1950 - Chi può mettere una regola all'amore?
Persi i sensi per un lasso di tempo che, ipotizzo, impiegammo per uscire fuori dall'università; quando rinsavii, Niyol stava tentando di fermare un taxi. Mi chiamava con un tono di voce che andava intensificandosi per la preoccupazione, che perdessi i sensi e non mi svegliassi più. Iniziò con: "Professore! Professor Payne! Si svegli, professore!", io tossivo, forse sputando un po' di sangue e saliva. "Professore! Rimanga sveglio, la prego" lo sentii particolarmente spaventato. Forse per via del sangue.
"Lion! Lion! Ti sto portando all'ospedale". Non ebbi la forza di protestare e probabilmente questo era il segno che non avrei dovuto venire meno alle volontà del mio soccorritore. Un taxi ci portò all'ospedale, era la prima volta che salivo su una di quelle auto ed è ironico pensare ora che di quel viaggio io non abbia alcun ricordo, se non la voce di Niyol come una sirena che continuava a disturbarmi per non farmi addormentare.
Non ricordo nemmeno dell'arrivo in ospedale né della visita. So solo che al mio risveglio ero solo, completamente: perché nella stanza in cui mi avevano stipato a dormire, Niyol non poteva entrare, non essendo mio parente. Ma io non avevo nessuno e quella notte, inconsapevole della mia sorte, pensai alla mia famiglia lontana.
Al mio risveglio, nonostante le contusioni e le costole incrinate, riuscii a mettermi in piedi e a essere, per questo, dimesso. Mi diedero in dotazione una stampella, con cui aiutarmi, e degli antidolorifici che, come suppongo tutt'oggi, erano già in circolo nel mio sangue, ed erano coloro che riuscivano a farmi stare in piedi senza troppo affanno. Avevo il busto fasciato e questo mi costringeva eretto, anche se la mia unica volontà era quella di lasciarmi schiacciare dalla forza di gravità. Quando uscii, ripassai per l'accettazione, lì dove Niyol doveva avermi lasciato alle cure dei dottori.
E proprio lì, lo trovai ad attendermi. Seduto in una piccola sala d'attesa, col giubbotto di pelle a mo' di coperta, accasciato su una parete, Niyol dormiva circondato da persone doloranti o in attesa come lui. Rimasi a fissarlo inebetito per chissà quanto tempo, Dio solo lo sa. Solo quando una infermiera si scontrò con una mia spalla, scusandosi immediatamente, ritornai alla realtà, benché fossi ancora avvolto dallo stato di meraviglia in cui quell'uomo era in grado di gettarmi dalla prima volta che l'avevo visto...
Esitai nell'avvicinarmi, avanzando qualche passo piuttosto timidamente. Quando gli fui di fronte, come un'ombra ad alimentare un tiepido vento assopito, gli occhi di Niyol si aprirono incatenandosi ai miei. Trattenni il fiato: era bellissimo. Scattò in piedi quando capì che fossi io e mi poggiò due mani sulle braccia: "Stai bene- Cioè, state bene professore?"
"Non c'era bisogno che rimanessi ad aspettarmi per tutta la notte, Meziane..." non gli risposi, perché informarlo della mia situazione penosa avrebbe poi fatto passare in secondo piano quella specie di rimprovero.
"Non potevo lasciarla senza sapere che stesse bene" affermò con estrema serietà. Allusi un sorriso di gentilezza e feci qualche passo all'indietro, aiutandomi con la stampella.
Il suo sguardo assonnato si svegliò nel vedermi com'ero stato ridotto e poco dopo lo vidi sformare il suo splendido viso in una smorfia di rabbia. "Quei pezzi di merda, come l'hanno conciata..." bofonchiò.
"Non ti curar di loro..." sdrammatizzai citando Dante. Niyol mi seguì verso l'uscita rallentando di molto il suo passo felpato. Era in attesa del momento in cui crollassi per potermi venire in soccorso. Fortunatamente il mio orgoglio rimase integro fino alla strada.
Per la seconda volta, in meno di ventiquattro ore, prendemmo un altro taxi. Questo ci condusse in prossimità di casa mia, che dopotutto non era così lontana dall'università. Diversamente dalla prima corsa, pagai io.
Niyol scese assieme a me. Ci guardammo per qualche secondo senza dirci nulla. Avanzai un saluto, ma lui si accigliò. "Qual è il problema?"
"Mi sta salutando quando non ho alcuna intenzione di mollarla qui sul ciglio della strada..."
Mi venne da ridere e non mi trattenni. "D'accordo" gli feci strada verso il palazzo in cui abitavo. Mi aiutò tenendo la porta d'ingresso. Salimmo a piedi e Niyol mi tenne la stampella mentre io facevo ogni passo con la stessa velocità di una lumaca. "A che piano dobbiamo arrivare?" la mia risposta fu una smorfia, che gli fece intuire da sé la pessima notizia che avevo da dargli. "Immaginavo fosse l'ultimo" mi precedette. Sogghignai divertito e questo mi fece male all'addome. Me lo ritrovai a uno scalino più in alto rispetto a me a controllare che stessi bene. Mi accorsi solo in quel momento che avevo iniziato a tossire, affaticato. "Vuole una mano?" il mio orgoglio mi fece negare con la testa e per distrarlo gli passai le chiavi di casa che tenevo in tasca. "Intanto apri la porta, quella sulla sinistra" lo esortai gentilmente.
Niyol esitò qualche istante, ma con estrema familiarità si fidò di me e mi diede ascolto, lasciandomi salire con calma e da solo.
Arrivai qualche minuto dopo di lui, che mi attendeva sul ciglio della porta. Solo in quel momento, col fiato mozzato mi ritrovai a elaborare il fatto che il ragazzo, che nell'ultimo mese aveva rivoluzionato la mia intera condizione su questo mondo, si trovava nell'unico luogo in cui ero in grado di fingere che non esistesse affatto.
Da quell'occasione in poi, non avrei avuto alcuna possibilità di dimenticarmi dell'esistenza di quella persona fra le quattro mura di casa mia. Perché Niyol avrebbe portato il suo vento scirocco anche lì, viziando l'aria della sua influenza. Sarei soffocato o impazzito, in questo caso le due conseguenze potevano dirsi simili. Per questo motivo, sempre sul ciglio della porta, feci in modo di fargli capire che non era più necessaria la sua presenza. Anche perché ero timoroso all'idea che più a lungo gli permettessi di essere lì, altrettanto difficile sarebbe stato vederlo andar via. "Grazie per tutto..."
"Professore" tentò lui, completamente intestardito sul fatto di volermi assistere. Chiusi gli occhi mentre una mano si andava ad appoggiare su una sua spalla: "Ragazzo, hai già fatto fin troppo per me. Ora sono a casa e tu puoi tornare alla tua, riposarti...hai passato la notte in una sala d'attesa per me, e non avresti dovuto" mentre parlavo avevo riaperto gli occhi per fissarlo, ma non riuscendo a sostenere l'intensità di quello sguardo che ancora una volta mi stava palesando quanto poco si fosse sforzato di essermi d'aiuto, mi distrassi togliendogli dalle mani la stampella e avanzando all'interno della casa.
"Posso riposare, senza doverla per questo lasciare da solo. Lei sta male, ha bisogno di-"
"Meziane, non è appropriato, lo capisci?" gli palesai con gentilezza. Lui fece un sospiro, pronto per replicare inorgoglito ma alla fine tacque, annuendo. Fece dietrofront per uscire ma tornò a guardarmi con l'impellente bisogno di non demordere. "Mi dà il permesso di venirle a far visita in questi giorni?"
Lì per lì feci un sorriso divertito. "Non posso di certo negartelo, visto che ora sai dove abito..." la sua risposta fu un sorriso a trentadue denti. Eravamo arrivati a un compromesso, perciò fu più semplice per entrambi salutarci. Quando chiusi la porta di casa e lo lasciai andare, sentii improvvisamente freddo.
Quel giorno lo trascorsi a letto. Mi era tolto gran parte delle fasce che mi costringevano a stare in una posizione rigida, lasciando quelle che tenevano ben fermo l'addome offeso. Dormii spesso, risvegliandomi soltanto quando i medicinali perdevano il loro effetto e il dolore mi infastidiva più della spossatezza. Non ebbi la forza di alzarmi per mangiare, né per bere e il giorno passò diventando notte. Alla fine, il pensiero che Niyol avrebbe potuto farmi visita e trovarmi disidratato e debole per la mia reticenza a sopravvivere mi fece trovare la forza di bere un po' d'acqua e prepararmi un panino. Mi rimisi a letto dopo aver assunto l'ultimo antidolorifico e mi addormentai in un sonno profondo.
Il giorno dopo mi svegliai presto, sempre per via del dolore. Feci colazione ma quando tornai verso il letto, mi ritrovai a fare una smorfia di insofferenza: ne avevo abbastanza di quel materasso. Mi misi perciò sull'unico tavolo che avevo in casa, cercando di preparare la lezione della prossima settimana.
La mia insofferenza si spostò da una stanza all'altra in un ridicolo lasso di tempo, per ben due motivi: il dolore e i dubbi che mi sommersero quando ripresi lucidità su quando mi fosse accaduto nelle ultime ventiquattro ore.
Stare seduto sulla sedia, nelle condizioni in cui ero, mi era impossibile ma pur di non dovermi coricare come un malato a letto, tentai qualsiasi posizione sperando fosse più comoda della precedente. Un supplizio. Il tentativo, poi, di distrarmi con la preparazione della nuova lezione da tenere, mi ricondusse a una velocità imbarazzante al momento in cui ero stato malmenato e conciato in quella condizione. La violenza dei calci, ridicolmente, aveva fatto meno male del peso della vergogna, della colpa e della stupidità che mi sentivo addosso.
Avevo Virgilio sotto il naso con le sue Egloghe e mai come allora mi sentii tanto perso. Forse unicamente in un'altra occasione, ma in questo caso a livello professionale, non sentimentale. Non del tutto, certo: ero stato ferito nel vivo del mio cuore e, letteralmente, attorno a quell'organo fondamentale, ma ciò che era crollato totalmente era il castello di sabbia che avevo costruito illudendomi di poterlo definire "la mia carriera". Ero ancora alle fondamenta e queste erano state una sfida, ma in quello stato dovevo sicuramente valutare la mia resa. Non potevo morire per una idea, se il mondo non era ancora capace non tanto di accettarla ma quantomeno di ascoltarla.
Come Dante, iniziai a leggere Virgilio sperando indossasse per me le vesti di una guida.
Corydon
Ahi, che ho fatto, me misero! Come un folle ho lanciato l'Austro tra i fiori e i cinghiali nelle limpide fonti.
Poeta
Chi fuggi, stolto? Abitarono le selve anche gli dei, e il dardanio Paride. Abiti pure Pallade le rocche che lei stessa costruì; a noi piacciono soprattutto le selve.
La torva leonessa insegue il lupo, il lupo la capretta, la vivace capretta cerca il fiorente citiso; Coridon insegue te, o Alessi: ciascuno è attratto dal suo desiderio. Guarda i giovenchi che legati al giogo riportano gli aratri, e il sole calando raddoppia le ombre;
Corydon
eppure l'amore mi brucia: chi può mettere una regola all'amore?
Poeta
Ahi, Coridon, Coridon, quale follia ti prese! Tu lasci le viti sono potate a metà sull'olmo frondoso.
Piuttosto perché non ti prepari ad intrecciare qualcosa di cui c'è veramente bisogno, con i vimini o con il molle giunco?
Troverai un altro Alessi, se questo ti disprezza.
Chi può mettere una regola all'amore?
La risposta fu il suono del campanello. Mi trascinai all'ingresso con in mente ancora la seconda Egloga di Virgilio, in cui il povero Corydon si disperava per non essere amato da Alessi.
Per una volta il mio problema non era l'attenzione del ragazzo che mi stava facendo impazzire, quanto l'idea di dover rinunciare alla mia ambiziosa idea di insegnare qualcosa di rivoluzionario a persone che per questo solevano chiamarti invertito.
Dovevo mollare.
"Chi è?"
Sì, per la mia incolumità avrei dovuto.
"Niyol"
Sorrisi.
Quella era la risposta che, per una volta, non avevo trovato nei miei amati poeti. Aveva bussato alla mia porta, canzonandomi nella burla più buffa di sempre: una sola persona, contro tutto il mondo, sapeva ricondurmi sulla retta via. Quella più coraggiosa.
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