1.1 // La Città degli Elfi
Everard si sistemò la bisaccia che aveva al fianco, sbuffando per il vento che sferzava dall’altopiano. Richard aveva fornito loro una carrozza e un cocchiere per farli arrivare alle pendici dei monti di Belt, in una cittadina chiamata Rigann che stava vicino in linea d’aria al luogo in cui Sigga aveva detto si trovava la città degli elfi, nelle caverne che si insinuavano dentro la montagna. In quel momento il gruppo era appena fuori dalla città, ai confini con la foresta, pronto ad addentrarsi per andare a infilarsi nel covo delle creature oscure.
Questa volta Everard non aveva dovuto nascondersi perché ricercato e braccato da Ingerid – che allora credeva si trattasse di Astrid – e anziché percorrere la via del bosco costeggiando il Pynn sino alla sua fonte aveva potuto percorrere le strade maestre, e da città in città in quattro giorni erano arrivati a coprire lo spazio che Everard aveva percorso in una settimana, camminando nel bosco e cacciando per sopravvivere.
I tre viandanti stavolta, senza nulla da nascondere e coi soldi della corona, avevano alloggiato ogni notte in locanda e si erano fatti trasportare dalla carrozza, senza dover ridursi a dormire di giorno e viaggiare di notte per guardarsi dagli elfi, coperti di terra e sporcizia e stremati per i giorni di cammino.
Dopo la partenza dei druidi per la Cittadella e l’addio di Everard a Solomon era passata qualche settimana prima che si potessero organizzare per mettersi in viaggio, e poi altri quattro giorni di cammino. Everard aveva cercato di non pensare al fatto che non l’avrebbe mai più visto, che era finita davvero tra loro due, ma con scarso successo. Non aveva voluto che lui li seguisse nella loro missione, anche se avrebbe voluto averlo intorno il più possibile, perché sarebbe stato troppo pericoloso. Gli elfi odiavano i druidi e la magia, non poteva permettersi di portarlo con lui.
Avrebbe evitato di portare anche Frederick e Sigga, ma sapeva che non avrebbero mai lasciato Clarice indietro, lo avrebbero seguito a ogni costo. Sapevano dove si trovava la città degli elfi, sarebbero andati a recuperarlo anche se lui avesse deciso di lasciarli alla capitale, al castello.
Con Solomon era diverso. Non avevano più niente di che spartire ora, il druido non aveva nessuna ragione per seguirlo sin lì. Gli aveva detto di no e lui l’avrebbe rispettato, perché Solomon era così. Lui avrebbe rispettato la sua scelta di non averlo intorno, soprattutto dopo aver deciso di chiudere con lui per sempre.
Frederick gli passò un braccio intorno alle spalle quando scese a sua volta dalla carrozza. “Pronto?” gli chiese, superando l’ululato del vento parlandogli all’orecchio.
Il ragazzo annuì. “Dobbiamo fare in fretta. Ogni secondo che passa potrebbe essere un secondo troppo tardi. Non sappiamo quando la sceglieranno per il sacrificio, sappiamo solo che succederà.”
“Sempre che non sia già successo,” aggiunse Sigga, saltando giù a sua volta dalla carrozza sulla terra battuta dal vento e dal sole. “Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere già morta.”
Sigga era stata la persona più provata dalla scomparsa di Clarice. Aveva parlato a suo fratello di ciò che era successo, della sua dichiarazione e del suo sacrificio, e Everard l’aveva confortata durante il viaggio, rassicurandola sul fatto che l’avrebbero portata a casa.
“Non è così,” rispose infatti, come ogni altra volta, guardandosi indietro e osservando la ragazza con aria preoccupata. “Lei starà bene, vedrai. Deve stare bene per forza.”
Sigga aveva i capelli lunghi e ricci mossi dal vento, portava dei pantaloni di fustagno a vita alta e una camicia bianca infilata al loro interno, lo sguardo perso verso l’altopiano. Sembrava malinconica, insicura, una vista inconsueta per lei che era sempre pronta a marciare verso il pericolo. Everard capì che era perché aveva paura di quello che avrebbe potuto trovare in città.
“Andiamo,” disse Frederick, guardandola speranzoso che un po’ di azione potesse tirarla su. “Buttiamo giù quella loro città del cazzo.”
Lei gli rivolse un sorrisino poco convinto, ma sì avvicinò a loro comunque, pronta per andare all’attacco.
Everard si voltò verso Dennis, il cocchiere che li aveva portati sin lì, e lo salutò con un cenno della mano. Era un uomo corpulento, la pelle nera e i capelli radi, ma gli occhi scuri gentili.
“Addio, ragazzi,” disse, rispondendo al saluto. “Che gli dèi vi assistano.”
“Torneremo,” disse Everard, iniziando ad allontanarsi verso la foresta. “Tieniti pronto per riportarci a casa.”
“Vi aspetterò per una settimana, non di più. Questi sono gli ordini. Se tarderete, dovrò dichiarare la vostra morte.”
“Ci metteremo ben meno di una settimana,” commentò Frederick. “Aspettaci e vedrai che tutto andrà bene.”
“Addio,” ripeté l’uomo, che a quanto pareva non riponeva in loro molte speranze. “Spero che il regno di Ingar vi accolga senza dolore.”
Everard percepì che Sigga stava per prenderlo a male parole, forse perché li dava già tutti e tre per andati, e le prese la mano tenendola al suo posto.
“Non ne vale la pena,” sussurrò. “Andiamo.”
Si inoltrarono nella boscaglia, era pieno giorno e gli elfi non sarebbero stati fuori dalle grotte a quell’ora, non lì dove il sole ancora trapelava tra le fronde scosse dal vento degli alberi. Everard iniziò a sentire il cuore che gli batteva nel petto, l’ansia per l’avventura in cui si stavano gettando che gli stringeva le viscere. Strinse più forte la mano di Sigga, che non aveva ancora abbandonato, e guardò Frederick. Frederick, che l’avrebbe seguito in capo al mondo. Frederick, che sapeva non l’avrebbe mai abbandonato.
Non l’avrebbe mai fatto rinchiudere nella sua stanza…
Basta, Everard, si disse. Pensa alla missione. Se non ti concentri non ne uscirai vivo, questa volta.
E di non uscirne vivo non se ne poteva proprio parlare. Doveva restare vigile e in salute per tirare fuori Sigga, Frederick e Clarice sani e salvi. E sapeva che, se anche ne avessero avuto la possibilità, non sarebbero usciti senza di lui. Come lui non sarebbe uscito senza di loro.
Sarebbero entrati in tre e usciti in quattro, o non sarebbero usciti del tutto. Questa era la verità, lo sapevano tutti, quindi avrebbe dovuto sopravvivere per permettere anche a sua sorella e al suo amico di farlo.
Camminarono costeggiando il versante di uno dei monti di Belt alla loro destra, seguendo la roccia della montagna e percorrendone parte del perimetro. Là ai piedi dell’altopiano il vento era più calmo, riparato dalla montagna, e i capelli di Sigga non le frustavano più il volto, si limitavano ad agitarsi dietro la sua schiena in un movimento leggero e carezzevole.
Sentirono lo scrosciare del fiume Pynn in lontananza e, continuando a camminare imperterriti, lo incontrarono insieme alla sua fonte. Gli alberi si erano infittiti in quella parte della foresta, e il fiume, che in quel punto era solo un rivolo di acqua di sorgente, sgorgava dalla montagna in un filo d’acqua cristallina andando a scorrere su un letto di foglie marce e secche e più avanti nel terreno scavato che ne formava il letto. Everard ricordò le parole di Solomon quel giorno alla radura.
Non si può fare il bagno due volte nello stesso fiume.
In quel momento sembrava più reale, l’acqua che scorreva nel Pynn era sempre nuova, in continua rigenerazione, mai la stessa in ogni secondo che passava.
I ragazzi scavalcarono il rivolo d’acqua senza difficoltà, sottile e trasparente là dove ancora non era stato contaminato lungo il suo percorso. Frederick si fermò e bevve dell’acqua direttamente dalla fonte, e i due fratelli lo attesero con pazienza, anche se la fretta era tanta avevano deciso di fare tutto con calma e attenzione.
“Siamo vicini,” sussurrò Sigga, quando il bosco si infittì ancora e i raggi del sole non riuscirono più a trapelare sino a terra. Dovettero strizzare gli occhi per vedere qualcosa, ma se qualcuno sentì la mancanza della magia ebbe l’accortezza di non dirlo ad alta voce.
La foresta era buia e sinistra là ai piedi dei monti di Belt, e laggiù non si udiva neanche più lo scorrere del fiume o il soffiare del vento. Vi era un silenzio innaturale nell’aria, e il bosco assumeva un aspetto spettrale, buio e minaccioso. Persino gli animali erano silenziosi laggiù, forse spaventati dalla grande presenza di creature oscure, e gli unici rumori che sentivano erano quelli dei loro passi e i loro respiri affannosi.
“Ci siamo,” sussurrò allora Sigga. “Fermiamoci qui e aspettiamo.”
Everard poteva scorgere, strizzando gli occhi per via del buio, un’insenatura nella roccia. Una spaccatura sottile, in cui sarebbe entrato massimo un uomo per volta, che portava al ventre della montagna in un intreccio di cunicoli e gallerie.
Il ragazzo lasciò la bisaccia per terra, sulle foglie secche che coprivano il terreno della foresta, perché gli elfi se l’avessero visto arrivare con tutto l’armamentario gliel’avrebbero tolto di sicuro. Prese l’acciarino che aveva portato sin lì – gli elfi erano spaventati dalla luce e dal fuoco – e strinse il pugnale tra le mani, che avrebbe nascosto sotto la fibbia dei suoi pantaloni.
Guardò l’arma cercando di distinguerne i tratti nell’oscurità, osservando il manico d’osso e la lama in purissimo acciaio che l’aveva protetto per tutti quegli anni. Si chiese se gli incantesimi di protezione fossero svaniti ora che non aveva più legami con la persona che li aveva fatti, ma non aveva modo di determinarlo. Il pugnale sembrava lo stesso di sempre, non aveva alcun cambiamento esteriore.
Tanvar, pensò, rigirandosi la lama tra le mani. Fa’ che ne usciamo tutti vivi. Aiutami a portarla fuori da qui sana e salva. Aiutami, ti prego.
C’erano tanti motivi per cui aveva scelto Tanvar per il suo appello divino. Il primo era che, nel caso in cui avesse ancora magia in quel pugnale, si trattava proprio della sua; il secondo era che il dio del fuoco e della guerra avrebbe potuto benedire quella sua impresa segnata dal coraggio; il terzo e più importante era che era stato Tanvar a spedire gli elfi nelle caverne e farli divenire refrattari alla luce del sole, tanti secoli prima, durante le guerre tra umani ed elfi.
Sentì una mano che gli toccava la spalla e sobbalzò. Si trattava di Frederick, riusciva appena a distinguerne i tratti nella penombra. Era vicino, troppo vicino, e parve aver capito la sua disperazione e la sua preghiera.
“Andrà tutto bene,” gli disse. “Vedrai che ce la caveremo. Noi ce la caviamo sempre.”
Ma lui non poteva fare a meno di pensare che forse questo si era trattato solo di un errore. Un grande errore, che gli sarebbe costato la vita. Forse Clarice era già morta, forse tutto questo non sarebbe servito a niente se non a metterli in pericolo.
Ma no, avrebbero dovuto continuare. Clarice era una di loro, non avrebbero lasciato nessuno indietro. E poi era importante per Sigga, troppo, Everard sapeva che se non ci avessero provato lei non se lo sarebbe mai perdonata, non sarebbe stata più la stessa.
Fu proprio Sigga a sedersi per terra, sporcandosi i pantaloni di terra bagnata e foglie marce. Frederick la seguì, abbracciandosi le ginocchia con le braccia come sempre, e infine Everard.
“Ora non ci resta che aspettare,” sibilò la ragazza.
Avrebbero atteso che un gruppo di umani entrasse nella grotta irretito da qualche elfo scuro, e loro si sarebbero uniti al gruppo fingendo di essere presi dall’ipnosi a loro volta.
Everard tirò fuori dalla sua bisaccia della carne secca e delle noci, e mangiarono seduti per terra in attesa di sentire del movimento intorno a loro, in silenzio per non allertare gli elfi o gli umani che portavano con loro. Lui si trovava al centro, tra il ragazzo e sua sorella, Sigga con la testa appoggiata sulla sua spalla e Frederick con la mano sulla sua gamba, in cerca di conforto. Cercò di calmare i suoi respiri e di rilassarsi, chiudendo gli occhi e ascoltando i suoni della foresta intorno a lui, appena percettibili nel silenzio della sera.
Non dovettero aspettare più di due ore, che da passare fermi e in silenzio sarebbero state troppe per chiunque tranne che per loro, già abituati agli appostamenti in città.
Sentirono rumore di passi e aguzzarono la vista nel buio pesto della foresta, ormai il sole era calato, e scorsero con difficoltà una decina di umani che camminavano verso la grotta a passo spedito, impossibile determinare le loro fattezze in quel buio, con un’ombra nera alle loro spalle, una creatura alta e dinoccolata dalla pelle grigiastra e verde sporco che si confondeva con i colori del bosco.
È il momento, pensò Everard, col cuore in gola. Attesero che l’elfo e i suoi prigionieri sparissero all’interno della grotta e li seguirono, lasciando la bisaccia per terra lungo il perimetro dello strapiombo accanto a loro.
Con il cuore impazzito, strinse forte la mano della ragazza e dopo uno sguardo preoccupato a Frederick si infilò nell’apertura della roccia, dove tutto piombò nell’oscurità più totale.
Sigga strinse la mano di suo fratello nella sua, e Everard rispose alla stretta. Come la prima volta che era entrata là dentro non vedeva nulla, ma seguì il rumore di passi degli umani e dell’elfo che erano entrati prima di lei, confondendosi in quel gruppo, seguita da Everard e Frederick. Il giorno in cui era fuggita con Amrit non le era mai sembrato più vicino, e per un attimo fu come se fosse appena accaduto, come se fosse appena riuscita a svignarsela da quel posto orribile e stesse tornando in gran fretta in pasto al mostro.
Aveva le gambe molli, la tachicardia al pensiero di quello che aveva passato in quelle celle, alla mercé di quelle creature che a malapena davano loro da bere e da mangiare. Ma questa volta era diverso, per due motivi.
Il primo, era che questa volta aveva un obiettivo. Doveva trovare Clarice, sgridarla per ciò che aveva fatto e portarla sana e salva a casa. Il secondo e più importante, Everard era con lei. E in fondo sapeva che nulla di brutto le sarebbe potuto accadere con suo fratello accanto, lui non avrebbe lasciato che le accadesse nulla di male.
Si mescolarono con facilità nel gruppo di umani entrato nella grotta, sentì Everard e Frederick irrigidirsi dall’orrore. Il puzzo di umani costretti in quelle cellette microscopiche, senza cibo né acqua né posto per fare i bisogni era tanto forte che arrivò alle loro narici prepotente e spazzò via tutto il resto.
Era tardi, non si riusciva a vedere nulla, il sole era tramontato, solo gli elfi potevano vedere, i loro occhi composti solo dalla pupilla adatti per vedere al buio. L’unico punto fermo che Sigga aveva era la mano in quella di Everard, mentre venivano spinti insieme agli altri ostaggi nelle celle a cui era abituata, i suoi piedi che scivolavano sul fango e il grasso animale che stava per terra.
Anche aguzzando la vista il buio era il più nero, avanzavano a tentoni inciampando l’uno sull’altro, sinché Sigga non si sentì spinta per le spalle e infilata in quella che sapeva essere una gabbia di rami intrecciati.
Sentì un tuffo al cuore nell’udire la porta della cella che veniva sbattuta con violenza e il passante in legno sbattere e chiuderli dentro, ma questa volta non era la ragazzina impaurita della prima. Questa volta aveva una missione da compiere, questa volta aveva suo fratello accanto. Questa volta aveva delle armi.
“Aspetteremo domani,” il sibilo di Everard le arrivò così basso che a malapena lo udì. “Stanotte fa troppo buio, loro hanno un vantaggio, riescono a vedere con questa luce. Domani filtrerà un po’ di sole dall’ingresso della caverna e allora scapperemo. Faremo scappare tutti.”
Sigga rabbrividì. Non avrebbe voluto aspettare il giorno dopo, non avrebbe voluto vedere la città, le tende in pelle umana – degli umani gli elfi non buttavano niente – la tavola di pietra dei sacrifici, sporca di sangue rappreso. Non avrebbe voluto vedere le condizioni in cui versavano gli altri umani, costretti lì da giorni, settimane, mesi in condizioni invivibili.
Più di tutto però, aveva paura ci fosse luce perché sarebbe riuscita a vedere se Clarice era là con loro. Era certa di non trovarla, era già molto debole quando, settimane prima, i suoi amici erano riusciti a fuggire e lei si era ferita durante l’inseguimento. Le speranze di ritrovarla viva erano minime.
Sentì che Everard la tirava giù per un braccio e la spingeva a sdraiarsi in quel pavimento sudicio. Lo fece, e il ragazzo la circondò con le braccia, stringendola e tenendola vicina. “Andrà tutto bene,” le sussurrò all’orecchio. “Entro domani saremo fuori di qui. Andrà tutto bene.”
La puzza era forte, là in basso dove si trovavano. Tutto era sporco e appiccicoso, e allungando le gambe sbattevano ad altri umani raggomitolati su loro stessi, senza spazio neanche per respirare, ammassati come bestie da macello.
Eppure, stretta tra le braccia di Everard, riuscì a non avere paura. Si abbandonò alla sua presa, nascondendo il volto contro il suo petto. Tutto intorno a lei si spense, c’era solo Everard, le sue braccia intorno a lei, il suo corpo davanti a sé, le sue parole di conforto sussurrate all’orecchio. Tornò bambina allora, a quando erano per strada e dormivano abbracciati, durante un temporale o ogni volta che la piccola aveva paura.
Lo strinse più forte e si accoccolò contro di lui, che rispose al suo gesto allacciando più strette le braccia intorno al suo corpo.
“Andrà tutto bene. Usciremo di qui, vedrai,” sussurrò, e lei gli credette.
Quella notte, nonostante il luogo orribile, il terrore di non trovare Clarice, l’angoscia che le attanagliava le viscere, riuscì a cadere in un sonno profondo. Proprio come quando era bambina.
Quando si svegliò, la luce del sole aveva appena iniziato a filtrare dal dedalo di corridoi che dava verso la foresta. Si mosse nel sonno, aprì gli occhi, e notò con piacere che la dormita di ore che aveva appena passato l’aveva rinfrancata. La penombra rendeva difficile vedere intorno a lei, ma era sempre meglio del buio pesto di qualche ora prima. I suoi occhi si abituarono alla semioscurità, e mise a fuoco suo fratello che dormiva ancora stretto a lei. Si districò dal suo abbraccio e lo vide strizzare gli occhi, svegliato dal suo movimento improvviso. Avvinghiato a lui, dietro le sue spalle, con le braccia intorno ai suoi fianchi, stava Frederick, immerso in un sonno profondo.
Si alzò a sedere, aguzzò la vista e cercò di individuare Clarice tra le persone intorno a lei. Non ci mise molto a scoprire che non si trovava in quella cella, e il suo cuore si incrinò. Spostò lo sguardo alle celle adiacenti, ma erano troppo lontane e faceva troppo buio per riconoscere i tratti delle persone che si trovavano al loro interno.
“La vedi?”
La voce di Everard, impastata dal sonno, le arrivò alle orecchie.
“No,” rispose, sentendo una forte voglia di mettersi a urlare per la frustrazione e la disperazione.
“Sarà qui,” disse lui, imperterrito. “Sarà qui Sigga, non preoccuparti. Dev’essere qui per forza.”
L’immagine della sua migliore amica smembrata e lasciata viscere all’aria per una notte per leggere il futuro le balenò nella mente, la sua pelle nera madida di sangue, i capelli legati in treccine sparpagliati per la tavola di pietra, le sue interiora che fuoriuscivano dalla pancia come stracci lasciati ad asciugare. Gli occhi scuri, grandi e gentili, vitrei e fissi nel vuoto. Le venne un conto di vomito.
“Nervi saldi,” le disse Everard. “Ce la facciamo. La tireremo fuori di qui, tireremo fuori tutti qui dentro.”
Sigga annuì, un barlume di decisione che si faceva strada in lei, unito alla speranza. Sì, Clarice era ancora là dentro, doveva crederci. Doveva crederci perché altrimenti sarebbe crollata.
D’un tratto, la caverna venne inondata di luce. Gli elfi fuori dalle celle gridarono urla disumane, alte e stridule, e si rintanarono nelle tende per nascondersi dalla minaccia improvvisa.
“È un druido,” sibilò Everard, guardando la figura che era appena entrata e agitando Frederick per un braccio per spingerlo a svegliarsi. “Che ci fa qui?”
“Un druido, certo!” esclamò Sigga. “È stato qui anche settimane fa. È in combutta con gli elfi, vogliono fare una specie di colpo di stato, credo.”
“Cosa? E perché io vengo a saperlo solo adesso?”
“Perché non ci ho più pensato, sono successe troppe cose!”
Frederick si stropicciò gli occhi e infine li aprì. Il suo sguardo cercò Everard, attratto come un magnete, e quando lo trovò le sue spalle si rilassarono. Gli sfiorò la schiena, ora si era alzato a sedere anche lui, e disse “Ehi. Che succede?”
“C’è un druido,” sussurrò Everard. “Vieni a sentire.”
Gli altri umani in quella cella non sembravano interessati a quello che stava succedendo là fuori. Parlottavano tra loro a voce bassa, alcuni di loro piangevano, altri stavano rannicchiati e tremanti, chini su loro stessi e dagli occhi serrati. Molti dormivano ancora.
Il druido aveva i capelli di un biondo sporco, era basso come tutti loro, e il suo marchio era appena riconoscibile sulla sua mascella, un marchio di Ingar. Sigga sentì Everard irrigidirsi al vederlo.
Il druido, vestito con una tunica color verde scuro e il solito cappuccio tirato all’indietro, la pelle pallida che brillava alla luce delle fiammelle da lui evocate, aveva fatto scappare tutti gli elfi tranne uno.
Era il più alto di tutti, la pelle grigiastra viscosa, i capelli lunghi e neri lisci come paglia, unti e sporchi. Portava dei calzoni corti di iuta e una collana di osso, e per il resto era nudo, due seni appena accennati spuntavano sul suo petto. Non sembrava spaventato, al contrario di tutti gli altri che se l’erano filata all’arrivo dell’intruso.
“Merda, dobbiamo aspettare che se ne vada,” sibilò Frederick. “Non possiamo liberarci con lui nei paraggi, è un figlio di Ingar, riuscirebbe a fermarci.”
“Se resterà tanto quanto quello che è venuto l’ultima volta, se ne andrà presto,” rispose Sigga sottovoce.
Il druido si avvicinò all’elfo e abbassò la testa in segno di rispetto. “Salute Arshim Zvanak,” disse, ignorando completamente l’allevamento di umani a pochi passi da lui. “Sono qui da parte di Ingerid della congrega del bosco.”
Everard e Sigga si scambiarono uno sguardo colpito.
“Ssalute…” il sibilo che venne dalla bocca dell’elfo le fece tremare il cuore. Non aveva mai sentito uno di loro parlare la lingua comune, e quel verso stridulo ma riconoscibile la disturbò. “Che nuove mi porti, druido?”
“È tempo,” rispose l’altro, le sue fiammelle che fluttuavano e si sparpagliavano per la caverna, illuminandone i dettagli sporchi e desolati. “Le congreghe si sono spostate sulle montagne, sono sole, non hanno più la protezione della corona, e non sospettano nulla. La nostra spedizione partirà domani all’alba alla ricerca del Libro, quando lo troveremo sarà tutto finito.”
“Allora la magia ssparirà?” la voce stridula dell’elfo, sgradevole e raccapricciante, sembrava mossa da una vena di speranza.
“Noi figli di Ingar resteremo gli unici possessori di magia, e potremo prenderci il Regno degli umani. Il Re è solo adesso, i druidi non sono più lì ad aiutarlo, e il suo secondo è scomparso da giorni. Vi libereremo dei vostri nemici giurati e poi attaccheremo. Noi prenderemo la cittadella e voi la capitale. Ci divideremo il Regno, come concordato.”
“E gli altri druidi? Diventeranno umani?”
L’altro alzò le spalle, come se quella fosse solo una minuzia fastidiosa. “Loro moriranno. Tutti. Non possono sopravvivere senza magia.”
Sigga sentì Everard trattenere un gemito di terrore. Si voltò verso di lei, gli occhi spalancati dalla paura e disse “Dobbiamo avvertirli. Subito.”
“Come facciamo? Loro si saranno trasferiti alla cittadella, per gli umani è vietato entrare!” esclamò Frederick.
“Io entrerò lo stesso. Appena questo druido traditore se ne andrà faremo scattare il piano. E poi correrò in cittadella ad avvertire i druidi del pericolo.”
“Non sai neanche dove si trova,” disse Sigga. “È folle.”
“Ne ho un’idea, sono stato io a decidere dove posizionarla, con Richard. E poi ho anch’io i miei trucchetti.”
“Gli umani non possono entrare senza autorizzazione. Ti farai arrestare.”
“Non mi importa. Forse dopo che sapranno perché sono venuto avranno rispetto per me e mi lasceranno andare.”
“E se non fosse così?” incalzò Frederick.
“Se non fosse così vorrà dire che marcirò in una galera per druidi. Ma devo avvertirli comunque, devo farlo. Non posso lasciare che muoiano tutti così.”
“Tu non andrai da nessuna parte,” sibilò Frederick.
“Lo farò, e tu non puoi fermarmi.”
“So perché vuoi farlo. Per chi vuoi farlo. È una pessima idea.”
“Scusami se mi oppongo all’idea del genocidio di una razza intera…”
“Sono questioni da druidi. Lascia che se la sbrighino da soli.”
“No. Io…”
“Basta!” esclamò Sigga, in un sussurro, mettendo fine alla discussione. “Prima troviamo Clarice e ce la svignamo di qui, poi penseremo ai druidi. Non potremo avvisare nessuno se moriremo qui dentro.”
Everard chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, per raccogliere le idee e tornare in sé. “Hai ragione,” rispose, dopo un attimo di esitazione. Riaprì gli occhi e la guardò. “Mettiamo a ferro e fuoco questa topaia.”
Il druido fece scorrere lo sguardo sugli umani rinchiusi nelle gabbie, alzò un sopracciglio e arricciò il naso, schifato. Sigga si chiese come, la prima volta che si era presentato sin lì, avesse potuto pensare che quel druido fosse là per aiutarli. Era chiaro che non gli importava delle condizioni disumane in cui erano rinchiusi, allevati per poi arrivare al giorno del sacrificio e finire con le viscere sulla tavola di pietra.
“Cosa ti sserve da me?”
“Solo che state pronti. Il giorno che noi attaccheremo i druidi della cittadella voi potrete attaccare gli umani. Ci servite pronti ad affrontare il viaggio, dovete colpire la città al cuore, la capitale. Richard deve morire, e così quelli che lo seguono.”
L’elfo abbassò la testa, dando segno di aver capito. Si voltò verso le tende dietro di lui e produsse un suono acuto e stridulo, nella loro lingua fatta di strilli e unghie grattate su una lavagna. Passò qualche istante, e una tenda si aprì. Un altro elfo, poco più basso e imponente del primo, si affacciò nella caverna. Si schermò gli occhi con le braccia e si avvicinò titubante, i lunghi arti sgraziati mentre camminava, che parevano le zampe di un ragno.
I due elfi si scambiarono qualche parola nella loro lingua, poi quello più alto, che era palese fosse il capo tra loro, gli disse “Akhzam è il mio ssecondo. Da oggi puoi comunicare direttamente con lui.”
“Vieni con me,” disse il druido. “Il sole non ti disturberà. Sarò io a coprirlo con le fronde degli alberi. Devo farti un incantesimo di localizzazione, per poterti trovare in futuro.”
L’elfo guardò titubante il suo signore, gli occhi composti da sola pupilla grandi e acquosi. L’altro annuì.
“Mandatemi notizzie,” sibilò, guardandoli allontanarsi e le fiammelle con loro. “E tu Akhzam, non deludermi. Puoi ssopportare un po’ di magia.”
Il druido si allontanò insieme all’elfo, e i piccoli punti di luce si riunirono sino a formare un globo luminoso, per poi sparire. La caverna tornò immersa nella penombra.
“Allora,” sussurrò Sigga, “diamo il via alle danze?”
“Aspettiamo che il druido si sia allontanato,” rispose Frederick. “Poi potremo agire.”
Sigga si morse il labbro, impensierita. Avrebbe voluto prendere subito le redini della situazione, trovare Clarice e scappare da quel posto orribile. Ma Frederick aveva ragione, farlo col druido nei paraggi sarebbe stato impossibile.
Gli elfi portarono loro dell’acqua da bere in delle ceste di vimini rese impermeabili da una patina di grasso. I tre ragazzi lasciarono l’acqua agli altri ostaggi, loro che sapevano che di lì a poco sarebbero scappati via e avrebbero potuto bere indisturbati all’esterno solo qualche ora dopo.
Sentivano il piagnucolare degli umani rinchiusi, i loro lamenti disperati, ma non dissero loro che sarebbero fuggiti a breve. Non volevano agitare gli animi, volevano evitare che gli elfi notassero che c’era qualcosa che non andava.
Si misero buoni ad aspettare, in attesa che il druido fosse lontano, pronti ad agire e tirare tutti gli sfortunati umani fuori da quel posto orribile.
Note autrice
Ecco svelato il piano di elfi e figli di Ingar. Un attacco incrociato alla magia e agli umani per sottomettere il Regno e dividerselo. I figli di Ingar toglieranno la magia agli altri druidi, condannandoli a morte, e gli elfi attaccheranno gli umani sferrando un colpo alla corona. Così figli di Ingar e elfi potranno dividersi il Regno indisturbati.
I nostri, però, sono decisi a impedirglielo. Everard vuole avvertire i druidi del pericolo, Frederick non è d’accordo. Chi la spunterà?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo, in cui scoprirete anche se verrà trovata Clarice. Secondo voi? Ditemi che ne pensate nei commenti!
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