianco lo faceva sentire male. Voleva affrontare sua madre, chiederle spiegazioni per tutto quello che aveva fatto, trovarsi faccia a faccia con lei e urlare contro tutto quello che provava. Poi immaginò di passare del tempo con Everard, lui che aveva rischiato la vita per salvarli un’altra volta, che si sarebbe lanciato in un viaggio pericoloso, un viaggio suicida, solo perché Solomon sarebbe stato con lui. O almeno, così aveva detto Astrid.

La decisione era tanto ovvia da essere ridicola.

“Aspetta,” sibilò allora, tornando sui suoi passi, “non mandare Ailin! Manda me!”

Astrid gli sorrise. “Hai appena detto di non voler andare. Come so che non ti tirerai indietro all’ultimo?” 

“Tu sai quale delle due cose voglio davvero,” rispose il druido. “E io voglio andare. Lo voglio, giusto?”

“Solo tu puoi rispondere a questa domanda, temo.”

Solomon si avvicinò a lei e le afferrò la tunica blu bordata d’oro. La strinse e tirò la donna verso di sé. Era stanco, confuso, spaventato da quello che stava per accadere. “No, io non lo so. Non so se voglio andare con loro o restare qui in pace. Ti prego, guardami dentro. Guardami dentro e dimmi cos’è che voglio davvero.”

“Guarda dentro di te, e lo saprai. Non posso decidere per te.”

“Invece sì. Tu puoi saperlo, sai tutto di me. Dimmi se voglio andare con loro o se preferisco restare qui. Io non riesco a capirlo da solo.”

“Se te lo dicessi io sarebbe troppo facile,” rispose, poi mosse due dita davanti a sé e Solomon la lasciò per magia, facendo due passi indietro e mettendo spazio tra loro. “Dimmelo tu, dimmi cos’è che desidera il tuo cuore.”

Immaginò cosa sarebbe stato allora partire, la tortura di averlo accanto ma di non poterlo toccare. Sfidare sua madre e affrontarla, il senso di angoscia che la prospettiva gli procurava.

Poi immaginò di restare. Immaginò di dimenticare tutto e lasciarli andare, di abbandonare Hildebrand e lasciarsi alle spalle Ingerid, di accettare il fatto che la sua magia non sarebbe mai tornata come prima perché Everard non sarebbe mai stato suo di nuovo.

Era intollerabile. 

“Hai la tua risposta,” gli disse Astrid, guardandolo con un sopracciglio alzato. “Partirete domani, dopo la riunione in programma.”

“Tu lo sapevi,” le disse Solomon, in un sussurro. “Tu sapevi che avrei scelto di andare. Per questo hai accettato così di buon grado quando ti ho detto che non volevo saperne, sapevi sarei tornato.”

La donna alzò le spalle. “Non mi aspettavo avresti cambiato idea così in fretta, ma sì. Lo sapevo già.”

“Perché non me l’hai detto? Perché non me l’hai detto quando potevi farlo?”

Il bosco, buio e silenzioso, illuminato solo dalle sfere luminose dei figli di Sunnar, apparve quasi intimo quando Solomon pronunciò quelle parole. In quel momento, con il druido che lo guardava coi suoi occhi azzurri e penetranti, provò la sensazione che avrebbe potuto dire tutto.

“Io posso guardarti dentro, è vero, posso sapere ciò che il tuo cuore desidera, ma che valore avrebbe la tua decisione se venisse presa da me? Devi avere coraggio e accettare tu per primo la tua scelta, altrimenti perderà significato.”

“A volte parli come mia madre.”

Astrid sorrise, un sorriso stanco, malinconico. Come suo figlio, era più bella quando sorrideva. “Un giorno l’avrei preso come un grande complimento. Oggi la prospettiva mi preoccupa un po’,” disse. “Ma ora basta parlare. Va’ a dormire, domani sarà una giornata pesante per tutti, soprattutto per te.”

“Non riesco a dormire. Ci stavo provando da ore, prima di decidermi ad alzarmi e a venire qui.”

Astrid mosse la punta delle sue dita verso di lui, e Solomon si sentì d’un tratto più stanco. “Questa volta dormirai.”

Tornò verso la sua tenda con il sonno che montava in lui come la marea. Sapeva che si trattava di un incantesimo, che probabilmente Astrid non avrebbe dovuto manipolarlo in quel modo, ma si ritrovò grato del fatto che l’avesse aiutato a dormire. L’immagine di sua madre, statuaria e bellissima, che gli raccomandava di dormire bene e fare bei sogni come gli aveva intimato migliaia di volte gli lampeggiò nella mente.

Ancora non riusciva a credere che Ingerid, la persona di cui si era sempre fidato di più, era la mente che stava dietro le malefatte di Jasper, dietro tutte le loro sfortune. Ancora non riusciva a credere che volesse cancellare i loro nomi dal Libro, prosciugando la loro magia, la loro energia e persino la loro vita.

Sua madre era sempre stata una persona forte, autoritaria, ma non l’aveva mai considerata una persona cattiva. Era stata severa con lui, questo non si poteva negare, ma l’aveva sempre vista generosa col prossimo, amorevole. Aveva accolto Dameta e Hildebrand perché non avevano nessuno, aveva sempre dimostrato di voler loro bene anche se non erano suoi, e non aveva fatto mai mancare nulla a quelli che avevano avuto bisogno di lei.

Eppure, la verità dei fatti era questa. Ingerid della foresta aveva plagiato Re Jasper e lo aveva aizzato contro i druidi, per permetterle di arrivare al potere. Aveva mostrato a Solomon quella visione su Everard per convincerlo ad andare in città e smuovere gli eventi, aveva cancellato la memoria di Richard, aveva deciso quando era stata scoperta di fare piazza pulita degli altri druidi che non fossero suoi seguaci dalla faccia della terra, distruggendo suo figlio, i suoi amici, e tutto quello in cui Solomon credeva e che amava.

Quasi tutto.

Giunse alla tenda che Hildebrand e Dameta erano ancora immersi in un sonno profondo, i loro respiri pesanti lo confortavano e gli aumentavano il bisogno di dormire. Sbattendo le palpebre a fatica, già mezzo addormentato per via dell’incantesimo, si sdraiò sul suo giaciglio e si coprì con una coperta di pelliccia calda. Li guardò, avvinghiati stretti l’uno all’altra. Non riuscì a invidiarli, anche se una parte di lui avrebbe voluto farlo per sfogarsi di quell’ingiustizia. Aveva perso sua madre, tutte le sue certezze e alla fine anche Everard, e i due druidi addormentati erano tutto quello che gli era rimasto, l’unica roccia a cui aggrapparsi. Fu felice per loro, felice che si fossero trovati anche grazie a lui e a sua madre, felice che loro, due druidi come lui, sarebbero rimasti insieme sino alla fine, per quanto vicina o lontana questa potesse essere.

Fu con questo pensiero che si addormentò, con il volto sereno di suo fratello addormentato, della ragazza che aveva nascosto il viso contro il suo petto, di cui intravedeva i capelli castani.

Eppure, l’ultima cosa che vide, fu un paio di occhi neri.

Note autrice
E così Solomon, Hildebrand e non si sa chi altro partiranno alla ricerca del Libro Sacro dei druidi, per arrivarci prima dei figli di Ingar che altrimenti spazzeranno via ogni forma di vita druida che non sia loro alleata.
Everard partirà con loro come ha detto Astrid o non si farà abbindolare e tornerà dalla sua famiglia, che ha bisogno di lui?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
Questo purtroppo era molto di passaggio, mi rendo conto, ma serviva per fare interagire un po’ Everard col gruppo di druidi e per far prendere a Solomon la decisione di partire. Spero comunque che vi sia piaciuto!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top