3.1
L'unica cosa di cui MacPhearson poteva ritenersi abbastanza sicuro, era che i territori occupati dagli alleati si trovavano a nord. Tuttavia, per quanto avesse camminato per allontanarsi dal luogo dello schianto, nonostante il piede che gli faceva male a ogni passo, non riusciva a scorgere la fine di quella foresta infida, né poteva essere certo di non stare in realtà girando intorno a un punto morto.
A rendere più faticosa la marcia, di tanto in tanto radici sporgenti gli facevano lo sgambetto e il fango gli risucchiava gli stivali, mentre animali mai visti lo scrutavano furtivi dagli alberi.
Alzò lo sguardo verso il cielo: l'oscurità cominciava a calare, lenta ma inesorabile. Avrebbe dovuto trovare un rifugio per la notte, più per l'impossibilità di proseguire col buio che per l'esigenza di un riposo che sapeva essergli precluso. Quando stava in Scozia gli era capitato diverse volte di accamparsi sotto le stelle insieme a suo fratello, ma la differenza stava nel fatto che l'ambiente in cui si trovava non gli ispirava alcuna fiducia.
Approfittò degli ultimi strali di luce per individuare il posto adatto, quindi si arrampicò su una formazione rocciosa ai piedi di uno stagno e lì allestì il suo accampamento per la notte.
La sua posizione, che gli permetteva di vedere anche al di là dei cespugli più alti, gli diede il tempo di effettuare una rapida ispezione prima che le ombre inghiottissero tutto.
Col sopraggiungere del buio, anche la temperatura si abbassò, e la divisa umida divenne una sorta di seconda pelle fredda e viscida. Nel suo bagaglio c'erano dei vestiti di ricambio, ma il solo pensiero di eseguire un'operazione così delicata in quel frangente bastò a farlo rabbrividire per l'orrore.
Per scaldarsi si limitò ad avvolgersi nel giubbotto da aviatore foderato di pelliccia, quindi usò gli ultimi accendini che gli rimanevano e accese un fuoco con un fascio di legni marci.
Forse sarebbe servito a tenere lontane le belve, ma non i giapponesi. "Di notte, in trincea, mai accendere tre sigarette con un solo fiammifero," ripeteva sempre suo fratello William, che in quel momento si trovava in Nordafrica con un reggimento di fanteria. "Il fuoco desta l'attenzione dei cecchini."
Se dovessero arrivare non mi farò cogliere impreparato, pensò. Tolse la pistola dalla fondina e rimosse la sicura.
Infine, appoggiò la schiena allo zaino e si sedette per terra, lasciando che il tepore del fuoco gli sciogliesse le membra intorpidite. Mangiò un panino spiaccicato dalla sua riserva di cibo, poi tirò fuori carta e penna e ricominciò da capo la risposta per suo fratello, alla quale si sentì in dovere di aggiungere i dettagli sulla sua disavventura.
Subito sotto le rocce, un coro di ranocchie gracidava sguazzando nello stagno; dagli alberi si levava il canto di qualche uccello notturno. Friniti e ronzii riempivano il silenzio, mentre il fuoco crepitava e scoppiettava.
Un'improvvisa detonazione lo fece sobbalzare, scivolò in copertura e la mano corse ad afferrare la pistola. Un paio di uccelli sbatterono le ali spaventati. Seguì qualche istante di sospensione, poi altri spari in rapida sequenza rimbombarono amplificati dall'eco. Altri uccelli svolazzarono via.
MacPhearson rimase immobile. Aveva riconosciuto il suono: erano fucili giapponesi. Ne aveva sentiti pochi, essendo poco avvezzo agli scontri di terra – e si augurò di non compensare quella lacuna, dopo aver assaggiato il piombo degli italiani – ma ricordava ancora molto bene le poche volte che li aveva sentiti. Quello poteva voler dire solo una cosa: qualcuno degli uomini che si erano buttati col paracadute si era imbattuto in una pattuglia nemica.
Il pensiero che quegli spari potessero essere per Fowler – l'unico che conoscesse, tra tutti i passeggeri dell'aereo – gli fece stringere i denti. Anche se non poteva definirlo suo amico, era pur sempre un suo compagno di squadriglia, un suo commilitone, uno che volava con lui da anni. Un bravo pilota, uno su cui poter contare durante una caotica battaglia aerea: quando volavano in formazione e si guardava alle spalle, scorgere il muso dentato dello Spitfire di Fowler era per lui come una garanzia che l'altro gli avrebbe coperto le spalle, come quella volta contro l'Aquila Prussiana.
E ora poteva essere ferito, forse sperduto nella giungla, forse morto...
"Sei un idiota, Fowler," ringhiò tra sé e sé.
Decise tuttavia che l'indomani sarebbe andato a cercarlo, vivo o morto che fosse.
***
Immobile, il viso affondato nel fango, il sergente Fowler pensò di essere morto.
L'odore del sangue che impregnava l'uniforme si mescolava a quello del fango e delle foglie putride, risalendogli fino alle narici a zaffate che gli davano la nausea. Di lontano, come ovattate, gli giungevano ancora le voci dei giapponesi che parlamentavano tra loro.
La lucidità ricompariva a tratti, lo abbacinava come un fascio di luce improvvisa, poi lo faceva di nuovo ripiombare nel buio.
In uno dei pochi sprazzi di coscienza, il dolore lo colpì di nuovo come una frustata e gli infuse nelle vene quel primordiale istinto di sopravvivenza tipico degli animali in pericolo. Le voci dei giapponesi si erano acquietate, e in ogni caso non aveva alcuna intenzione né di morire lì come un povero maccabeo, né di farsi catturare da loro. L'aroma del curry e dell'incenso continuava a solleticargli il naso, quasi come una beffa. Ma se fosse riuscito a raggiungere il villaggio...
Thomas si appiattì contro il muro e arrischiò cautamente la testa al di là del bordo: ciliegie mature ornavano l'albero come decorazioni natalizie, di un rosso così lucido da sembrare smaltate. Dopo settimane intere a mangiare soltanto porridge, fagioli stufati e patate farcite, bastò la sola vista a fargli torcere lo stomaco per la fame.
In quell'ora pigra e senza vento, nemmeno le foglie del giardino si muovevano e, come ogni giorno, il signor Chapman doveva essere immerso nel suo sonno pomeridiano.
Indugiò ancora qualche per qualche istante, la schiena appoggiata al muretto scrostato. Una ragazza in bicicletta passò canticchiando una canzone, la voce stonata che si sovrapponeva al fastidioso cigolio delle ruote, e svoltò l'angolo senza far caso a lui.
Quando fu sicuro che fosse abbastanza lontana, poggiò i gomiti sul muretto, lanciò un'ultima occhiata alle proprie spalle, poi si issò a forza di braccia e balzò agilmente sul prato del suo vicino.
Camminando curvo per non farsi vedere, raggiunse l'albero, si tolse il cappello e iniziò a riempirlo di ciliegie.
Il rumore di una finestra che si apriva lo costrinse ad aggrapparsi all'albero, come se desiderasse diventare un tutt'uno con esso. "Ehi, ragazzino!" gridò irato il signor Chapman. Da lì, Thomas non riusciva a vederlo, ma gli sembrava quasi di ritrovarsi davanti il suo volto paonazzo, con le narici dilatate e le vene che si gonfiavano. Cercò di minimizzare il respiro, mentre rivoli di sudore freddo gli scendevano lungo la fronte. "Ragazzino, dico a te! Non fare il finto sordo!"
Il ragazzo non rispose; sperò soltanto che Chapman si convincesse di avere avuto un'allucinazione e tornasse in casa. Tuttavia, qualche istante dopo la porta si aprì e il padrone di casa iniziò a percorrere a grandi falcate la distanza che li separava, agitando un bastone. "Ragazzino, guarda che so chi sei!"
Thomas rabbrividì, col terrore che gli si agitava nel petto e gli impastava la gola: se suo padre fosse venuto a sapere che rubava le ciliegie, altro che cinghiate...
L'istinto gli suggerì di fuggire a gambe levate, sapendo che nessuno in quel quartiere sarebbe riuscito a eguagliarlo in velocità, ma le sue membra erano come paralizzate.
Un dolore bruciante gli lambì la gamba e, quando abbassò gli occhi, si avvide che i suoi pantaloni erano intrisi di sangue dal ginocchio al polpaccio. La parlata di Chapman era divenuta incomprensibile – sembrava una di quelle lingue esotiche di cui si parlava nei romanzi d'avventura che comprava con pochi risparmi prima che la crisi economica investisse anche la sua famiglia.
Ma era davvero Chapman, quello? Lanciò uno sguardo furtivo nella sua direzione e vide un ometto dal viso schiacciato e scuri occhi a mandorla, che lo fissava con astio.
In mano teneva un fucile. Lo caricò e lo puntò contro di lui...
Fowler strinse i denti e con le ultime forze che gli rimanevano riprese a strisciare facendo forza sui gomiti, a tentoni come un cieco, senza sapere dove sarebbe finito: l'unica cosa che gli importava era allontanarsi da lì e in fretta.
Forse era quella la direzione giusta, forse no, ma che importava? L'unica cosa che importava era allontanarsi da lì.
Si ritrovò invischiato in un groviglio di piante intorno alle quali si annidavano nugoli d'insetti, incontrò una pendenza e ruzzolò lungo un declivio, travolgendo cespugli e spezzando rami.
La caduta si arrestò su un letto di foglie marce, che crepitarono appena sotto il suo peso.
L'atmosfera era greve e malsana, appesantita dai miasmi palustri, infestata da zanzare che lo intontivano col loro ronzio.
Gli parve di sprofondare nell'incoscienza, mentre strane ombre barcollavano dinanzi al suo sguardo allucinato e creature dagli occhi fosforescenti lo osservavano ridendo in segno di scherno.
Forse era tutto un sogno, forse si era addormentato sull'aereo, forse si era schiantato insieme agli altri e quella era solo un'illusione post-mortem. Oppure...
Tutto perse improvvisamente d'importanza, e la sua coscienza sprofondò nell'oblio.
***
L'alba lo colse ancora sveglio, diffondendo una luce verdastra che trapelava dalle cime degli alberi. Il fuoco era ridotto a un ammasso di braci sfrigolanti da cui si levavano esili serpentelli di fumo. Il sergente MacPhearson lo soffocò del tutto, attento a non lasciare neanche un carbone acceso, quindi si mise lo zaino in spalla e, recuperato il bastone, si incamminò nella direzione da cui aveva sentito provenire gli spari.
Procedeva claudicando, le orecchie tese e gli occhi attenti a cogliere ogni minimo movimento, con la sensazione che la notte avesse acuito i suoi dolori anziché alleviarli. L'uniforme era ancora umida, così come i calzini e la pelliccia del giubbotto che aveva assorbito l'acqua, e un fastidioso bruciore iniziava a invadergli la gola.
Per l'ennesima volta imprecò mentalmente contro il suo parigrado, immaginando di ritrovarsi davanti la sua espressione scanzonata. Quasi si rammaricò di essere stato mandato in licenza: se fossero stati al campo d'aviazione, lui si sarebbe trovato a leggere all'ombra del suo aereo, senza altro pensiero se non quello di fare una buona caccia. Fowler, invece, avrebbe fatto di nuovo tardi a colazione e si sarebbe ingozzato senza ritegno mentre la squadriglia aspettava di decollare.
Si sorprese, tuttavia, quando si rese conto che percepiva l'idea di cercare il suo commilitone più come un'urgenza pressante che come una seccatura, anche se ciò significava tornare a calpestare il territorio dei nemici.
I caccia sciamavano in un cielo gremito di bombardieri pesanti, piccoli pesci che nuotavano tra gli squali.
Colpito da un mitragliere laterale, lo Spitfire si sbilanciò come un giocattolo rotto. Con la coda dell'occhio, MacPhearson vide un'estremità dell'ala che si staccava di netto.
Lo Heinkel 111 sempre più vicino sembrava un ostacolo ormai impossibile da schivare. Strinse i denti: se proprio non poteva evitarlo, avrebbe cercato di schiantarsi in modo da fargli più danni possibile.
Mentre manovrava disperatamente per riprendere il controllo dell'aereo, uno dei motori esplose e lo squalo volante iniziò a puntare il muso verso il basso, avvolto da una nube di fiamme.
"Pensavo che l'obiettivo fosse quello di abbattere i nemici, non quello di suicidarsi andandogli addosso," disse Fowler attraverso il segnale radio, per poi sfrecciare via tra nugoli di traccianti.
La verità – dovette ammettere, seppur a fatica – era che non voleva abbandonarlo al suo destino perché, dopo tutte le battaglie combattute ala ad ala, sentiva di essersi affezionato a lui.
***
Quando Fowler tornò in sé, una luce malata illuminava la palude, affollata di rane colorate e mosche grosse quanto un pugno. Un rospo rosa a macchie rosse spalancò un paio di ali membranose e spiccò il volo.
L'aria era satura del ronzio degli insetti e del gracidio degli anfibi, le canne già alte si allungavano a vista d'occhio. Sembrava che gli alberi fossero cresciuti fino quasi a toccare il cielo.
All'improvviso, un cicaleccio di voci sovrapposte lo fece sobbalzare, col cuore che minacciava di scoppiargli nel petto: una pattuglia di giapponesi camminava in circolo sull'orlo del pendio, guardavano in basso ma nessuno riusciva a vederlo. Avevano tutti quanti la cuffia con gli occhialoni da pilota, qualcuno di loro portava anche la maschera dell'ossigeno che lasciava scoperti solo gli occhi a mandorla.
Una figura svettava per altezza sulle altre: lo riconobbe subito per il berretto sulle ventitré, il sorriso irriverente e la croce di cavaliere al collo, così com'era apparso su tutte le riviste militari dopo la sua centesima vittoria. Quando gli occhi chiari del tedesco si posarono su di lui, balenarono sinistri come in cerca di vendetta: una vendetta che, a distanza di oltre due anni, non era mai riuscito a ottenere.
Si chiese che cosa ci facessero così tanti aviatori giapponesi insieme a Manfred von Kleist nella giungla. E perché non li aveva visti prima? Ma soprattutto, perché loro non vedevano lui?
Provò ad alzarsi, ma ricadde bocconi con la faccia nel fango: la sensazione che la pelle della gamba stesse per strapparsi gli ricordò soltanto che era ferito, non sapeva quanto gravemente, e che rischiava di morire di una morte indegna di un asso dell'aviazione.
Con le ultime forze che gli restavano, strisciò sotto un cespuglio di felci e lì rimase nascosto.
Gli occhi gli si richiusero e il sergente sprofondò in un sonno torbido e senza sogni.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top