1.3 // Diplomazia [nuovo]
«Ottar misericordioso.» Everard strizzò gli occhi, la testa che pulsava. Provò a schiudere la palpebre, ma riuscì a malapena a scorgere un soffitto che continuava a oscillare, scintille rosse che gli annebbiavano la visuale. Portò una mano debole alla gola e sfiorò la cicatrice che il pugnale di Solomon aveva lasciato quando Richard l’aveva aggredito, poi scese sul lato sinistro e ne tastò una più fresca, che non faceva male. «Cazzo.»
«Ti sei svegliato.» La voce improvvisa lo fece sobbalzare. Spalancò gli occhi, la stanza in cui si trovava girò su se stessa una manciata di volte e poi si assestò.
«Dove... dove sono?»
Su un letto sembrava la risposta più immediata alla sua domanda, dopo che ebbe realizzato le condizioni in cui si trovava. Al rifugio era senza dubbio la risposta più esauriente che era riuscito a intuire a un primo sguardo. Con Solomon, invece, quella che gli interessava di più.
«In camera nostra» spiegò Hildebrand, che sedeva a gambe incrociate sul letto dall’altro lato della stanza.
Era steso su un fianco, insieme a Solomon che sembrava dormire accucciato contro di lui, il volto nascosto contro il suo petto. Strinse il corpo caldo a sé e inspirò forte tra i capelli candidi. Il druido sapeva sempre di foresta, del muschio fresco e degli alberi in fiore.
«Che succede? È ferito?»
«Solo esausto. Ha provato a guarirti, eri messo maluccio.»
Sulle labbra di Everard si stiracchiò un sorriso sollevato. «Beh, c’è riuscito. Sono un po’ stordito, ma credo di star bene.»
«No, invece.»
«Come?»
Hildebrand sembrava... strano. Diverso. Certo, non l’aveva mai guardato con simpatia, ma quella volta fu peggio eppure anche meglio.
Le labbra pallide tremavano, strette in una linea dritta, e gli occhi di un azzurro tagliente erano carichi di un’intensità che gli aprì uno squarcio nel petto.
«Non c’è riuscito. E tu sei morto.»
Non riuscì a controllare una smorfia perplessa. «Che stai dicendo? Sono abbastanza certo che non potrei stare qui a parlare con te, se fossi morto.»
«Questo perché sei morto appena qualche attimo, e ora sei di nuovo vivo.»
«Senti, non so cosa ti abbia detto Solomon, ma–»
«Il dono di Esta. Sai cos'è? Ne avete mai parlato?»
Esta ama tutti noi. Ha concesso ai druidi una possibilità di creare la vita, che sia riportarla indietro o generarne una nuova.
«Solomon mi ha... riportato in vita?»
«È un vero idiota, ma sì.»
«E perché lo dici come se fosse una cosa brutta?»
Hildebrand sorrise. Abbassò lo sguardo sulle sue dita, e una fiammella allungata, dalla forma di un serpente, iniziò ad arrotolarsi per la sua mano in uno sfrigolio ipnotico. «Già. Non lo sembra, detto così, non è vero? Eppure non poteva farti di peggio. Qualunque cosa esisteva tra voi, lui l’ha uccisa quando ha salvato te.»
Everard si aggrappò alla tunica dorata del compagno, in un istinto incontrollabile che si rifiutava di lasciarlo andare. «Spiegati meglio.»
«Tu cosa sai del rapporto tra me e mia madre?»
«Niente. Solo che non andate molto d’accordo.»
A Hildebrand sfuggì lo sbuffo di una risatina. Non l’aveva più guardato, continuava a fissarsi le mani dove la fiammella si agitava ancora tra le dita. «Eufemismo interessante. Vedi, non è sempre stato così...» aprì il palmo verso l’alto e la fiammella si sollevò, aprendosi nella forma di un fiore. Poi sparì in uno sbuffo di fumo. «C’è stato un tempo in cui mi madre mi amava. Mi amava più di ogni cosa al mondo, certo, dopo mio padre.»
Everard assottigliò lo sguardo, si mise più comodo. «Con tuo padre intendi il suo compagno?»
«Il suo compagno, sì. Astrid è stata l’unica a generarmi, ma non era sola quando è successo. È raro che un druido chieda in dono un figlio senza un compagno. Ingerid è l’unica che conosco ad averlo fatto.»
«E Jasper l’ha fatto giustiziare?»
Il druido continuò a sorridere, gli occhi luccicavano di malinconia. «Sì. Jasper l’ha fatto giustiziare, proprio come Solomon, peccato che non ci fosse un irritante giovane umano a tirarlo giù dalla pira quel giorno.»
«Hildebrand, io–»
«Il punto è questo: lui era mio padre, per me. Almeno quanto Astrid era mia madre. Non avevo neanche dieci anni quando è morto, e poi... poi Astrid non è riuscita ad accettare che aveva sprecato il suo dono per me. Non ha potuto salvarlo perché aveva avuto me.»
Everard spalancò gli occhi, inghiottendo un’esclamazione sbigottita. «Sprecato?! Sei suo figlio.»
«È corsa al rifugio nella foresta, c’erano solo Ingerid e Solomon, Dameta è arrivata dopo di me. Io ero piccolo ma Solomon già un ragazzino, scommetto che se lo ricorda benissimo. Stavo piangendo, avevo perso mio padre e lei... lei non mi aveva nemmeno rivolto la parola, mi aveva solo trascinato più lontano possibile. Era così... arrabbiata. È stata accolta da Ingerid e Solomon e ha detto: levatemelo da davanti agli occhi. Sì, ha detto così. Levatemelo da davanti agli occhi, non riesco neanche a guardarlo in faccia. Poi è andata via senza guardarsi indietro, credo di non aver smesso di piangere per qualche giorno. Volevo la mia mamma, insomma, avevo perso tutto. E Ingerid... lei non mi ha fatto mai mancare niente, ma non è proprio un tipo affettuoso. Solomon c’era, però. Lui è stato con me ogni momento, ogni giorno. Dormiva con me nel mio letto e non si lamentava mai se non lo facevo dormire perché piangevo nel sonno. Se non fosse stato per lui... non so dove sarei, adesso. Dèi, non so cosa sarei. Non posso credere che abbia scelto di farlo, dopo aver visto come mi ha ridotto.»
Everard restò in silenzio per qualche attimo. Come poteva una madre pensare qualcosa del genere sul proprio figlio? Era una stortura, una mostruosità, uno sbaglio. «Solomon non è come Astrid. Lui è diverso.»
«Solomon sa che tu sei importante per lui, e ti ha dedicato il suo dono. Non c’è nulla di male in questo, e sono sicuro che pensa che per voi sarà diverso. Solo che... solo che arriverà qualcosa di più importante di te. E lui la perderà, e non potrà farci niente. Così tu diventerai ciò che più odia al mondo di sé stesso. Diventerai la sua scelta sbagliata, la manifestazione di quello che ha perso.»
Strinse i denti forte, e si piegò di nuovo su Solomon. Gli piaceva sentirlo vicino, e il suo profumo alleggeriva in parte il peso nel petto.
Si sarebbe davvero pentito di averlo salvato?
Non voleva che accadesse. E sì, non era neanche un anno che si conoscevano, ma avevano fatto così tante cose insieme. Abitavano insieme. Avrebbe davvero desiderato di tornare indietro e lasciarlo morire?
«Gliel’ho fatto promettere» mormorò Hildebrand. «Gli ho fatto promettere che se mi fosse accaduto qualcosa... non voglio che succeda di nuovo. Quando morirò, sarà il giorno giusto. Non lascerò che qualcuno sprechi il suo dono per me mai più. E pensavo... pensavo che avesse capito. È una maledizione, non un dono. Nessuno deve usarla per me, e io non la userò mai.»
«Quindi se perdessi Dameta, o Solomon, o chiunque altro...»
«La morte fa parte della vita. È così che deve andare.»
No, non poteva credere a questo. Una possibilità di generare la vita, cosa c’era di più meraviglioso? Poter salvare una persona amata, avere un bambino. Non era una maledizione. Esta amava gli umani, non avrebbe mai dato loro un dono così crudele.
«E se non dovesse andare così per forza?»
Hildebrand sollevò infine lo sguardo su di lui. «La tua ingenuità mi fa tenerezza.»
Chissà come doveva essere, sentirsi rifiutati dalla propria madre in quel modo. Anche Everard aveva perso entrambi i genitori, ma non così. Lui poteva ancora aggrapparsi al fatto che lo avevano amato tanto.
Chissà se c’era questo, dietro il suo atteggiamento scontroso. Chissà se era solo fatto così o se quel primo rifiuto l’aveva inasprito.
Everard prese un profondo respiro. Non c’era tempo per iniziare a discuterne. «Come sta Richard? Il colpevole è stato fermato?»
Il volto di Hildebrand tornò al solito sguardo annoiato. «Richard sta bene. Sta dormendo, credo. Continuava a ronzare intorno al rifugio, era preoccupato per te, Edmund si è stancato di sopportarlo e l’ha messo fuori uso per un po’. È odioso, ma ogni tanto persino lui riesce ad accendere il cervello.»
«E l’attentatore?»
Lui si strinse nelle spalle. «L’ho acchiappato personalmente. Non so che ne faranno, immagino che Richard attenderà consiglio dal suo...» gesticolò verso di lui con una smorfia. «Dal suo consigliere.»
Fantastico. Come se non avesse abbastanza cose a cui pensare.
Sentì Solomon stiracchiarsi tra le sue braccia e sobbalzò. Abbassò gli occhi su di lui, aveva accartocciato il volto in una smorfia assonnata. Gli si strinse il cuore dalla paura.
E se avesse aperto gli occhi già pentito di quello che aveva fatto?
Lo sentì farfugliare qualcosa di incomprensibile, la bocca impastata. «Ehi. Ehi, stai bene?»
Lui arricciò le labbra, turbato, aprì gli occhi e cercò subito il suo sguardo. Le pozze verdi che sapevano del bosco lo inchiodarono sul posto. «Bruciatelo.»
Everard si accigliò, sentì Hildebrand sistemarsi meglio sul suo letto. «Scusa, cos’ha detto?»
«Ha detto–»
«Bruciatelo» ripeté Solomon. «Quel bastardo ti ha quasi ucciso.»
Non quello che si aspettava di sentire al suo risveglio, e di sicuro niente che approvasse, ma quella frase lo fece sorridere lo stesso.
Solomon era sempre tanto dolce, ma ricordarsi che poteva essere letale – e che lo sarebbe stato per difenderlo – era bello.
Non mentiva a sé stesso, sapere che c’era qualcuno al mondo che avrebbe – che aveva – ucciso per lui gli provocava la giusta dose di orgoglio.
Sorrise. «Non mi sembra una grande idea, purtroppo.»
«Perché?»
«Non lo so» esclamò Hildebrand, che al vederlo riprendersi sembrava sollevato. «Forse perché se lo bruciasse diventerebbe come suo zio e poi ci toccherebbe spodestarlo di nuovo?»
«Che bello, facciamolo. Perché lo teniamo sul trono? Decidiamo comunque tutto noi e lui non ci sta nemmeno simpatico.»
Everard abbassò il volto e gli baciò la fronte, il druido sospirò felice tra le sue braccia. «Sei davvero un tipo strano, te l’hanno mai detto?»
Lui non rispose. Si stiracchiò ancora, tanto da far scricchiolare le ossa indolenzite. Si rigirò nel letto senza scappare dal suo abbraccio, premette la schiena al suo petto e si lasciò stringere, poi si rivolse al fratello. «Non è morto. Non ho usato il dono. E se l’avessi fatto, non sarei diventato comunque uno stronzo.»
Quello catturò l’attenzione di entrambi. Hildebrand pareva turbato. «Hai detto di aver usato la magia di Esta, non quella di Ingar.»
«È così. Esta mi ha aiutato a guarirlo, non a riportarlo in vita.»
«Non è così che funziona! Esta non dà poteri curativi.»
«Forse non li darà a te, ma l’ha fatto. Fidati, se avessi usato il mio dono me ne sarei accorto.»
«Ma non–»
Solomon sospirò. «Hilde. Fidati di quello che ti dico, va bene? Non ho usato il dono di Esta, e se mai l’avessi fatto sarebbe stata una mia scelta consapevole. Capisco come ti senti ma non siamo tutti uguali, e proprio perché so quanto sei stato male non farei mai la stessa cosa a qualcun altro. Hai capito?»
Gli occhi di Hildebrand erano tornati umidi. «Ma tu stai bene, vero? Ti sei ripreso?»
Che faccia tosta. Quando si era preoccupato lui, gli aveva assicurato che Solomon stava benissimo ed era soltanto addormentato.
«Certo che sto bene. Potresti lasciarci un minuto?»
Neanche rispose. Con un saltello fu giù dal letto, rivolse un’ultima occhiata al fratello e gli intimò: «Non stancarti troppo. Vado a dire a Edmund che sei sveglio. Non ha gradito molto essere stato disturbato per nulla.»
Detto ciò, se ne andò.
Everard chiuse gli occhi e tentò di rilassarsi, in un lento respiro. Sentì Solomon che si voltava ancora e si orientava verso di lui, così si sporse in avanti e cercò la bocca del druido con la sua.
Solomon non esitò oltre. Si modellò sulle sue labbra, fece scorrere le mani tiepide su per il busto e poi scivolarono dietro la nuca per affondare nei ricci morbidi. Il suo sapore era dolce, familiare, e per una volta la tenerezza con cui lo stava baciando non si infiammò in desiderio.
Si concesse di soffermarsi sul suono del suo respiro, e sul tepore del suo tocco. Stavano bene. Erano insieme. Nient’altro aveva importanza, per il momento.
«Dimmi che non farai più una cosa tanto stupida senza dirmelo.»
Aprì gli occhi per guardarlo in volto. Era stanco, e pallido, e tremava, così lo strinse più forte. «Non farò più una cosa così stupida senza dirtelo.»
«Promettimelo.»
«Te lo prometto.»
«Non voglio arrabbiarmi con te adesso, ma se succederà ancora lo farò. Non starò male come oggi perché tu non vuoi dirmi che succede.»
«Se può essere d’aiuto, Richard mi ha ordinato di non dirtelo. Pensava che saresti stato contrario.»
«Quel bastardo!» esclamò, indignato. «Codardo, sapeva che mi sarei opposto perché ti ha usato come scudo. Gli hai pure dato il pugnale, si può sapere cosa ti passa per la testa?!»
Everard si fece più piccolo. «Non si era detto che non ti saresti arrabbiato?»
Dopo un attimo di esitazione Solomon si sgonfiò, pur mantenendo una smorfia crucciata che gli fece solo venire voglia di baciarlo. «Hai ragione, scusa, ma non puoi mettere la vita di quell’idiota prima della tua. Non devi farlo più.»
«Solomon, quell’idiota è il re e io sono il suo più alto funzionario. Se non metto io la sua vita prima della mia, chi mai potrà farlo?»
Lo guardò come se avesse pronunciato una totale assurdità. «Non mi interessa affatto.»
«Oh, andiamo–»
«No, sul serio. Ho ammazzato Jasper perché metteva in pericolo le persone che amo. Non credere che con Richard sarà diverso se continuerà a farlo.»
Everard schiuse le labbra, eppure non riuscì a tirare fuori un solo fiato.
Le persone che amo.
Non parve essersi accorto di ciò che aveva detto, perché si adombrò di perplessità quando lo vide lasciar cadere il silenzio per stare a osservarlo.
Dato che lui non aveva risposto, il druido raccolse le mani nelle sue e sospirò. «Il viaggio è finito, adesso. Metteremo a posto le ultime questioni a Beltann, abbiamo lasciato degli uomini a favorire l’inserimento di Richard, e potremo tornare al castello. Tua sorella sta partendo, quando tutto sarà tornato alla normalità avremo tempo per noi. Potremo andare da qualche parte come avevamo deciso, un posto lontano dove stare io e te per un po’. L’unica cosa importante è che, qualunque testa vuota si infili quella corona, noi restiamo al sicuro. Non mi interessa altro.»
Già. Solomon era fatto così, era ciò in cui riuscivano a essere più diversi in assoluto. Non la magia, e neanche la cultura – anche se quelle influivano tanto.
Solomon aveva dato la caccia a Jasper perché Jasper aveva dato la caccia al suo popolo. Everard aveva dato la caccia a Jasper perché era giusto farlo. Certo, per mano sua era diventato orfano, ma non era mai stato quello.
A volte, la capacità di Solomon di dimenticarsi del resto del mondo lo spaventava.
Forse era la diretta conseguenza di aver vissuto rinchiuso solo con la sua famiglia così tanto tempo.
Everard unì la fronte alla sua, gli accarezzò la nuca in un gesto affettuoso. «Voglio ritagliarmi un po’ di tranquillità almeno quanto te. Vedrai che ce la facciamo.»
Dopotutto, non c’era più bisogno di scegliere tra ciò a cui tenevano e ciò che era giusto. Non importava che avrebbero preso ognuno la decisione opposta, se mai fosse arrivato il momento. Era una decisione a cui nessuno li avrebbe messi davanti mai più.
Note autrice
Eccoci qui!
Nel prossimo capitolo tornerà Sigga, tornerà Frederick, e soprattutto Everard tornerà al castello. Anche Richard, Hildebrand e Solomon, ma temo che loro non li vedremo – quantomeno non nella prossima parte.
In questo capitolo ci sono parecchi indizi per ciò che accadrà più avanti. In tutte e tre le parti, ma soprattutto nell’1.2 e in questo 1.3
Abbiamo infine scoperto cosa è successo tra Astrid e Hildebrand. Questo libro si chiama Amma della Mente, che è la dea servita da Astrid, e che sia stata menzionata già nel primo capitolo non è un caso: avrà un ruolo narrativo importante. Che ne pensate del suo personaggio? Per ora avete conosciuto più Edmund – il suo nuovo amabilissimo figlio putativo – ma avete avuto un assaggio anche di lei nel primo libro.
Nel capitolo due ci saranno anche alcuni sviluppi sul cliffhanger dell’epilogo di Tanvar, ma non nella prima parte. Comunque, ho finito coi capitoli nuovi e posso iniziare con la revisione vera e propria... ciò significa che andrò più spedita.
Restate sintonizzati!
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