1.2 // La Città degli Elfi

Quando il tempo passato fu abbastanza, Everard chiese a Frederick di coprirgli le spalle. Il ragazzo si sistemò in modo da coprire la visuale, e lui si sedette per terra a gambe incrociate giocando col pugnale e il passante in legno che bloccava la porta della cella. Mani umane non avrebbero mai potuto farlo scattare, ma con la lama nelle sue mani ecco che tutto diveniva possibile.

Sigga non stava più nella pelle, il momento della verità si avvicinava, di lì a poco avrebbe scoperto se Clarice era ancora viva, se stava bene. Sentì un’ondata di emozione travolgerla, e per un attimo fu sopraffatta da un feroce, devastante senso di speranza. 

L’avrebbero trovata, sì. Lo sapeva, lo sentiva.

Per un momento fu catapultata ai vecchi tempi, quando le guardie li arrestavano ed Everard li tirava sempre fuori, con quel suo pugnale, infiltrandosi alla guardia e scassinando la cella con la sua arma preferita, la sua fedele compagna. Allora sgattaiolavano tutti fuori sulla strada e Frederick come premio gli stampava un bacio sulle labbra.

Quella volta però era diverso. Erano molto lontani da Bürgann, e a stento vedevano a un palmo dal naso. La serratura che Everard stava cercando di forzare era di legno, non di ferro, e chi li aspettava fuori da quelle sbarre di rami intrecciati non erano le inesperte guardie della corona, ma degli elfi pronti a entrare nella loro mente e costringerli a rientrare lì dentro. Evitare il contatto visivo sarebbe stato fondamentale. In più, dubitava che Frederick avrebbe baciato Everard come premio, questa volta, anche se durante il viaggio li aveva visti più vicini del solito.

“Ma che sta facendo quello?” chiese una donna, strabuzzando gli occhi e guardando verso Everard che armeggiava con la serratura, concentrato. 

“Ci ho già provato ragazzo, senza la chiave non c’è verso di aprire quella roba.”

Maledizione, pensò Sigga. Quegli umani avrebbero rischiato di attirare l’attenzione su Everard. 

Si guardò intorno, fuori dalla cella. Gli elfi sembravano non fare caso a lui, semi nascosto sotto Frederick, che stava in piedi a schermarlo alla vista. 

“Ho qualcosa di meglio di una chiave,” sussurrò Everard, per poi trattenere a stento un verso di vittoria all’apertura della porticina. 

I presenti intorno a lui sussultarono.

“Il ragazzo ha aperto la porta!” fece uno.

“Silenzio, o ci sentiranno!” disse un altro.

Una ragazza molto giovane, che sino a quel momento stava piangendo terrorizzata, si asciugò le lacrime con la manica e sbatté le palpebre incredula, davanti alla porta aperta.

“Tutti calmi,” disse Frederick, in un sussurro. “Se si accorgeranno che abbiamo aperto la porta requisiranno il pugnale e ci chiuderanno di nuovo qui dentro. Ci serve tempo.”

“Tempo? Tempo per cosa?” disse la prima donna che aveva parlato. “Usciamo subito, scappiamo!”

“Ci riporterebbero dentro dopo averci ammaliati,” disse Everard, alzandosi in piedi. “Prima ho da fare una cosina,” disse, con un ghigno. Tirò fuori un qualcosa dalla tasca e il suo sorriso si allargò.

“Cos’è quello?” domandò un uomo nerboruto che stava rannicchiato vicino alle sbarre. La porta era rimasta socchiusa, per non far capire agli elfi che era stata aperta a un primo sguardo.

“È un acciarino!” esclamò la donna, la più vicina.

“Questo posto è fatto di legno e pelli, e coperto di grasso. Brucerà come un cerino,” disse Everard. “Ora appiccherò fuoco alle gabbie, questo dovrebbe darci modo di fuggire. Loro hanno paura del fuoco, e chiuderanno gli occhi per la luce improvvisa, non dovrebbero poter ammaliarci in questo modo.”

“Come hai fatto a portarlo qui? Ci hanno ammaliati prima di entrare e ci hanno fatto consegnare tutte le armi e gli oggetti pericolosi!”

“Non siamo stati portati qui con la forza,” disse Sigga. “Siamo venuti qui di nostra volontà, nessuno ci ha ammaliato per farlo. Siamo qui per liberarvi.”

Dei sussurri iniziarono a dipanarsi per la cella, gli umani là rinchiusi che  cominciavano ad animarsi di nuova speranza.

Everard accese l’acciarino e lo avvicinò a della paglia che legava due sbarre insieme. L’intreccio, unto col grasso per fissarlo a mo’ di collante, prese fuoco subito e avvampò, creando una fiammata che divorò subito buona parte della cella. 

“Adesso!” esclamò, spalancando la porta e correndo all’esterno. 

Gli umani che erano con loro si precipitarono fuori dalla gabbia, per non essere investiti da fuoco che già ne consumava almeno la metà, diffondendosi sulla paglia secca e unta come un enorme fiammifero. 

Gli elfi, come previsto, si schermarono gli occhi con le braccia e li serrarono, spaventati. Urla disumane iniziarono a diffondersi per l’accampamento, la cella ormai del tutto divorata dalle fiamme. 

Gli uomini cominciarono a correre verso l’uscita, mentre Everard nella direzione opposta, diretto alle altre celle. Gli umani là dentro avevano iniziato a urlare, a far segno di andare ad aiutarli, ed era proprio quello che suo fratello stava facendo, seguito da Frederick. Alcuni elfi, ripresi dallo shock, stavano inseguendo gli ostaggi che correvano verso il termine delle caverne, mentre Sigga vide un altro che puntava una lancia contro Everard, che era arrivato alla seconda cella e stava cercando di aprirla col pugnale, da fuori molto più facile che dall’interno.

“Attento!” gridò, fu Frederick ad accorgersene.

Strattonò Everard per un braccio, tirandolo a sé, e la lancia andò ad atterrare su un ragazzo dentro le celle, colpendolo al fianco. Lui urlò e barcollò all’indietro, sorretto da una compagna che aveva accanto. Un uomo gli strappò la lancia dal fianco e se la soppesò in mano, pronto a usarla per farsi strada nella calca fuori dalla grotta.

Everard tornò alla serratura, e finalmente riuscì a spalancare la porta della seconda cella. Le urla si alzarono più forti, e gli ostaggi corsero fuori, investendo due elfi che erano accorsi a fermarli. Sigga vide Everard incendiare anche quella gabbia, che come un cumulo di paglia prese fuoco subito, divampando e aumentando la luce nel sotterraneo. 

“Vai ad aprire le altre,” disse Everard, rigirandosi l’acciarino tra le mani.

“Perché? Cosa vuoi fare?” chiese Frederick, gli occhi spalancati dalla paura brillavano alla luce del fuoco.

“Vado a bruciarli nelle tende come  maledetti topi.”

Molti elfi si erano rifugiati dentro le loro tende per ripararsi dal calore e dalla luce del fuoco, loro che erano abituati a vivere al freddo e al buio totale. Everard corse verso una di esse, tenendo lo sguardo fisso a terra. Intorno a lui l’incendio si propagava per il pavimento sporco di grasso, e gli elfi rimasti all’esterno correvano alla cieca cercando di non guardare per non ferirsi gli occhi, a recuperare gli ostaggi fuggiti tra urla strazianti.

Sigga registrò appena che Everard aveva raggiunto la tenda più vicina, un pensiero la colpì come una frustata.

Clarice.

“Clarice!” gridò, superando le urla di umani e elfi che ora animavano la caverna e tentavano di scappare da ogni parte, calpestandosi e creando un caos infernale. “Clarice! Ci sei?”

Raggiunse Frederick alla terza cella, appena in tempo per vederlo spalancare la porta e liberare tutti quelli al suo interno. Cercò con lo sguardo per trovare la ragazza tra loro, ma non ce n’era traccia. 

“Clarice! Dove sei? Clarice!” gridò, correndo verso la terza cella. 

Intanto una tenda di elfi aveva preso fuoco, e la caverna iniziava a riempirsi di fumo, l’aria si stava facendo irrespirabile. Non avevano considerato quel particolare quando avevano riflettuto sul loro piano, avevano pensato a come il fuoco potesse essere letale per gli elfi, non per loro stessi. 

Tossì e si alzò il colletto della veste, coprendosi la bocca e il naso. Arrivò alla quarta cella, gli umani al suo interno picchiavano per uscire. “Clarice!”

In quel momento la vide. Era là, ammucchiata con tutta quella gente, stesa in terra e senza dare il minimo segno di volersi alzare con gli altri. Era viva, o almeno lo sembrava. 

“Clarice! Clarice, rispondi!”

Cercò a tentoni l’apertura della gabbia, e la trovò dopo un altro colpo di tosse. C’era caldo ora, un caldo atroce, e le fiamme continuavano ad aumentare. Il fuoco era scappato di mano a Everard, questo era chiaro, eppure lui continuava ad avanzare verso le tende e fare scattare il suo acciarino, facendole ingoiare dal fuoco e spingendo gli elfi a fuggire terrorizzati. Spinse forte il passante che portava all’entrata della cella e scattò. Le persone al suo interno la travolsero per uscire, e lei sgomitò per andare contro corrente e raggiungere la ragazza, che era rimasta all’interno.

C’era un’altra persona con lei, una donna, inginocchiata accanto a lei e che le parlava a bassa voce, sussurrandole qualche parola di conforto. Clarice era stesa in terra, si teneva il fianco con una presa debole, i suoi vestiti macchiati di sangue secco. Era ancora vestita come la volta che l’aveva lasciata lì, dopo settimane, e i suoi abiti puzzavano di chiuso e di sudore, Sigga poteva sentirlo anche con la sua veste premuta sulla bocca e sul naso. Aveva gli occhi socchiusi, rivolti verso la donna che le stava parlando, e annuiva.

“Clarice!” esclamò, gettandosi a sua volta in ginocchio accanto a lei. “Clarice dobbiamo andare!”

La ragazza le rivolse un breve sguardo, poi chiuse gli occhi. “Sigga,” mormorò. “Sto morendo, vero?”

“Certo che no,” rispose lei, poi si rivolse alla donna che era presente. “Aiutami a tirarla su.”

“La ferita si è infettata,” disse lei, alzando le spalle. “Non credo farà più di qualche metro.”

La ferita che si era presa salvando lei, la lancia nel fianco. Non era sorprendente che si fosse infettata, dato che la cella versava in condizioni igieniche disumane. “Dobbiamo portarla via,” disse. “Vado a chiamare aiuto.”

Le passò una mano sulla guancia e su alzò veloce e affannata. “Resta qui,” ordinò alla donna, poi corse fuori dalla cella ormai quasi vuota. 

Frederick continuava a liberare gli umani nelle celle vicine, gliene mancavano poche ormai, così lei si rivolse verso Everard. Le si gelò il sangue nelle vene. Gli elfi fuggivano da lui, spaventati dal potere del fuoco, tutti tranne uno. L’elfo più grosso, quello alto che aveva conferito con il druido, avanzava verso di lui con un pugnale d’osso in mano, e il ragazzo sembrava esserne del tutto ignaro.

Sigga saltò in avanti, aggrappandosi alla schiena della creatura, saltandole a cavalcioni sulla schiena per non permetterle di guardarla in faccia e ammaliarla come avrebbe di certo tentato di fare. La creatura mandò un urlo acuto, assordante, e tentò di strapparsela di dosso. Lei resse, aggrappata con le braccia e con le gambe a quel mostro.

Sentendo l’urlo disumano, Everard si voltò e li vide. Abbassò lo sguardo, per non farsi ammaliare, e corse ad aiutare la sorella. Si avvicinò a loro, il pugnale tra le mani, quando non vide una manata dell’elfo che si abbatté su di lui, all’altezza del suo sguardo, e lo sbatté a terra. Sigga iniziò a stringergli il collo per soffocarlo, e lo sentì tremare e rantolare sotto la sua presa. 

“Sigga!” urlò Everard, che si stava rialzando dolorante. “Cavagli gli occhi! Cavagli gli occhi!”

E lei lo fece. Lasciò la gola dell’elfo che prese una boccata d’aria raspante e famelica, e fece risalire le mani al suo viso. Lui iniziò ad agitarsi e lei fu sul punto di mollare la presa, ma strinse le gambe e resse ancora una volta. Trovò il suo volto e lo tastò, in cerca degli occhi dalla enorme pupilla. Quando li trovò, premette i polpastrelli più forte che poté, penetrando nella pupilla come gelatina, sentendolo gridare dal dolore atroce e agitarsi per tirarsela via di dosso. Fu Everard ad avvicinarsi, con sguardo basso, ora che le mani dell’elfo erano occupate con lei. 

La creatura mise di nuovo quel verso stridulo e acuto mentre il ragazzo si avvicinava, anche se non poteva vederlo. Everard teneva il pugnale davanti a sé, e glielo piantò nello stomaco sino all’impugnatura, per poi farlo salire su verso il torace, aprendo uno squarcio nella sua pelle vischiosa. Sigga saltò giù non appena quel corpo collassò a terra con uno schianto, al centro di quella caverna invasa dalle fiamme, ormai colma di fumo nero.

“L’abbiamo fatto!” esclamò Everard vittorioso, coperto di sangue nero colato dalle ferite del mostro. “È morto! L’abbiamo ucciso!”

“Andiamo,” disse Sigga, prendendolo per un braccio. Tossì di nuovo, la sua veste si era abbassata lasciando bocca e naso scoperti. “Dobbiamo uscire di qui, mi servi per portare fuori Clarice.”

“L’hai trovata?”

“È ferita,” rispose. “Bisogna trasportarla. Puoi finirla di dare fuoco a tutto, questo posto sta venendo giù comunque.”

Everard si rimise l’acciarino in tasca e annuì. Frederick aveva finito di liberare gli umani nelle celle e si avvicinò a loro di corsa. “Sei coperto di sangue,” disse, il suo sguardo non vedeva altri se non Everard. “Sei ferito?”

“Non è mio,” rispose lui, rassicurandolo. “Vieni, devi aiutarmi a tirare fuori Clarice.”

“Clarice è viva?” la sua voce, colma di sorpresa e di speranza, indispettì Sigga.

“Non sei stato tu a dirmi per giorni che l’avremmo trovata di sicuro?”

“Sì, ma non ci credevo davvero! Era solo per tirarti su!”

“Smettetela di litigare,” disse Everard, strattonandoli entrambi verso le celle. “È ora di andare.”

Camminarono facendosi strada nel fumo che riempiva la caverna e intasava loro i polmoni, grattandoli da dentro. Le lingue di fuoco illuminavano la grotta, che non aveva mai visto tanta luce tutta insieme. L’accampamento degli elfi era in fiamme, le tende divorate dal fuoco che Everard aveva fatto infuriare su di loro, la maggior parte delle celle un cumulo di cenere e carbone. La luce vermiglia dell’incendio allungava le ombre e faceva sembrare le spoglie delle tende e delle celle lunghe dita che si allungavano verso il soffitto granitico. Solo la tavola di pietra, un altare costruito proprio al suo centro, era ancora in piedi intonsa, non toccata dal fuoco, le macchie di sangue rappreso e fresco che brillavano alla luce delle fiamme.

Giunsero alla cella in cui si trovava ancora Clarice, la donna a cui Sigga aveva chiesto di restare doveva essere scappata. Non poteva biasimarla. La cosa importante in quel momento era che Clarice era viva, viva davvero. Le si avvicinò e incoraggiò Everard e Frederick a prenderla, così se la caricarono, le sue braccia sulle loro spalle. La ragazza emise un verso di dolore quando la sollevarono, di certo per via della ferita infetta, ma loro la trasportarono senza indugio, con Sigga che faceva strada. 

Clarice era leggera, magra e denutrita, ma molto debole. Non li aiutava nel loro cammino, e furono costretti a trascinarla di peso come una bambola. Sigga guidava il gruppo, si era rialzata il colletto della veste e respirava a fatica, cercando di orientarsi alla luce del fuoco nonostante il denso fumo nero che riempiva la caverna. Erano gli ultimi rimasti là dentro, tutti gli altri erano già fuggiti, e non ebbero problemi ad arrivare all’entrata della grotta e passare il lungo corridoio verso l’uscita. 

Una volta fuori, videro qualche umano smembrato, di certo dagli elfi che erano scappati fuori dalla città ormai alle fiamme e imbattutisi in quegli uomini fuggiti a loro volta.  

Una lunga colonna di fumo usciva dall’imboccatura della caverna e si alzava verso il cielo, superando le fronde degli alberi e venendo portata via dal vento. 

Era giorno, ma le fronde erano chiuse su di loro e nessun raggio di sole raggiungeva il terreno sottostante, il che significava che gli elfi sarebbero potuti tornare in un qualsiasi momento. Essere usciti da là, almeno, significava che in quel momento potevano di nuovo respirare liberi l’aria pulita e fresca del bosco.

Everard e Frederick si allontanarono tra gli alberi, portando Clarice insieme a loro, per non restare proprio davanti all’imboccatura della grotta ed evitare che delle altre creature oscure li sorprendessero lì se avessero deciso di tornare a casa loro, per recuperare quello che c’era ancora da salvare. 

Quando furono abbastanza lontani, vicini alla fonte del Pynn di cui sentivano l’acqua scorrere, la posarono stremati sul terreno umido della foresta. 

Lei era semi cosciente, tutto quel fumo non le aveva fatto bene, e sembrò non rendersi conto che in quel momento era fuori, al sicuro coi suoi amici. Non sembrò rendersi conto che l’avevano salvata, se ‘salvata’ si poteva definire, tenendo conto che sembrava prossima alla morte in ogni caso. 

Sigga si sentì prendere dall’angoscia. E se tutto quello che avevano fatto non fosse servito a niente? Se avessero tirato fuori la loro amica solo per vederla morire davanti ai loro occhi?

Cadde in ginocchio accanto a lei un’altra volta. Le prese il volto tra le mani e si chinò verso di lei.

“Clarice,” sussurrò, sfiorandole il volto. “Clarice, mi senti?”

La ragazza socchiuse gli occhi e la guardò, confusa.

“Sigga…” mormorò, “sono morta, non è vero? Sei venuta per me.”

“Non sei morta. Siamo venuti a prenderti, capito? Devi tenere duro, solo un altro po’.”

“Vado a prenderle dell’acqua,” disse Frederick. “Ha bisogno di idratarsi e di lavare la ferita. Poi la porteremo in città, la faremo vedere da un guaritore. Si riprenderà.”

Everard si alzò in piedi. “Da adesso dovrete proseguire da soli. Io vado alla cittadella, devo avvertire i druidi del pericolo.”

“Non puoi lasciarci da soli,” protestò Frederick. “Abbiamo bisogno di te. Come faremo a portarla a Rigann in questo stato senza di te?”

“Siete in due, ce la farete. E ormai non c’è più pericolo, gli elfi se ne sono andati. Ve la caverete…”

Sigga annuì. Lo guardò, e anche se in lei tornava a serpeggiare dell’angoscia all’idea di essere di nuovo separata da lui disse, “Devi andare. Vai.”

Capiva che Everard aveva bisogno di andare alla cittadella almeno quanto lei aveva avuto bisogno di trovare Clarice nella città degli elfi. Non avrebbe potuto controllare quella necessità, neanche con tutto il bene del mondo. E aveva ragione, ormai loro stavano bene.

“Non puoi dire sul serio!” esclamò Frederick, indignato. “Non puoi davvero lasciarlo andare via così!”

“Non posso lasciare che muoiano tutti, Freddie. Lo sai. Non puoi volerlo.”

“Sono faccende da druidi. Non ci riguarda più quello che fanno, se vogliono farsi la guerra tra loro o se vogliono ammazzarsi a vicenda, a noi non importa più.”

“Importa a me.”

“Lo so perché ti importa. Per chi ti importa, io lo so. Stai commettendo un grosso errore.”

“Non renderla una cosa personale!” protestò Everard. “I druidi sono amici. Non posso lasciare che muoiano senza neanche sapere perché.”

“Amici…” sussurrò lui, amareggiato. “Non è la parola che avrei usato io.”

“Si può sapere che ti prende?”

“Che mi prende? Che mi prende?” chiese Frederick, alzando la voce. Sigga avrebbe voluto dirgli di abbassarla, di fare silenzio o gli elfi avrebbero potuto trovarli, ma non ne ebbe modo. Non ne ebbe modo perché lui riprese subito a urlare. “Mi prende che tu continui a lasciarmi per ogni motivo possibile! La scorsa volta era un lavoro, una casa, questa volta sono i druidi, tu continui ad andartene! E io mi sono stancato di non essere mai la tua priorità!”

“Tu sei la mia priorità, Freddie. Come lo è Sigga. Solo che al momento avete meno bisogno di me.”

“Balle! Tu ci vuoi lasciare in mezzo alla foresta con Clarice ferita per andare a raggiungere quel tuo druido che ti ha solo preso in giro! E io, che sono sempre rimasto con te, che ho sempre fatto quello che dicevi, che non mi sarei mai sognato di farti quello che ti ha fatto, che cos’ho in cambio? Niente! Vengo mollato da solo ogni volta che non ti servo più!”

“Non è così!” Everard sembrava sconvolto da quel fiume di parole. “Non è così Freddie, lo sai. Tu sei la mia priorità, io ti voglio bene…”

Bene non è abbastanza! Non è mai stato abbastanza per me, non lo capisci?”

Everard lo guardò, arreso a quello che Frederick stava dicendo, sul suo volto la comprensione di quello che stava accadendo e l’angoscia palpabile di non poter dare al suo amico quello che voleva.

“Io devo andare. Devo andare Freddie, mi dispiace. Devo salvarli. Voi starete bene. E quando tornerò… quando tornerò ne parleremo. Te lo prometto. Sistemeremo tutto. L’abbiamo sempre fatto, giusto? Siamo sempre stati insieme.”

Frederick sembrava avere perso d’un tratto tutta la sua rabbia. Si era sgonfiato come un palloncino, e sembrava stanco, esausto. “Vai, allora. Vai a salvare chi devi salvare. Lasciaci pure qui. Ma non ti assicuro che mi troverai quando tornerai.”

Sigga sapeva che stava mentendo. Sapeva che Frederick non si sarebbe mai allontanato da lui, sapeva che sarebbe sbollito e sarebbe tornato tutto come prima.

“Devo andare adesso. Ma sei importante per me Freddie, sei una delle persone più importanti per me. Questo non cambierà mai. E se fossi stato tu che saresti dovuto morire… se fossi stato tu sarei venuto da te con la stessa determinazione. Sarei venuto da te anche se ci fosse stato Richard ad aspettarmi, Clarice ferita, e Sigga in mezzo al bosco. Lo avrei fatto anche per te, devi saperlo.”

“Vai,” rispose Frederick, a voce bassa. “Fai quello che devi. Non perdere altro tempo. Noi staremo bene,” disse, voltando la testa e rifiutandosi di guardarlo.

Everard lo fissò ancora qualche istante, lo guardò e aprì la bocca per aggiungere qualcosa, poi scosse la testa. Si abbassò verso Sigga e le stampò un bacio sulla tempia, poi passò la mano tra i capelli di Clarice. “Sicura che posso andare?” chiese a bassa voce.

“Sicura. Me la caverò,” rispose la ragazza, anche se il cuore le correva nel petto. 

Lui annuì. “Perdonami,” disse, rivolto verso Frederick. Poi si chinò, raccolse la sua bisaccia, e si mise a correre.

“Vado a prendere dell’acqua,” disse Frederick, in tono cupo. 

Sigga restò con Clarice, sola in mezzo al bosco. La ragazza era mezza incosciente, andava e veniva da stati di veglia a stati di sonno, e non sembrava aver ancora realizzato che era davvero fuori dalla caverna al sicuro.

Sigga le si sdraiò accanto, le sue parole continuavano a ronzarle nella testa da quel lontano giorno di settimane prima.

Perché ti amo. Sigga, io ti amo. 

“Non lasciarmi,” sussurrò al suo orecchio. “Clarice, non lasciarmi proprio adesso.”

La ragazza sembrò rispondere a quella chiamata. La sua mano debole e senza forze sfiorò quella dell’amica in un tocco impercettibile. 

“Sigga,” mormorò di nuovo, chiamandola per nome. 

“Sì? Cosa c’è?” chiese lei, col cuore in gola.

“Sta succedendo davvero?”

“Sì,” rispose lei, passandole la mano tra i capelli. “Sì, sta succedendo davvero.”

“Sei venuta a prendermi,” sussurrò incredula.

“Io verrò sempre a prenderti, ricordatelo. Non ti lascerò mai indietro, non importa dove sarai.”

“Non lasciarmi. Non lasciarmi di nuovo…”

“Non ti lascerò più, mai più. Promesso. Sarò sempre con te.”

“Voglio dormire, ora.”

“No,” disse, la sua voce cominciava a spezzarsi dal dolore e dalla paura. “Devi restare sveglia. Sveglia, capito? Fallo per me.”

“Sono stanca. Sono tanto stanca… solo un sonnellino. Un piccolo sonnellino, poi starò meglio.”

“Resta con me,” la pregò. “Resta con me Clarice, per favore. Raccontami del grande furto al mercato. Quello delle patate. Ti piace quella storia, non è vero? Voglio sentirla.”

“Ma la conosci già,” protestò la ragazza, confusa.

“Non importa. Voglio sentirla da te, amo come la racconti. Voglio sentirla con la tua voce.”

“Dopo potrò dormire in pace?”

“Dopo vedremo. Ma ora raccontala, ti prego, fallo per me.”

Così Clarice lo fece. Iniziò a raccontare con voce stentata ed esitante, incespicando con le parole e intervallando le frasi con lunghi silenzi. Arrivò Frederick con la borraccia piena d’acqua e la imboccò amorevole, interrompendo il racconto. Aveva gli occhi rossi, ma sembrava essersi calmato. 

Dopo che la ragazza ebbe bevuto lui tornò indietro al fiume, a prendere altra acqua per lavarle la ferita.

Sigga lo aiutò a spogliarla, togliendole la sopraveste sudicia di grasso, terra e sudore e abbassandole la gonna per scoprirle il fianco. Frederick strappò un brandello della sua camicia, poi lo impregnò dell’acqua portata dal fiume. Avvicinò la stoffa bagnata alla ferita aperta, purulenta e infetta, e la lavò.

Clarice si ribellò, gridando dal dolore e dimenandosi, fu Sigga a tenerla ferma.

“È tutto a posto,” le disse, lo ripeté ancora e ancora. “È tutto a posto, è per il tuo bene. È per il tuo bene.”

“Dobbiamo portarla in città e cercare un guaritore,” disse Frederick, cercando di togliere il fango dalla ferita rovinata con Clarice che guaiva dal dolore.

“Finisci di pulire la ferita e poi la portiamo insieme,” rispose la ragazza. “Rigann non è lontana, e più andremo verso la fine del bosco più gli alberi si faranno radi e gli elfi non si avventureranno sin là.”

Frederick annuì, deciso. “Ce la facciamo,” disse, sembrava essersi ripreso. “Starà bene, vedrai.”

“Lo so. Lei deve stare bene. Non accetterò niente di diverso.”

Note autrice
Ce l’abbiamo fatta, signore, signori e signorə! Siamo fuori dalla città degli elfi, abbiamo portato fuori Clarice e tutto volge per il verso giusto.
Certo, lei è ferita e malnutrita (e destinata a morire comunque, come noi ben sappiamo ma come gli altri ignorano), Everard ha lasciato il gruppo per andare a salvare i druidi, ma diciamo che la situazione è migliorata.
Che pensate della scenata di gelosia di Frederick? Pensate che abbia ragione? E del fatto che Everard ha mollato la famiglia un’altra volta?
Chissà cosa succederà adesso, lo scoprirete solo continuando a leggere!

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