14 - Respiro
Respirare. Per chi soffre d'ansia è la più difficile delle battaglie. Inalare aria come se nulla fosse, come se non avessi un macigno che opprime e comprime i tuoi polmoni.
Come se il male non ti sfiorasse, non rendesse reale questo amaro sulla punta della lingua, pronto a ricordarti di quanto anche nel dolce ci sia quel retrogusto disgustoso che non è altro che residuo rilasciato dall'ansia, dall'aria impura che invade il respiro.
L'ansia non è altro che paura: del mondo, della gente che ci circonda o nel peggiore dei casi, di noi stessi.
Io ho paura del mio essere esageratamente distruttiva, di come mi perfori da sola l'anima senza sperare di guarire dalle mie ferite più profonde e di come mi culli in esse.
Il mostro che fa più paura, non sono altro che io.
***
Da circa mezz'ora non mi ripeto altro che questa sarà l'ultima cosa che servirò, ma qualvolta si rivela in una menzogna. Un'ordinazione segue l'altra senza tregua e a voler ammettere d'esser stanca mi viene quasi da picchiarmi da sola. Glielo devo a Sam, quindi è meglio che mi rimbocchi le maniche e che mi dia da fare. Un dolce a un tavolino, un succo ad un altro e così via; cerco di eseguire il tutto in velocità senza prendermi un sol minuto -in quell'unico momento, potrei perdere la mia adrenalina e lasciar spazio alla stanchezza- per prender fiato. Neanche il tempo orribile frena la gente dallo lasciar casa; mi ci rivedo così tanto in ciò, ma allo stesso tempo così poco. Abbandonare tutto e tutti per dirigermi al mio bosco è un'abitudine che ho sempre amato e di cui ormai non riesco più a fare a meno, anche se il pensiero che dovrei evitare, quasi mi sfiora la mente.
E se vi rincontrassi Joseph? Ormai quasi ne dubito. Sapendo di trovarmi lì, per come stanno le cose adesso, eviterà il bosco neanche vi fosse la peste. Eseguo un lungo sospiro a realizzare ciò. Probabilmente, non lo vedrò mai più.
Mi sento così nervosa, frustrata, delusa, sconfitta. L'unica persona a cui io abbia mai chiesto di restare, ha deciso di andar via, e ciò non mi da un attimo di tregua. Alzo gli occhi e guardo senza farlo realmente ognuno dei clienti. Una famiglia, un gruppo d'amici, e una ragazza sola intenta a leggere un libro mentre il cappuccino di fronte a sé si raffredda in modo lento, mentre rilascia alcune nuvole che sanno tanto di zucchero.
Sorrido a vedere quell'immagine, come tutto nella vita di quelle persone sembri andare a gonfie vele. Le luci soffuse lasciano strizzar gli occhi alla ragazza dedita alla lettura per lo sforzo, mentre agli altri rilascia la giusta atmosfera. Sempre lei, dai capelli arruffati e gli occhiali sul naso, posa delicatamente il proprio libro sul tavolino ormai arresa, e torna a posar la propria attenzione sul cappuccino. Decido di levarle il peso del mio sguardo sulle scapole e volto la mia attenzione sul bancone mezzo vuoto e a dir quasi esausta, do una mezza pulita alla macchina del caffè.
-"Ragazzina." Una voce familiare s'innalza alle mie spalle e quasi come se mi stesse chiamando, mi volto. Un viso familiare, truce seguito da uno sguardo fermo e vigile è posto di fronte a me, appartenenti a un uomo piuttosto robusto e formale. Dopo la mia veloce occhiata, prendo l'ordinazione e mi do da fare. Ormai i caffè sono divenuti la mia specialità talmente tanti me ne vengono richiesti, mi è da ammettere. Una volta pronto, mi giro velocemente verso il cliente, e mentre faccio per posare la tazzina sulla bancone, mi scivola dalle dita.
Un frastuono di vetro rotto e liquido caldo si propaga in tutto il locale, al che sussulto. La stanchezza come immaginavo è sopraggiunta prima del momento creando questo grande casino. Faccio di tutta fretta le mie scuse al cliente, davvero dispiaciuta e mortificata. Mio malgrado mantiene uno sguardo severo e impenetrabile, quasi come se non fosse disposto a lasciar correre l'accaduto. Quasi in maniera fulminea solleva di colpo il braccio destro, incutendomi un brivido di paura, il terrore che possa colpirmi.
-"Papà, ecco il tuo caffè." Glielo pongo di fronte, lasciando che il suo profumo gli invada le narici. Studia il suo aroma e la sua fragranza, droga le sue narici di essa prima di portar la tazzina alle labbra. Attende qualche attimo, prima di lanciarmi addosso il liquido bollente.
Apro la bocca per dir qualcosa, per esternare il dolore della scottatura, ma la mia voce non vuole saperne d'uscir fuori. Mi limito a vedere i suoi occhi freddi guardar i miei vestiti macchiati e come i capelli mi si siano appiccicati alla pelle pallida adesso arrossata. Mi limito a guardare con quanta tranquillità mi abbia umiliata di fronte a me stessa. Con quelli stessi occhi freddi e vuoti mi afferra dal capo e con uno strattone mi avvicina a sé.
-"Vedi di farlo meglio la prossima volta." dice, prima di allontanarmi con la stessa forza con cui mi avvicinò a sé.
Ad ammettere come tutto mi procuri così tanto dolore, mi fa stare persino peggio.
Caro papà, grazie per il male che mi procuri.
Scusa se ho paura delle mani e delle urla.
Anche se, effettivamente, scusa dovresti chiedermelo tu.
Tengo ferme le braccia in posizione difensiva, mentre qualche lacrima minaccia di scappar via dal mio controllo. Il silenzio, il frastuono, il tutto intorno a me si dissolve, diviene semplice aria la cui non sono in grado di respirare. Lascio che il timore prenda il sopravvento e mi annullo, smetto di esistere. Sento solo le braccia calde e familiari di Sam accogliermi vicino al suo petto e stringermi forte.
-"Amber, che succede?" Domanda, passando lentamente una mano tra i miei capelli biondi.
Elaboro nella mente una risposta che non risulti esagerata o persino peggio, ma il tutto si termina sempre con scarsi risultati.
Che succede?
E io cosa ne so.
Alzo il viso incontrando i suoi occhi color dell'argento e cerco consolazione in essi, un qualcosa che mi riveli che questo è solo un brutto sogno dal quale non riesco a svegliarmi. L'abbraccio quasi d'istinto dopo aver scorso nei suoi occhi stanchi una marea di solo e genuino affetto, dopo aver incontrato in essi, la stessa paura e angoscia di ricordare che inonda i miei. Mi lascio cullare nel suo calore e libero quel respiro trattenuto che mi continuava a sapere d'aria viziata.
Percepisco come gli occhi curiosi dei clienti ci studino e guardano senza ritegno. Odio far scena.
Lascio ancora un po' la mia persona giacere tra le sue braccia, prima di ridarmi un contegno. Intrappolo le lacrime e le rendo cristallo: le frantumo, cesso il loro essere. Sento come il mascara scuro abbia creato un piccolo disegno al di sotto degli occhi, proprio nella zona delle occhiaie, rendendole più scure ed evidenti. Strofino su quel punto la manica della felpa, cercando di ripulirmi dalla sensazione del pianto che mi vela le pupille. La manica adesso è decorata da due piccoli tratti neri e qualche ciglio qua e là, anche quest'ultimi intinti di nero. Lascio che un respiro dettato dalla frustrazione si esegua e mi do una veloce sistemata al grembiule, prima di alzare finalmente lo sguardo.
Il cliente di prima mi guarda, mi studia, percorre ogni centimetro della mia pelle nuda e del mascara colato, soffermandosi poi sulle mie mani tremanti.
Penso che abbia capito che ruolo svolgo nella vita.
Non proferisce parola; lascia che sia il suo sguardo cupo a farlo, ed esso, non fa altro che ripetermi quanto in realtà io sia piccola e insignificante. In silenzio, torno a preparare un nuovo caffè, consapevole dello sguardo di Sam e di quell'uomo fissi sulla mia persona.
Questa è una sensazione che odio. L'esser continuamente osservata tende a farmi sentire spiacevolmente inferiore rispetto a chi mi guarda. Tende a ricordarmi cosa realmente sono.
Non sono una ragazza, non sono neanche umana, non sono neppure Amber. Sono solo un qualcuno su sui si concentrano varie afflizioni continue, che si susseguono senza lasciarlo in pace.
Ecco cosa mi sento. Il nulla più totale, in cui si concentra un enorme buco nero di terrore e scompiglio.
***
Respirare. Sfida a cui mi sottopongo giornalmente, sfida che non riesco a superare senza troppe difficoltà, sfida a cui non oso proclamar vittoria.
Ritrovarmi nuovamente tra il verde puro del mio amato bosco mi lascia intendere di avere ottenuto una tregua, tregua che non è reale, bosco che non è solo mio.
Vedere ancora una volta il mio riflesso sull'acqua cristallina del lago, le occhiaie scure e i capelli scompigliati mentre il freddo si aggrappa alle mie ciglia e pensieri, l'aria triste che aleggia sul mio volto e che non sembra prossima a scomparire ma rimane immobile e implacabile, mi ricordano ancora una volta quanto in realtà io sia distrutta sia dentro che fuori.
Le vibrazioni dell'acqua trasmettono la loro melodia e le ultime foglie che cadono dagli alberi eseguono una danza in sincronia con il lago e il suo essere. Si sta ormai per gelare lasciando di quest'acqua cristallina non altro che una sola distesa di ghiaccio trasparente tanto da specchiarsi l'anima.
Stringo le spalle nel cappotto, ignorando i vari brividi di freddo che mi propagano su tutto il corpo. Immagino già che a forza di star al freddo mi prenderò un malanno, ma al momento non vorrei altro che restare qua, a bearmi d'aria pungente che disinfetta i miei polmoni e il freddo che allontana da me quello strano calore che porta il malessere.
Forse risulterò un'idiota, ma non posso far altro che pensare che questo sia il nostro posto. Questo bosco ci ha uniti, e un altro, ci ha divisi.
Vorrei davvero illudermi che non sia finita talmente in fretta, giusto il tempo di riconoscere che qualcosa dentro me si smuova in sua presenza, ma la realtà è un'altra e dovrei farmene una ragione. Dopotutto, dovevo immaginare sarebbe successo: ho questa tendenza insana e malata di allontanare tutti seppur io voglia il contrario, e per ciò non faccio altro che maledirmi giornalmente.
Guardo ancora il mio riflesso nell'acqua e penso a quanto vorrei subire un mutamento, ma ciò non mi è minimamente in parte possibile e quel che mi rimane non è altro che accettare ciò che sono.
Per la prima volta mi ritrovo a pensare che dovrei tornare a casa, che i miei problemi sono altri piuttosto che un ragazzo a cui piace far la comparsa, e questo luogo proprio adesso, non mi fa bene perché non riesco proprio a pensare, vedere altro che questo.
Cerco di pensare alla giornata trascorsa ma Lyam, Tyler e il lavoro c'entrano tutti con cose che non mi piacciono e che non riesco a dimenticare.
Irrequieta mi alzo e dopo una leggera scostata ai vestiti dalla polvere, mi dirigo in macchina pronta a tornar a casa, ancora una volta sconfitta.
Sconfitta da me stessa e dai miei pensieri distruttivi, sconfitta dalle mie ossessioni e afflizioni, sconfitta da ciò che amo e ciò che odio.
Alla fine tutte le battaglie, le perdo solamente io.
Capitolino
Immagino che Joseph vi manchi già ma niente paura, tornerà presto. (non subito però :P)
Manca già anche a me, prometto di non farvi (e con voi anche me e Amber) penare troppo <3
Al prossimo capitolo piccoli Luvs<3
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