1. È stato solo un gioco
Un anno dopo...
Un ronzio sordo, lontano, distante, smosso da una quiete apparente, racchiuso in un ruggito silenzioso, in un refolo di vento.
Un tonfo crudele, il violento frastuono di un cuore infranto, un dolore al petto.
Soffocante.
Un brusio d'api nel buio.
Un incubo bianco, dimenticato, avvolto in una coperta immacolata e lasciato marcire in una soffitta gelida e oscura.
Ansia e panico e, di nuovo, silenzio.
Solitudine.
L'anima sbranata da un mutismo blasfemo, dal sentimento rinnegato, calpestato, lanciato in un luogo remoto e senza tempo.
Una lacrima.
Piena.
Vuota.
Sottile.
Calda.
Salata.
E poi lui...
Kevin.
Il mio martirio e il mio tormento.
Osservo l'acqua infrangersi sulla porcellana del piatto doccia.
Forma una piccola cascata, un insignificante diluvio assorbito dallo scarico.
Insignificante.
Come noi.
Come il nostro amore.
La durezza del suo sguardo, la sua mascella contratta, la bocca chiusa e sigillata, l'accusa non detta, celata.
Rifiuto.
Dopo il suo risveglio Kevin non era più lui.
Era distante, freddo, muto.
Si dileguava in un'ombra scura, mi rifuggiva, ancora.
Si era negato.
Continuava a negarsi, a negarmi.
Durante i mesi della convalescenza non ha voluto vedermi, dopo le sue dimissioni si teneva alla larga da me, tollerando la mia presenza il giusto necessario.
Non capivo.
Ero confusa, stravolta, distrutta.
Provai a parlargli più volte, dovevo sapere, capire il perché di quel comportamento, ma ogni tentativo era stato vano, fino a quando, una sera, lo costrinsi ad ascoltarmi.
"È stato solo un gioco".
Solo un gioco...
Le sue parole affilate come coltelli.
"Tu menti!".
Un ghigno cattivo.
Il suo ghigno beffardo e canzonatorio.
Urla e lacrime.
"Avevi detto di amarmi, Kevin".
"Mentivo! Quando sei ingenua, piccola Sailor Moon".
Mentiva.
La crepa era stata devastante.
Una faglia dalla portata gigantesca.
"Hai davvero pensato che io fossi innamorato di te, sorellina?".
E la terra tremò, cigolando in uno stridore assordante, mentre mi voltava le spalle e raggiungeva l'uscita.
Sorellina...
Lui non mi aveva mai amato.
Il suo amore per me non era mai esistito.
Chiudo il rubinetto e indosso l'accappatoio con movimenti lenti, automatizzati.
Mi sento un automa.
Sono un automa.
Vuota.
Senza più anima e cuore perché lui me li ha strappati e buttati via.
Entro nella mia stanza.
La valigia è quasi pronta, domani ritorno a Roma e non lo rivedrò mai più.
Ho deciso di iscrivermi all'università, alla facoltà di lettere.
Cambiare aria mi aiuterà a dimenticarlo, spero.
Mi avvicino allo specchio e osservo la mia figura.
Il volto è scarno, pallido.
Gli occhi gonfi.
La carnagione diafana, spettrale.
Sono uno spettro.
Guardò di nuovo lo specchio e sospiro, ripensando a lui.
***
"Guardati" ordinò, graffiandomi con un bisbiglio.
Aprii gli occhi e lo vidi scrutare con solerzia il ritmo del mio respiro.
Quel viola era sottile e lascivo, mi assaggiava lussurioso, mi piluccava millimetro per millimetro.
"Sei bellissima, Selene".
Quel sussurro rauco creò dentro di me un delirio di emozioni.
Discese, piano, lungo la stoffa dell'accappatoio, fermandosi esattamente sul nodo della cintura, tirò un lembo, mentre venivo travolta da un flutto ebbro di desiderio.
"Kevin... io..."
Ansimavo, sotto quegli occhi e quelle mani.
"Non ho mai...".
Lui abbassò le palpebre, perdendosi nel profumo dei miei capelli.
"Lo... so" mormorò, gracido (1).
***
Riapro gli occhi.
Lui non c'è, mentre il cuore mi esplode, ringhia, sbraita il suo nome.
Sento la collera salire, una rabbia bestiale verso me stessa, verso il pensiero di lui.
È un ossessione straziante.
Non riesco a cancellarlo dalla mente.
Presa dall'impeto tiro un pugno contro lo specchio, che va in frantumi, tagliandomi la pelle, lacerando la mia carne.
Urlo.
Gocce vermiglie scivolano sul mio polso, si schiantano sul pavimento, e questo dolore mi da sollievo perché mi distrae dalla sua mancanza.
Osservo il taglio, è profondo, devo medicarlo.
Arrotolo un fazzoletto attorno alla ferita e vado in soggiorno, la mamma non c'è, è a lavoro.
Mi dirigo verso il mobiletto delle medicine, prendo l'acqua ossigenata e delle garze, ma, proprio in quel momento, la porta si apre e i nostri sguardi si attorcigliano in un nodo stretto.
Kevin...
Eccolo, con quegli occhi grandi e quelle labbra che prenderei a morsi.
"Selene, stai bene? Ti ho sentito urlare...".
Lo guardo e le gambe tremano.
"Che te ne importa? Vattene!".
Le sue iridi percorrono la mia figura, soffermandosi sulla mano sanguinante.
Si avvicina senza dire niente, sembra... preoccupato?
Prende la mia mano nella sua, ma la libero immediatamente dalla sua stretta leggera.
"Vattene!" sbraito.
Devo dimenticarlo, voglio dimenticarlo, ma averlo sempre intorno non mi aiuta.
Anche se mi evita, anche se a stento mi rivolge la parola, anche se fa di tutto per tenermi lontana da lui, la sua presenza costante mi sconvolge e mi logora.
Mi volto per andarmene, ma lui mi afferra per il polso sano e mi trascina in bagno.
Mi spinge piano verso il lavandino e apre il rubinetto.
"Devi lavare la ferita prima di medicarla".
Ha le ciglia abbassate sul mio polso mentre lo dice.
Annuisco sarcastica.
"Certo, tu te ne intendi parecchio di ferite, sai ferire molto bene".
Stringe i denti e solleva lo sguardo su di me.
Il silenzio si scioglie nello scroscio sonoro dell'acqua e nel battito accelerato del mio cuore
Si china verso di me, è vicino, così vicino che mi sento morire.
Fissa quelle iridi indecifrabili nelle mie.
Mi scruta lento, scendendo piano sulla mia bocca.
Deglutisce.
Deglutisco, mentre mi sfila la garza dalla mano.
I suoi occhi ritornano sulla ferita, comincia a medicarla con attenzione, fasciandola con un gesto delicato, ma deciso.
Sospira.
Sospiro.
"Prendi un antinfiammatorio, il taglio potrebbe fare infezione" bisbiglia, quando ha finito.
"Dici?" chiedo, ironica.
Lui mi fulmina con un'occhiata, poi si gira per andarsene.
"Sì, vattene, scappa pure, fratellino!".
Lui si ferma sulla soglia, si volta verso di me e mi raggiunge in due falcate.
"Cosa... hai detto?" ruggisce.
Rido e lui mi afferra per i capelli ancora umidi.
"Come mi hai chiamato?" domanda, arrabbiato.
Il suo volto è un misto di fuliggine e metallo fuso, le sue pupille una coltre di lavanda al vento.
"Fratellino..." sussurro, senza respiro, e lui mi attrae con forza sul suo viso.
Sorride, lo sa che sto morendo dalla voglia di lui, poi le sue labbra si schiantano sulle mie, mentre la sua lingua ricerca la mia con avidità.
Siamo petrolio grezzo in un pozzo senza fondo.
Le sue mani spingono sulla mia nuca, la sua bocca mi invade e mi travolge, le mie dita afferrano i suoi capelli, il suo viso, i muscoli contratti delle sue braccia.
Mi era mancato.
Mi mancava.
Mi mancava da morire.
Ci allontaniamo per riprendere fiato e il suo sguardo continua a divorarmi.
"Vuoi giocare ancora con la tua sorellina, Kevin?" chiedo con un sorriso irrisorio.
Voglio ferirlo, voglio che lui soffra almeno la metà di quanto ho sofferto io in questi mesi, ma i demoni non soffrono mai, i demoni ti mangiano il cuore e poi scompaiono.
E così lui ricambia il mio sorriso.
È mordace, sardonico, dileggiatore.
Indietreggia e, senza dire nulla, svanisce, inghiottito dalla porta.
______
NOTE
(1) Da Uccidimi Dolcemente capitolo 21.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top