4 - Mio Padre
Il tragitto in macchina è stato lungo e silenzioso, quasi da esser definito straziante; il mio disagio era ampiamente alle stelle, il freddo soffocava quei sospiri che mi permettevo pur di calmarmi, congelandomi fin dentro le ossa.
Non appena giunti nel quartiere in cui abito, il senso di panico ha preso vita in me una volta riconosciuta la mia casa, quel ché dovrebbe essere il mio riparo dal mondo, quando invece, è il mondo a ripararmi da essa.
L'ho pregato di fermarsi davanti a qualche abitazione poco prima della mia, cosa che fortunatamente ha fatto. Adesso è qui, di fronte a me, poggiato alla sua auto con un grandissimo sorriso, le gambe incrociate e le braccia conserte. Strofino le mani sui jeans fortemente, tentando di alleviare almeno un minimo la mia tensione, fallendo. Lui sembra cogliere la mia agitazione, perciò mi rivolge un sorriso che in teoria dovrebbe trasmettermi serenità, ma che purtroppo ,invece, da l'effetto contrario.
-"Vedi? Non è successo nulla. Ah, tra qualche ora vedrò come riportarti la macchina." Dice con tono tranquillo, senza poter cogliere la vera motivazione del mio essere nervosa.
Non voglio che mio padre lo veda; potrebbe succedere l'immaginabile. Prima se ne va, meglio è per entrambi.
Tento di rivolgergli un sorriso, anche se penso somigli più a una smorfia, cosa che purtroppo, non gli sfugge.
-"Grazie..." Lo ringrazio con tono insicuro. Mi guardo intorno agitata come se cercassi qualcuno, quando in realtà spero di non vedere nessuno. Non voglio mettere nei guai nessuno dei due, quindi spero vivamente che non sbuchi qualcuno dal nulla, dando il via all'inferno che già immagino possa accadere.
Si avvicina a me e poggiando delicatamente le dita sul mio mento, mi fa tornare con lo sguardo rivolto verso di lui. Sussulto a quel contatto, cosa di cui si accorge e in seguito si scosta, tornando nella posizione precedente.
-"Dovresti andare adesso, no?" Tento di velocizzare i tempi, per quanto mi dispiaccia.
Non voglio sembrargli scortese, ma lo faccio per entrambi; in fondo non credo mancheranno occasioni per vederci nuovamente, e per il momento voglio evitare di mostrargli cosa si cela di oscuro dentro la mia vita, per cui voglio evitargli tale spettacolo.
-"Mh...hai ragione, Ma preferisco aspettare." Rimane sul vago, rivolgendo il suo sguardo azzurro verso il cielo, decorato da numerose stelle che brillano nel buio della notte. Il ricordo di lui mentre parla di esse mi torna alla mente, ricordandomi quanto Joseph ne sia affascinato. Scuoto il capo tornando al presente e accantonando i miei pensieri e quei pochi ricordi che non sappiano trasmettermi dolore.
-"Aspettare che?" Domando confusa.
-"Che entri. E' notte, se ti succedesse qualcosa, non me lo perdonerei." Per quanto siano dolci le sue parole e il suo gesto, non posso fare a meno di spazientire. Lo saluto di fretta, camminando lentamente sul marciapiede, seguita dal suo sguardo. Gli rivolgo un sorriso svelto, facendo poi qualche altro passo per poi fermarmi, sentendo delle urla; urla che conosco fin troppo bene.
Il mio nome rimbalza tra le mura delle case circostanti, e numerose luci all'interno delle abitazioni vengono accese. Visi sconosciuti si affacciano dalle finestre, curiose di gossip e altre solo preoccupate. Stringo le spalle, strizzo gli occhi e chiudo le mani in dei pugni, preparandomi a ciò che sta per accadere.
Una figura si muove veloce di fronte a me; sento il suo respiro caldo scontrarsi con il mio volto e la paura invadermi. I miei polmoni smettono per qualche attimo di respirare e il mio battito cardiaco aumenta di velocità, quasi come se il cuore volesse uscire dal petto.
-"Dovresti ringraziarmi di essere ancora viva."
A quelle parole il mio braccio destro è afferrato da una grande mano calda, e tramite essa vengo spinta velocemente indietro, scontrandomi contro qualcosa. Apro gli occhi e alzo lo sguardo; la mia schiena è poggiata al petto di Joseph; tiene la mascella serrata, il suo sguardo è rivolto in avanti in modo duro e quasi intimidatorio verso mio padre. Lo prego con voce flebile sottovoce di andarsene, ma fa finta di non sentirmi. Stringo tra le mani le sue spalle, continuando a pregarlo con quasi le lacrime agli occhi.
-"Joseph, ascoltami. Ti prego, vai via. Non voglio tirarti dentro questa situazione." Con queste parole riesco finalmente a farlo voltare verso di me, ma la sua espressione non sembra cambiare. Anzi, mi sembrerebbe di aver visto una scintilla di rabbia attraversare i suoi occhi.
-"Sono già dentro, Amber."
Durante la nostra piccola conversazione, mio padre tenta con movimenti fulminei sottrarmi alla presa del ragazzo, ma per sua sfortuna Joseph ha inteso velocemente le sue intenzioni e mi ha allontanato prima che potesse afferrarmi.
-"Saresti così gentile da ridarmi mia figlia?" Domanda, con tono di sfida. Joseph sembra barcollare a quella frase, aprendo poi la bocca per dire qualcosa, ma non lo fa. Sembra perdersi nella sua mente, giusto il tempo di assimilare la notizia. Poco dopo però dà voce ai suoi pensieri.
-"Aspetta, 'sto qua è tuo padre?" Si rivolge a me, con un'espressione quasi sconvolta. L'iride dei suoi occhi azzurri ghiaccio sembra stringersi, ma non ne sono sicura. Con il buio della notte non è molto semplice individuare le sfumature dei suoi occhi, nonostante il loro colore glaciale.
-"A quanto pare." Volto il viso altrove, con sguardo perso e le lacrime che provocano di uscire, ripensando a tutti gli anni passati e a tutti i sacrifici fatti di cui lui è ovviamente ignaro. Loro sono ignari.
Scuoto il capo fortemente, prima di perdermi tra i ricordi un'altra volta e crollare.
-"Dovresti andare." Gli dico a bassa voce guardando il grigiore del marciapiede sotto i nostri piedi, non desiderandolo veramente. Ho paura di cosa accadrà una volta che se ne sarà andato; tremo solo al pensiero.
Joseph annuisce impercettibile verso la strada, per poi voltarsi verso di me con sguardo preoccupato.
-" Chi credi di essere, Il cavaliere dalla scintillante armatura che prova a salvare la sua bella? Bello mio, se è questo quello che credi, ti sbagli di grosso." Se la ride mio padre. Mi dispiace molto che Joseph stia assistendo a ciò; era l'ultima persona che doveva venire a sapere di tale situazione.
-"Papà, smettila. Lui non c'entra nulla, è inutile che lo stuzzichi."
-"Oh, ma l'ha detto lui stesso che oramai è dentro questa situazione. No? - ironizza, come se già la questione non fosse abbastanza grave di suo - E poi, l'hai un nome o devo chiamarti con un fischio?" Continua rivolgendosi a Joseph.
Mi volto verso il ragazzo dagli occhi ghiaccio; un sorriso furbo e di scherno si è fatto strada sul suo viso, nonostante la rabbia presente nei suoi occhi facilmente scorgibile. La presa sul mio braccio si è fatta più forte; ma non ho paura che mi provochi dei lividi. Non lo sta facendo per procurarmi del male, ma perché vuole proteggermi. Sarebbero lividi privi di dolore e brutti ricordi. Ma pieni di protezione, sicurezza. Sorrido lievemente al solo pensiero. Sarebbero gli unici lividi che non odierei.
"Joseph. Sono Joseph Fisher. Josh per gli amici. Ma lei può chiamarmi Joseph. Spero non si offenda." Stento a non scoppiare da ridere nonostante sia difficile trattenermi vista la forte ironia presente nelle sue parole. La mia risata mancata non sfugge agli occhi dei due di fronte a me, perciò mi ammutolisco costringendo il mio viso in un'espressione rilassata tramite un gran sospiro.
Mio padre ringhia a quelle parole, visibilmente infastidito dalla strafottenza che Joseph gli ha riservato e mostrato. Dopo di ciò torna su i suoi passi, facendomi poi segno con il capo ed espressione dura di entrare in casa con lui.
Annuisco. Volto il mio sguardo su Joseph che viene subito ricambiato. Gli sussurro un saluto veloce, incamminandomi poi verso casa. In quel preciso momento sento una grande mano afferrare la mia, e lasciare tra le mie dita un foglietto. Alzo lo sguardo verso il viso del ragazzo di fronte a me interrogativa, la cui risposta è stato un sorriso accompagnato da un occhiolino.
Faccio finta di niente a ciò e nascondo il foglio prima di entrare in casa. Arrivata di fronte alla porta d'ingresso, faccio un respiro profondo e facendomi coraggio la apro e mi dirigo in cucina, pronta all'inevitabile.
Mio padre sta lì, seduto a tavola rigirando tra le mani una bottiglia di vodka Lemon ormai quasi vuota. Il suo viso è inespressivo; non trasmette nulla, il vuoto più totale. Serro le labbra e stringo le mani in dei pugni.
Mi avvicino a lui tentando di mantenere una postura sicura, per quanto mi riesca. Resto in piedi di fronte a lui dall'altra parte della tavola attendendo una sua solita ramanzina, ma non apre bocca. Che si sia pentito? Ne dubito fortemente.
-"Joseph, eh?" Sospiro alla sua allusione, tenendo per me qualunque cosa mi passi per la mente.
-"Non ti devo nessuna spiegazione. Lo sai questo, vero?" Dico con voce ferma, incrociando le braccia al petto attendendo una sua risposta, ma non arriva.
Non arriva mai.
Cosa mi aspetto? Che si scusi per tutto quello che mi ha fatto passare? Non gli è mai passata l'idea neanche per l'anticamera del cervello, e l'unica cosa che mi resta da pensare è che le cose tra di noi non potranno mai cambiare.
Stringe con forza la bottiglia di vetro facendo evidenziare tutte le vene che attraversano le sue mani forti e prepotenti, le nocche diventano bianche e la respirazione è più affannata. Poco dopo tanti cocci di vetro sono sparsi per l'intera stanza, cosa per cui sussulto. Fortunatamente non mi ha colpita; la felpa extralarge ha attutito le schegge.
Le mani di mio padre invece, stanno sanguinando e vari vetri sono incastrati tra la carne. Trasalisco a quell'immagine, e un ricordo percorre strada nella mia mente.
Oggi ho guadagnato veramente poco a lavoro, spero che papà non si arrabbi. Entro dentro casa intimorita, venendo poi scossa dalla sua voce forte che vibra tra le mura dell'abitazione. Trasalisco alle sue urla, tremando. Stringo le spalle e lego le braccia dietro la schiena, nascondendole. Abbasso il capo una volta entrata nel suo campo visivo; mi sento talmente impotente in sua presenza, da non saperlo descrivere.
Un forte rumore di vetri rotti riesce a richiamare la mia attenzione verso l'alto. Di fronte me c'è papà, con un coccio di vetro in mano e un'espressione rigida, severa. Un forte bruciore alla testa riesce a farmi urlare; sono talmente spaventata da non aver percepito immediatamente il dolore. Porto una mano al capo e con le dita sfioro la parte dolente. La ritraggo subito dopo aver sentito un bruciore molto più intenso rispetto al precedente. Guardo le mie mani e per poco dalle mie labbra non sfugge un ultimo lamento; sono intrise di sangue rosso scarlatto.
Lacrime copiose scavano il mio volto, ma non dico nulla. Soffoco i miei singhiozzi e mi accascio al suolo perdendo tutte le mie forze; mi sento così dannatamente fragile, debole.
Ho sempre affrontato tutto ciò da sola, cadendo e rialzandomi con le mie sole forze. Mi sento talmente vuota, persa. Ho questo peso sul cuore che non vuole andarsene, i miei polmoni non ne possono più, respirano a fatica. Ho continuamente giramenti di testa e la mente confusa, sto perdendo la mia gioia di vivere. Tutto ciò mi ha reso egoista, facendomi rinchiudere in una bolla di protezione dal mondo tutta mia. Non devo essere vulnerabile, non posso permettermelo.
Mi sembra di essere all'interno di un infinito buco nero e di sprofondare nell'abisso. Ho perso me stessa nel mio mare d'incertezze e dolori. Spero tanto di riuscire a colmare i miei vuoti e guarire le mie ferite invisibili. Sicuramente non adesso; ci vuole tempo per curare le ferite dell'anima, ed io non sono ancora pronta a ciò.
Freno i miei pensieri e corro a prendere delle garze, dell'acqua ossigenata e qualunque altra cosa possa servirmi; so già che mi sbraiterà addosso dal dolore, ma non voglio che poi mi incolpi se gli si formasse un'infiammazione o peggio.
Una volta preso tutto il necessario torno da lui, e indugiante afferro la mano ferita, controllando la gravità e profondità dei tagli. Poi con una pinzetta tento di estrarre i pezzi di vetro più grossi. Un urlo grattato abbandona la sua gola; deglutisco al quel suono, ma continuo a estrarre ogni singola scheggia, tentando di non dimenticarne una sola.
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Mi butto sul mio letto distrutta; il sole sta iniziando a sorgere e i suoi deboli raggi si fanno spazio tra le tende, tentando di illuminare la stanza.
Un sonoro sbuffo abbandona le mie labbra; mi sento talmente impotente su tutto ciò, e come se non bastasse Joseph adesso, ne fa parte. Era l'ultima persona a cui avrei voluto dare delle spiegazioni a riguardo, invece adesso sono costretta. Oltre Tyler è l'unico che sa qualcosa, anche se minima.
A un tratto mi balena in mente il biglietto nascosto nella tasca dei jeans; lo recupero di fretta e velocemente apro le sue piegature. Una serie di numeri è incisa con dell'inchiostro blu scuro, con, in fondo scritto:
"Per ogni evenienza, chiamami.
-Josh"
Non ho la benché minima idea di quando l'abbia scritto né per quale strano motivo, ma decido di passare oltre a questi piccoli dettagli insignificanti.
Appunto il numero sulla rubrica del cellulare, salvandolo come "Josh."
Infondo lui ha detto che si fa chiamare così solo dagli amici, e in fondo al foglio, ha firmato così. Penso quindi di essere rientrata tra le sue grazie, o credo male?
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