1950 - quando soffiò il vento di Shurhùq

1950.

Insegnavo alla Berkeley University e avevo solo venticinque anni. Era il 1950 quando lo vidi per la prima volta e lo so che in alcune pagine addietro ho scritto che tutto cominciò nel 1954, ma ho anche precisato che io e Niyol avevamo un passato già condiviso, ma non assieme, prima di iniziare tutto; questo passato fu scritto all'interno di un'aula, tra quattro mura, quando io iniziavo la mia nuova strada da insegnante rivoluzionario, o almeno così credevo ciecamente. Che stolto.

Mi ero laureato alla velocità della luce, perché ero sempre stato un ragazzo con poca vita sociale e tanta voglia di imparare e quando realizzai le aspirazioni di quell'adolescente che voleva qualcosa indietro dopo tutti i sacrifici riposti nei libri, me ne andai dalla mia città Natale; scappai perché lì mi sentivo trattenuto da me stesso, dal mio tempo che pareva così stantio rispetto alle idee che avevo nella testa, dalla mentalità delle persone che mi circondavano; scappai dalla mentalità retrograda del paese arcaico in cui avevo sempre vissuto, sperando che nel nuovo mondo le cose andassero diversamente e che, benché comunque solo, a ricominciare da me stesso, potessi riuscirci senza privarmi nulla.
Naufragai in California per liberarmi del vecchio me che gli altri avevano fatto in modo di cucirmi addosso, senza la minima idea che, poi, ci sarei riuscito con l'unica finalità di distruggermi.
Ecco, l'ho rifatto. Niyol, dopotutto aveva ragione: diceva sempre che il mio cognome, Payne, avesse lo stesso suono della sofferenza – Pain – e aggiungeva che non era colpa mia se vedevo ogni cosa sotto il suo aspetto più doloroso.

"Ce l'hai scritto nel nome, è più forte di te; se tu fossi stato Lion J Joy probabilmente saresti stato l'uomo più ottimista, gioioso e... terribilmente euforico di questo pianeta" erano le sue parole, seguite subito dopo dal mio broncio e dalla sua, non più tanto riservata, risata.
Anche se poi, per ammaliarmi e per tornare nelle mie grazie aggiungeva sempre "ma non saresti tu, Lion J Payne, e quindi non ti amerei in un modo così tanto doloroso" accompagnato da un bacio a fior di labbra che lui credeva di rubarmi, quando io non facevo altro che attenderlo più delle sue amabili parole.

Perciò come potevo non perdonarlo quando era così tanto bravo a fare il ruffiano?

Mi perdo sempre a parlar di questi ricordi così evanescenti, ora, eppur così dolci e vividi dentro di me, perché Niyol è la mia sola e unica parola. Ogni frase riporterà sempre a lui. Anche le ultime, quelle che poi ci divisero... Ma, come promesso, ritorno all'inizio, a quando passeggiavo per il verde di quei campi universitari, spesso scalzo con la sensazione sotto ai piedi di essere finalmente libero.

Passeggiavo per interi pomeriggi, all'inizio, quando ancora mi sentivo perso da abitudini come il giorno che doveva essere notte, per me, e viceversa, o da sensazioni di inadeguatezza e insicurezza che mi portavano a tremare con la preoccupazione di non essere ancora pronto a insegnare qualcosa che amavo così tanto e che fino a qualche mese prima avevo appreso, io stesso, dietro il banco di una Università.

Arrivai in California due settimane prima dell'inizio delle lezioni e quello fu il tempo speso a crogiolarmi nei miei dubbi, ad ambientarmi; fu il tempo trascorso con me stesso sotto un salice al quale subito mi ero affezionato e sotto il quale leggevo tutti i miei libri preferiti, le poesie che nella mia grigia cittadina, dall'altra parte dell'oceano, mi avevano fatto sperare, e non solo emozionare, che ci fossero altri come me pronti ad avere fiducia nell'amore che avevo dentro, che spesso nessuno comprendeva e che, inconsciamente, non volevo far altro che donare a chiunque fosse stato disposto a innamorarsi di uno come me.

Quando poi iniziarono ad arrivare i primi studenti, la sensazione di inquietudine crebbe perché le ragazze, che mi notavano sotto quel salice, mi sorridevano come si fa ad un proprio coetaneo, in modo complice, mentre i ragazzi mi parlavano con la disinibizione di chi lo stesse facendo con un proprio compagno di avventura.

In quanto a me ero troppo poco esperto e insicuro per ostentare il mio titolo di professore, quindi alle ragazze ricambiavo il sorriso e con i ragazzi parlavo come fossi uno di loro.
Avevo trovato un appartamento vicino all'Università e questo mi faceva sembrare uno del Campus, perché praticamente vivevo le mie giornate lì dentro. E questo perché fin da piccolo avevo avuto l'esigenza di ambientarmi il più possibile nel luogo in cui avrei dovuto vivere. Quindi giunto in quel luogo così maestoso e immenso, senza conoscere nulla, mi ritrovavo ad essere ingordo di luoghi: e più ne scoprivo, più trovavo scorciatoie, o posti dove potersi nascondere per scappare dalla routine, più mi tranquillizzavo.
La mia casa era un disastro come me, che ero sempre stato rimproverato per il mio disordine; ma lontano dalle grida di mia madre cosa mi impediva di far ciò che volevo di un luogo dove praticamente tornavo soltanto per dormirci? Di questo, me ne sarei pentito, ma non approfondisco qui.

Arrivò così il primo giorno di lezione, mi ero preparato appunti su appunti, sapevo ogni parola di quei fogli scritti alla buona quasi a memoria, ma ero convinto che l'unico modo, per interessare chi mi sarebbe stato ad ascoltare per un intero corso, fosse quello di andare a braccio, di approfittarne della curiosità degli studenti per avere un riscontro positivo. Su questo sapevo di avere il giusto materiale, sebbene non sapessi che tipo di persone mi aspettassero: radicate nel pensiero di un'intera società o disponibili all'apertura mentale?
Ci stavo scommettendo tutto me stesso e la mia lezione. Se avessi sbagliato fin da subito, sarebbe stato non solo un flop per la materia che insegnavo, ma anche per me che affrontavo la mia prima volta dall'altra parte del banco.

Arrivai in anticipo e mi maledissi perché questo non avrebbe fatto altro che far crescere l'animale ansioso che ormai sembrava aver preso in affitto il mio stomaco, torturandolo con i suoi movimenti ansiosi.

In aula, sistemai i fogli sopra la scrivania e poi mi sedetti sulla sedia, guardando l'aula completamente deserta. Mi sistemai agitato la cravatta e sbuffai guardando l'orologio al polso. Cinque minuti prima che iniziasse una delle due ore di lezione, mi alzai in piedi e lisciandomi il completo chiaro, che avevo comprato per l'occasione, scrissi il mio nome sulla lavagna, accompagnato dalla lezione che avrei portato avanti da lì fino alla fine del semestre.

"Lion J. Payne. Poesia"

Ricordo perfettamente di averlo riscritto un paio di volte, ma, poi, quando mi resi conto che lo stavo facendo più che altro per ansia che per insoddisfazione, maledissi ancora il mio senso di inadeguatezza e lasciai perdere, ricadendo sulla sedia.

Dopodiché io... non ricordo altro: l'arrivo dei primi studenti, la loro espressione nel scoprire di avere un insegnante così giovane – e magari la loro delusione nel pensare che fossi troppo inesperto per quel campo o, al contrario, la felicità nel credere che quel viaggio sarebbe stato un po' diverso, innovativo.

Non ricordo l'inizio della lezione, la mia presentazione agli studenti o come iniziai a spiegare ciò che avrei portato avanti per quei mesi; nulla, tutto mi appare così sfocato dopo più di vent'anni, tutto tranne lui e il suo arrivo.

Lo giuro, è da giorni che provo, ma non ricordo esattamente cosa accadde tra il lasso di tempo che trascorse dall'inizio della lezione all'arrivo di Niyol. Solitamente qualcosa che ci mette così tanto sotto pressione resta indelebile nella mente, ma l'unica spiegazione che posso dare a questa mia dimenticanza è che, probabilmente, l'emozione di vederlo apparire, in un momento così inaspettato, fu più forte da cancellare tutto il resto.

Ricordo però il numero degli studenti, non arrivarono nemmeno ad una dozzina, ed erano per lo più di genere femminile. I pochi ragazzi che avevano assistito alla prima lezione non si fecero gradualmente più vedere nelle successive, ma questo era un fattore che avevo calcolato, considerato il programma di studio che avevo deciso di usare. Niyol fu il solo ragazzo frequentante, il solo che mi puntava i suoi occhi scrutatori addosso dal momento in cui arrivava, mai puntuale, a quello in cui la lezione terminava. Tutte avevano una strana cotta per lui e, anche se mi è praticamente impossibile valutarlo sotto un punto di vista oggettivo, era abbastanza ovvio che fosse così. Niyol era bello. Una bellezza da zingaro. Tutta sua.

Arrivò in ritardo, come poi ebbe l'abitudine di fare sempre e, nel fare il suo ingresso in aula, quel giorno, non solo raccolse l'attenzione di tutti coloro che fino a poco prima avevano il proprio sguardo o su un foglio o su di me, ma anche i miei occhi che si voltarono per ultimi a guardare il nuovo arrivato.

"Scusi il ritardo" mi disse, guardandomi con uno strano sorrisetto appena abbozzato, passandosi velocemente una mano tra i capelli neri. Aveva una voce comune, niente di particolare, ma era il suo tono da sbruffone che chiedeva scusa senza pensarlo veramente a renderlo così attrattivo ai miei occhi.

Mi ritrovai a squadrarlo senza capacitarmi del perché lo stessi facendo, forse perché ero contento che un altro ragazzo si aggiungesse alla lista dei miei studenti o semplicemente perché aveva inspiegabilmente preso possesso della mia concentrazione. Era alto e magro, ad una prima occhiata mi sembrò perfino eccessivamente magro, ma aveva spalle larghe e toniche, erano le sue gambe ad essere lunghe e asciutte, fasciate da un semplice paio di jeans. Il suo busto era nascosto da una maglietta bianca, sopra la quale poggiava una camicia anch'essa di jeans che evidenziava le sue spalle appuntite.

Se io all'apparenza sembravo un tipo ordinario nel mio completo a tre pezzi, Niyol appariva come il solito ragazzo che al mattino prestava attenzione soltanto alla sua acconciatura e probabilmente alla moto che doveva possedere, considerato il casco che aveva fermo su un braccio.
Ciò che più mi colpì di lui, però, fu il suo viso. Lo ammirai da lontano quel poco di tempo in cui rimanemmo tutti in silenzio, lo feci quindi per una manciata di secondi, ma riuscii a cogliere tutto ciò che da quel giorno in avanti mi avrebbe ossessionato la mente e offuscato ogni desiderio giunto prima della volontà di starlo a fissare per attimi indecifrabili.
Aveva una pelle scura rispetto alla mia che, spesso lontano dalle giornate afose e calde, era sempre fin troppo candida; aveva tipici lineamenti orientali, ma dal suo impeccabile accento con cui aveva detto quelle due semplici parole, non avevo dubbi sulla sua provenienza: era americano.
Aveva capelli neri e sbarazzini per quanto fossero poi acconciati perfettamente con del gel che li rendeva lucidi; e il suo ciuffo rialzato verso l'alto, come poi sarebbe stato tipico più avanti della moda alla Elvis, mi fece credere che l'aveva anticipata di qualche anno, soltanto perché probabilmente con quell'acconciatura, Niyol sapeva di essere dannatamente bello.
I suoi occhi, però, furono totale dannazione per i miei. Preceduti da due folte sopracciglia nere, perfettamente lineari nel loro ruolo di cornice, quel paio di occhi si erano fin da subito fatti, oltre che beffardi, scrutatori verso di me che, in fin dei conti, avevo fatto lo stesso.
Non avevo mai creduto che un colore come il marrone potesse qualificarsi in modo tale come effettivamente accadde in quel momento. Perché era meraviglioso, comune, ma terribilmente stupendo.
Se non lo avessi giudicato strano, avrei pensato che avesse del rimmel per quelle lunghe ciglia arrotondate verso l'alto, visibili così bene perfino ad una distanza di una decina di metri. Quelle iridi marroni erano belle come poteva esserlo la Terra vista dallo Spazio, con tanto di stella più luminosa, le ciglia, e bensì due Lune a metà, nere, che erano le sue sopracciglia.
Ho anch'io occhi nocciola, ma i suoi erano così misteriosi, così impossibili da decifrare con un solo colore da renderli perfetti come ogni mistero mai svelato. Giuro di averle viste anche diventare verdi, di notte, alla sola luce fioca di un lampadario; erano di un marrone impreziosito di tante sfumature diverse, dalla più chiara alla più scura, e la pupilla nera era sempre, sempre circondata da una tonalità diversa di quel colore così apparentemente innocuo e che a quella distanza, inizialmente, mi era stato impossibile notare.
Come ogni essere umano che aveva il coraggio di andar oltre quelle iridi, osai anch'io e proseguii per distrarmi su quel naso lungo e appuntito, perfetto anch'esso, ed era così assurdo che tante perfezioni uniche coesistessero pacificamente in quel mondo che era il viso di Niyol, da turbarmi; perché si sa, no? Quando in mezzo ci sono troppe meraviglie sono due le opzioni conclusive: o si instaura una guerra civile tra di esse, oppure il risultato finale è piuttosto deludente.
Per quanto poco lo conoscessi in quel momento, Niyol sapeva di essere bello e nessuna parte in lui lottava per primeggiare e, soprattutto, il risultato finale non era affatto deludente - e il guaio era che non pareva essere così soltanto ai miei occhi.

Continuai sulla sua bocca, l'ennesima bellezza capace in quel momento di farmi perdere le staffe; adesso aperta in un sorriso di circostanza, affatto imbarazzato, era screpolata come se per unico difetto quel ragazzo avesse l'oltraggio di torturarsela con i denti; era un controsenso assurdo, quella bocca, perché la descrissi mentalmente piccola ma grande. Con la sua forma a cuore, il labbro inferiore era leggermente più pronunciato dell'altro e la barbetta scura, incolta di qualche giorno, che la circondava, faceva in modo di rinvigorire il rosso tenue, ma caldo, che la colorava.

Se dalle mie parole non dovesse essersi intuito, ebbene, Niyol col suo arrivo mi lasciò senza fiato, senza ragione, senza vestiti, senza pudore... mi privò di tutto, lasciando il batticuore involontario che mi era preso soltanto a guardarlo.

Giunse come una folata di vento e spazzò via ogni dettaglio del contesto che mi aveva reso tanto ansioso di fronte alla mia prima esperienza da professore, e mi aiutò, devo ammetterlo, perché fece in modo che i miei occhi si focalizzassero su di lui e sulla sua incantevole e naturale presenza. Tutto il resto non contò più.

Fu il mio Shurhùq, il vento di mezzogiorno, lo scirocco. Arrivò senza che l'aspettassi, dall'Est, caldo e ammaliante. Mi soffocò, annebbiando ogni più effimera ragionevolezza del mio essere, che avevo ostentato in quegli anni a tutti coloro che avevano leggermente stuzzicato la mia curiosità.

Non ebbi scelta contro di lui, se non quella di ardere sotto il suo tocco, anche quello più innocente fatto con uno sguardo; non ebbi modo di scappare, benché lo feci fino a quando mi fu concesso dalla mia posizione di insegnante e dalla sua di studente. Ma mi lasciai sedurre dal suo silenzio mentre io spiegavo, dalla sua curiosità quando mi poneva delle domande e dalla sua intelligenza quando rispondeva con arguzia alle mie.

Nonostante io ora ci abbia impiegato più di una pagina per descriverlo, questo non significa che stetti lì a osservarlo impudicamente come uno stoccafisso. Cioè, lo feci, ma per i pochi attimi che occupò anche lui nell'osservarmi. E me lo domandai spesso come mi avesse descritto, ma fui sempre troppo occupato a far altro, ogni volta che mi tornava alla mente il nostro primo incontro, per domandarglielo.

Si era scusato per il ritardo. Così "che sia solo per questa volta" fu la mia risposta, accompagnata da un sorriso e da un cenno con una mano verso i banchi, incosciente che da quel giorno avrei silenziosamente accettato ogni suo ritardo soltanto per poterlo osservare più del dovuto quando palesava il suo ingresso in aula.

Niyol annuì e mi sorrise, sfacciato, prima di incamminarsi verso una ragazza bionda seduta nella prima fila, che salutò, baciandola su una guancia e sedendovisi accanto.
Si chiamava Penelope Edwards ed ebbi modo di scoprirlo attimi dopo, quando le feci una domanda tentando di metterla in difficoltà. La mia non fu stupida gelosia, forse solo l'aggettivo stupida poteva qualificare la mia azione, ma a quel tempo mi giustificai con l'uso della parola "curiosità". Sì, fu solo curiosità, la mia, di sapere chi avesse la fortuna di sentire sulla propria pelle quelle labbra; le stesse che si erano già insinuate nei miei pensieri, oscurandoli tutti solo per essere al centro dell'attenzione e ossessionarmi.

Ero già criticamente a quel punto, con me stesso, e l'avevo appena incontrato, all'epoca non immaginavo nemmeno quanto poi sarebbe peggiorata la situazione.

"Il vostro collega si è perso l'introduzione di questo corso, chi vuole brevemente aiutarlo?" avevo subdolamente domandando, fissando l'amica bionda. Nessuno aveva alzato la mano e questo mi fece sorridere ancora di più, spostando l'attenzione sugli altri ragazzi per poi puntarli nuovamente su di lei: "Lei, è una sua amica, no? Qual è il suo nome?"
Ricordo perfettamente la sua reazione e ancora sorrido: sbuffò, alzando gli occhi al cielo e arrossendo lievemente poi "Edwards"" mi rispose. "Il nome?" insistetti, mentre Niyol, poggiato con i gomiti sul banco, abbassava il capo per sorridere divertito. "Penelope, ma preferirei Penny".
"Penelope" dissi, poggiandomi delicatamente sulla superficie della cattedra, sorridendo e allacciando le braccia al mento "ma preferisce Penny, vuole provarci lei?" aggiunsi. Lei sbuffò ancora e mentre Niyol alzava lo sguardo, rivolto verso di lei, io mi incantai sul suo profilo.
Pateticamente perfetto anche esso, perciò mi sbrigai a tornare su di lei. "Mh, okay..." mi rispose dubbiosa, grattandosi con due dita la cute. Gonfiò le guance e pensai fosse buffa, quel pensiero e lei mi fecero sorridere mentre Penny iniziava a spiegare in sintesi ciò che avevo detto.
"Spazieremo in vari periodi e in diversi luoghi, discutendo di vari movimenti culturali che influenzarono e cambiarono il modo di poetare, soffermandoci però su un tipo di poesia... giusto, professore?" domandò lei, mentre aveva iniziato ad arricciarsi una ciocca di capelli tra le dita. Annuii e con un segno della mano la esortai a continuare. "Beh, principalmente poesia a tematica omosessuale" concluse in un soffio, quasi strozzato e imbarazzato. Niyol alzò lo sguardo su di me, non appena aveva udito quella parola, quel tabù, scrutandomi come solo poteva fare osservando un folle. Poi, sorprendendomi, mi sorrise e io mi accorsi solo in quel momento di aver trattenuto il respiro. "Tutto chiaro...?" chiesi, sospendendo la mia domanda e aspettando che egli mi si presentasse.

"Limpidissimo" mi rispose e ancora una volta il suo tono fu caustico. Non mi aveva detto ciò che volevo sentire, il suo nome, così tentando di farlo con disinvoltura, glielo chiesi palesemente, dimostrando la mia curiosità: "Il suo nome?"

Niyol mi sorrise ancora, stavolta la sua bocca si storse d'un lato e su una sua guancia si formarono per la prima volta, davanti ai miei occhi inesperti, delle tenere rughe d'espressione che mi fu concesso di baciare e venerare soltanto quattro anni dopo. "Meziane" si annunciò. "Niyol Meziane, professor..." continuò, osservando velocemente alle mie spalle. "Professor Payne" concluse, appoggiandosi alla seduta e incrociando anche lui le braccia al petto.
Ricordo ogni suo movimento perché cercai di distrarmi per non pensare ai miei brividi quando il mio nome fu sulla sua bocca. Lo pronunciò con una tensione così labile che mi fece rimanere in silenzio per qualche secondo, prima di rimettermi in piedi, far scoccare le mani per scuotermi e riprendere con la lezione.

Insegnavo quella che era sempre stata l'arte più bella, ai miei occhi: la Poesia. Sapevo ogni minimo dettaglio di come essa fosse cresciuta dai suoi primi momenti fino ai nostri tempi, gli anni cinquanta, ma durante i miei studi un particolare genere aveva saputo cogliere la mia attenzione, facendomi dedicare ad esso anima e corpo; un tema che a quel tempo era ancora un grande divieto e lo è ancora nonostante alcune cose poi si iniziarono a muovere seriamente.
Mi aveva coinvolto perché mi vedeva protagonista, mi animava perché tutti cercavano di oscurarla con un altro tipo di poesia; ma ella esisteva, divampante, sempre più forte e io avevo voglia di aiutare, di dare del mio in quella sommossa che poi si sarebbe scatenata soltanto verso la fine degli anni sessanta: gli anni della liberazione dei sessi e dell'amore libero.

In quanto tema poco discusso, era anche fragile e rischioso, ma la prepotenza con cui si era insinuato in me, divenendo parte di me, mi fece essere coraggioso come spesso stentavo a credere di essere e, quindi, anche se nell'intraprendere quel viaggio qualcuno avesse provato a mettermi i bastoni tra le ruote, io sarei probabilmente caduto, ma non avrei mai – e quel 'mai' posso confermarlo ora – gettato la spugna.

Non avrei mai smesso con il mio tentativo di illuminarla, di farne parlare il più possibile, di farla conoscere ai più ignoranti, perché grazie a tutto questo io avevo avuto il coraggio di essere me stesso; e poi se c'ero riuscito io, quasi spontaneamente, l'idea di insegnarlo mi faceva credere di poter aprire la mente anche ai più restii e, per di più, di dare un pizzico di coraggio a chi si sentiva come io mi ero sentito da ragazzo e aiutarli ad accettarsi.

Non credevo fosse una malattia e chi sosteneva una cosa del genere mi metteva i brividi. Perché di certo non si trattava di uomini.

Insegnavo Poesia nella sua più generica definizione, ma mi concentravo su quegli autori che avevano vissuto scrivendo del loro amore "insano", "innaturale", sconosciuto e accantonato. Quello di un uomo verso un altro uomo, quello di una donna verso un'altra donna.
I miei studenti lo capirono fin da subito, anche perché io fui abbastanza chiaro a riguardo.
Alcuni rimasero in silenzio, altri in merito ebbero subito da ridire. Difatti, mi si avvicinò uno dei ragazzi, alla fine della lezione, porgendomi subito il suo problema: "Professore, lei può insegnare tutto ciò?"

Io sorrisi, trattenendo l'istinto di alzare gli occhi al cielo. "Come mai questo quesito? La turbano i miei discorsi?" domandai, mentre osservavo oltre le spalle del ragazzino la figura di Niyol, alzato vicino alla prima fila di banchi, che se fino a quel momento aveva parlato con un gruppo di ragazze, si era poi voltato dalla mia parte per prestare attenzione a quella conversazione.
"No- af-fatto, cioè...mi domandavo-" farfugliò lui, divenendo in viso della stessa tonalità dei suoi capelli ramati.

"Stiamo pur sempre parlando di metrica, di poeti, influenze con altri tipi di culture... a lei sembra di star dirottando una materia come la poesia?" lo interrogai e sapevo di apparire burbero e scontroso, ma – come già premesso – avevo a cuore la mia passione e la difendevo nel solo modo in cui mi era possibile: cercando dove agli occhi estranei potesse essere sbagliato e come potesse anche solo sembrarlo.

Il ragazzino negò ancora e "mi scusi" tagliò corto. "Arrivederla" si sbrigò a dire prima che potessi replicare.

"Alla prossima lezione" dissi, allora, alzandomi e sistemando quegli appunti che poi in fin dei conti non mi erano serviti affatto. E il ragazzo sparì. Sparì davvero, perché non tornò più a lezione.

"Mi piace la sua lezione, saranno sempre così?" si annunciò Niyol, cogliendomi distratto. Difatti, al solo sentire il suono della sua voce, un paio di fogli mi caddero dalla cattedra finendo sui suoi piedi. Mi sentii un idiota inesperto e la sua risata non fece altro che assicurarmi che fossi realmente così, quando poi alzai i miei occhi per guardarlo e sorridergli imbarazzato.
"Lo spero" fu la mia risposta, mentre lui si abbassava per raccoglierli e io abbassavo nuovamente lo sguardo tentando di concentrare la mia attenzione sulla sistemazione di tutto ciò che avevo sparpagliato in due ore di lezione. "Tenga" me li offrì subito. "Lei non è americano, vero?" mi domandò, mentre li afferravo velocemente dall'altro capo della scrivania.
"Mi ha ingannato l'accento?" domandai, senza guardarlo, con un sorriso faticoso da mantenere, mentre il mio corpo non voleva far altro che sudare. Mi sentivo sotto pressione a causa di un ragazzino, cercavo con tutto me stesso di darmi un contegno, ma Niyol aveva avuto fin da subito un potere dannatamente speciale su di me: quello di mettermi in soggezione se mi guardava e in fibrillazione se mi era vicino.

Lo sentii ridere ancora una volta, e soffocarla dietro una mano; non lo faceva affatto con sgarbo e non sembrava nemmeno fastidioso, mi pungolava il petto con la sua sensualità e la sua eleganza. Non so se sapeva di far un effetto così coinvolgente negli altri, ma so che si rese conto fin da subito quale tipo di influenza subissi io nei suoi confronti. "Sì, ma non solo, lei si muove e si veste come un inglese..." mi schernì.

"Questo è disprezzo, ragazzo, cosa le hanno fatto gli inglesi per parlarne in questo modo?" domandai con ironia, costandomi tutta la poca forza di volontà che mi era rimasta assieme al pochissimo contegno. La dignità, invece, spendeva le sue vacanze nella pattumiera, già da un po'.
Lui fece spallucce. "Nulla, anche perché lei mi sta simpatico, lei mi piace" mi rispose, sottolineando quel 'lei' in un modo così strano che in quei giorni seguenti mi rimase nella testa solo per il privilegio di ossessionarmi.

Lo fissai, pensando che stesse flirtando con me, ma non potevo crederci, né dovevo realmente pensarlo, perché se in quella semplice conversazione io ero già a quel punto, potevo considerarmi fregato; per fortuna si intromise la sua amica che "Niyol, andiamo?" lo chiamò, invitandolo ad abbandonare l'aula assieme a lei e al suo gruppetto. Lui si voltò a guardarla e annuì.
"Alla prossima lezione, Professor Payne" mi salutò e ancora una volta fui sulla sua bocca e questo mi fece sentire sottosopra.

"Lo spero" fu di nuovo la mia aspettativa, mentre lo salutavo con un sorriso e raccoglievo le ultime cose. Lo feci sorridere un'ultima volta, poi se ne andò col suo passo silenzioso.
E io finalmente mi sentii nuovamente me stesso, e quindi anche solo. 

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