Capitolo 9

Oggi è due novembre. E' il giorno dei morti.
Mi sono alzata prestissimo, stamattina, ho deciso di andare a trovare mia madre al cimitero. Ho lasciato Maria con la signora Giovanna, ieri sera. Ho bisogno di stare per un po' da sola, è quasi una necessità, direi.
Prendo la macchina e guido con il finestrino aperto. L'aria di novembre mi congestiona il viso, ma non ci faccio caso. Ho bisogno di respirare, di accumulare più aria possibile, perché quando arriverò lì starò in apnea per tutto il tempo. Succede sempre, credo si tratti di panico, ma non ne sono certa.
Parcheggio davanti ad un banco di fiori. La proprietaria cerca di vendermi un enorme mazzo di azalee colorate, ma io le rifiuto con un sorriso e mi posiziono davanti al vaso di girasoli. Erano i fiori preferiti di mia madre, diceva sempre che regalare un girasole è come regalare un sorriso a qualcuno.
Ne prendo uno, il più grande, dopodiché pago e m'incammino verso la lapide di mia madre.
M'inginocchio sul terreno umido e accarezzo con la punta delle dita la sua foto. C'è il sole, oggi, anche se ormai siamo a novembre. Sistemo il fiore all'interno di un vaso di rame, poi alzo lo sguardo e leggo l'epitaffio inciso sulla lapide di lucido marmo bianco:


Loredana Astutizia
25 gennaio 1971 - 15 agosto 2013

Un sillogismo: gli altri muoiono; ma io non sono un altro; dunque non morirò.


E' una frase di Vladimir Nabokov. Mia madre adorava quello scrittore, poco prima di morire ci ha fatto promettere che non avremmo fatto incidere frasi disperate o tristi, ma qualcosa che ci avrebbe fatto sorridere. Io penso che chiunque muoia, abbia il diritto di scegliere il proprio epitaffio. E' un saluto alla vita, in un certo senso.
Mi sporgo in avanti e appoggio la fronte sul marmo freddo, proprio sopra la foto di mia madre. Chiudo gli occhi e cerco di ricordarmi qual è stata l'ultima parola che le ho detto. Credo sia stata "a domani". Proprio una frase stupida, per rappresentare un addio.
Cerco di ricordarmi anche il tono della sua voce, la sua espressione divertita, il profumo dei suoi capelli. I ricordi si fanno sempre più sfocati e io non riesco ad accettarlo.
Alla fine do un bacio alla foto, mi alzo in piedi e torno alla mia macchina. La signora del banco dei fiori mi sorride e mi augura una buona giornata. Salgo in macchina, metto in moto e mi chiedo come si possa augurare una buona giornata a qualcuno che esce da un cimitero.


Vago per la città, non trovo il coraggio di tornare a casa. Ho chiamato la signora Giovanna, poco fa, per avere notizie di Maria. Mi ha detto che stava disegnando e che le mancavo.
Sono stata a pranzo in una pizzeria vicino al cimitero, sono andata a passeggiare un po' in un parco, poi mi sono rinchiusa in una libreria e adesso giro con la macchina in quartieri nei pressi del cimitero che neanche conosco.
Ho bisogno di fare qualcosa di folle, di sapere che sto vivendo, che non sto soltanto passando, invecchiando. Parcheggio la macchina davanti ad un pub. Sembra un posto tranquillo, intimo, che mi coinvolge subito nella tipica atmosfera irlandese. Le luci soffuse, l'arredamento, le pinte di Guinness, persino un musicista sul palco che si esibisce dal vivo.
Mi accomodo su uno sgabello davanti al lunghissimo bancone di legno e ordino una birra, una qualsiasi, l'importante è che contenga dell'alcool, insomma, intendo che non sia una di quelle analcoliche. Poi il barista insiste per offrirmene un'altra. Inizio a sentire la testa sempre più leggera, i pensieri si sciolgono come ghiaccio al sole, allora ne ordino una terza.
Non so quanto tempo trascorre, so soltanto che mi ritrovo fuori dal locale quando il cielo è diventato ormai buio, è calata la sera e sono completamente ubriaca. Mi guardo intorno e inizio a camminare verso un parco giochi. Mi tolgo le scarpe e cerco di arrampicarmi sullo scivolo al contrario. Da piccola ci riuscivo decisamente meglio, ma comunque riesco ad arrivare in cima dopo molteplici tentativi.
Mi sdraio a terra, nella torre di legno dello scivolo. Guardo il cielo scuro, le stelle che brillano, la luna che ghigna, e non riesco a ricordarmi che giorno è, né tantomeno che ore sono. E' novembre, è sera inoltrata, ma non sento minimamente freddo, anzi, le guance mi vanno a fuoco. Mi tolgo il piumino che ho indossato stamattina e lo utilizzo come cuscino.
E se mollassi tutto? Insomma, potrei andarmene lontano e cambiare identità. Non dovrei preoccuparmi di mio padre, dei soldi e dei continui ricordi felici che questa città custodisce. Potrei crearmi una nuova vita, magari proprio in Irlanda, visto che quel pub mi è stato così d'aiuto. Poi mi torna in mente la risata genuina di Maria: un raggio di sole in mezzo alle macerie. Non posso lasciarla sola.
Cerco di sollevarmi, ma mi gira la testa, così chiudo gli occhi e cado in uno stato di dormiveglia che mi da sollievo. Ho la gola e gli occhi pieni di lacrime, e la cosa più assurda è che non so neanche perché sto piangendo, allora scoppio a ridere per la ridicolità di questa situazione e mi rendo conto di essere completamente ubriaca. O magari sto semplicemente impazzendo, chi può dirlo.
Due mani fredde si posano sulla mia faccia bollente. Una voce mi incita ad aprire gli occhi, mi scuote le spalle e mi da delle leggere pacche sulle guance per farmi rinvenire. <<Svegliati ragazzina, forza, non fare scherzi.>>
Sollevo le palpebre a fatica e affogo in un paio di pozze grigie che mi stringono lo stomaco. Sebastiano.
<<Sebastiano>>, sussurro, dando voce ai miei pensieri. Sorrido e allaccio le braccia intorno al suo collo. <<Hai proprio un bel nome. Molto... lungo, difficile da pronunciare, sai?>>
Lui lascia andare un sospiro di sollievo, poi una risatina esce dalle sue labbra. <<Ma quanto hai bevuto, si può sapere?>>
Mi stiracchio, emettendo un verso molto poco femminile. <<Non me lo ricordo.>> Scoppio a ridere, coprendomi la faccia con le mani. Ho la pelle completamente insensibile, come se fosse anestetizzata.
Lui mi sistema il piumino sulle spalle, stando attento a coprirmi per bene. Io chiudo gli occhi, e completamente annebbiata dall'alcool alzo la testa e mi avvicino alla sua bocca. Ho un'insensata voglia di sentire la consistenza delle sue labbra. Ad accogliermi, però, c'è solamente l'aria. Sento i miei piedi che si sollevano dal terreno. Dov'è finita la gravità?
<<Dio mio, sei pesantissima>> Sebastiano ghigna, camminando verso l'uscita del parco con la sottoscritta tra le braccia.
Lo colpisco su una spalla, o almeno credo, non ne sono sicura, non ho il controllo delle mie mosse. <<Sei uno stronzo. Non puoi dire alle ragazze che sono pesanti.>>
Si avvicina al mio orecchio e le sue labbra fredde a contatto con la mia pelle rovente mi danno sollievo. <<Infatti l'ho detto solamente a te.>>
La mia testa ondeggia nel tentativo di guardarlo negli occhi. <<Allora sei doppiamente stronzo.>>
<<Che diavolo ci facevi qui fuori? E' tardi e si gela.>>
Sbuffo e mi abbandono contro la sua spalla. Ha un buon profumo. <<Io la odio casa mia, sai?>>
Le sue labbra si aprono in un sorriso. <<Me ne sono accorto. Prima dormi in macchina, poi ti infili in un parco giochi.>>
Rimango per un attimo in silenzio. L'alcool si muove in modo anormale nel mio stomaco, mi prega di farlo tornare da dove è venuto, vale a dire fuori dal mio corpo. <<Credo di dover vomitare.>>
Sebastiano sgrana gli occhi e si affretta a mettermi giù, ma io proprio non riesco a resistere. Vomito sui suoi jeans, mentre lui mi tiene i capelli lontani dalla bocca e spara imprecazioni a tutto spiano.
Quando finisco con quello spettacolo raccapricciante, Sebastiano mi aiuta a tirarmi su e mi fa appoggiare con la schiena contro il cofano della mia macchina.
<<Come stai?>>, mi chiede, guardandomi in faccia.
<<Come se fossi appena finita in una centrifuga.>> Mi pulisco le labbra con la manica della mia maglietta. <<Era da quando ho compiuto diciotto anni che non mi ubriacavo così. Avrò bevuto almeno sei birre.>>
<<Si sente. Hai l'alito di un camionista slavo.>> Sorride, sistemandomi i capelli dietro alle orecchie.
Lo guardo, perplessa. <<Perché proprio slavo?>> Reprimo un brivido e mi copro la vita con le braccia. Adesso comincio a sentire tutto il freddo rigido di novembre.
Lui scrolla le spalle. <<Non lo so, mi danno l'aria di persone che bevono molto.>> Si toglie il suo giubbotto e me lo appoggia sulle spalle. <<Tieni, stai gelando. Io vado in quel bar a prenderti una bottiglietta d'acqua, tu entra in auto e chiuditi dentro. E' un brutto quartiere.>>
Rimango a guardare Sebastiano mentre attraversa la strada ed entra in un bar dalla dubbia affidabilità. Cerco le chiavi nei miei jeans, dopodiché apro lo sportello e mi accomodo sul sedile del passeggero. Accendo i riscaldamenti al massimo e finalmente comincio a sentire di nuovo la sensibilità sulla mia pelle congestionata. Guardo l'ora sul cellulare. Sono le due di notte, accidenti.
Che diavolo credevo di fare? Perché sono stata così imprudente e sconsiderata? Dopo aver visto la fine di mio padre, come ho potuto gettarmi nell'alcool? Ubriacarsi non risolve nulla, forse ti fa smettere di pensare per qualche ora, ma quando torni sobrio i problemi si abbattono furiosamente su di te, quadruplicandosi.
Poggio la testa sul sedile e gemo per il mal di testa lancinante che mi è scoppiato. Oltretutto mi ricoprirò di macchie rosse su tutta la faccia, succede sempre così quando vomito.
Lo sportello del guidatore si apre e Sebastiano prende posto accanto a me. <<Cavolo, siamo ai Caraibi e non me ne sono accorto?>>
Gli lancio un'occhiataccia, mentre cerco di tenere aperti gli occhi. <<Ho freddo.>>
<<I quaranta gradi che ci sono in macchina mi avevano già avvisato prima di te.>> Mi porge una bottiglietta d'acqua e io mi avvento su di lei come se fosse un'oasi nel deserto. <<Vedo che non avevi sete per niente, eh?>> Sorride divertito per la mia occhiata assassina, dopodiché apre lo sportello e scende dalla macchina.
<<Dove vai?>>, gli chiedo allarmata, mentre richiudo la bottiglia con il tappo. Non posso guidare, sono ancora sotto i fumi dell'alcool.
Sebastiano mi indica qualcosa con un cenno della testa, così sposto lo sguardo davanti a me e vedo la sua moto, parcheggiata a qualche metro di distanza dalla mia macchina.
<<Metto la catena e torno. >> Si allontana e ne approfitto per guardargli il sedere. Insomma, lui è insopportabile e io non voglio avere nulla a che fare con gli uomini, ma gli occhi sono fatti per guardare, giusto? E poi devo ammettere che ha proprio un gran bel sedere.
Sbuffo per quel pensiero inopportuno e sposto lo sguardo alla mia destra. Un paio di minuti dopo lui torna a sedersi accanto a me, si porta le mani sulla cintura e fa per sbottonarsi i pantaloni.
<<Ma che fai?>>
<<Mi cambio.>> Tira fuori da una busta di plastica un paio di jeans puliti. <<Forse non te ne sei accorta, ma mi ha vomitato un litro di vomito giallognolo addosso, e fa alquanto schifo.>>
Deglutisco, sentendo di nuovo in bocca il saporaccio dell'alcool, poi guardo Sebastiano con la fronte corrugata. <<E tu vai in giro con i pantaloni di riserva?>> Le mie labbra si schiudono in un sorrisetto molesto. <<Cos'è, hai paura di fartela sotto mentre sei per strada?>>
Lui mi fa un gestaccio con il dito, dopodiché si cala i jeans compromessi dal mio vomito, rimanendo così in boxer davanti a me, che mi affretto a voltare lo sguardo, combattuta tra l'imbarazzo e la voglia di tornare a guardarlo.
<<No, spiritosona.>> Si infila i jeans puliti. <<Dovevo fermarmi a dormire dalla mia ragazza stanotte, prima di essere obbligato da mia nonna a venire a cercarti, e così mi sono portato dietro un cambio.>>
Mi si rivolta lo stomaco, ma non sono sicura che sia perché devo vomitare di nuovo. <<Dio... >> Mi porto le mani sulla pancia e apro il finestrino per fare entrare un po' d'aria. All'improvviso ho di nuovo caldo.
<<Ti senti ancora male?>>, mi chiede lui, preoccupato. Probabilmente non per me, ma per i suoi jeans puliti...
Tossisco e prendo un bel respiro. <<Mi fa male lo stomaco.>>
<<Hai cenato, almeno?>> Scuoto la testa, senza guardarlo negli occhi. <<Sei incredibile. Hai bevuto alcool a stomaco vuoto, neanche un dodicenne lo farebbe.>>
Mette in moto la macchina e parte. <<Dove andiamo?>>
<<Ti porto a fare colazione>>, mi risponde, tenendo gli occhi puntati sulla strada.
<<E la tua moto?>> Mi sistemo sul sedile e mi allaccio la cintura di sicurezza.
<<La riprenderò più tardi.>>
<<Mi spieghi come sapevi dov'ero?>>
Sebastiano scrolla le spalle, mi guarda per un istante e poi torna a fissare la strada. <<Mia nonna ha detto che dovevi andare al cimitero e che era preoccupata perché non eri ancora tornata a casa, così sono andato a cercarti lì e non ti ho trovata. Mentre tornavo indietro, ho riconosciuto la tua macchina davanti a quel pub, non è stato poi così difficile.>>
<<Perché hai accettato la richiesta di tua nonna, perché sei venuto a cercarmi?>>
Rimane in silenzio per un tempo infintamente lungo. Io lo guardo per un po', poi mi volto e prendo a fissare il paesaggio fuori dal finestrino. Gli alberi mi sfilano davanti come tanti soldati disposti l'uno accanto all'altro.
Quando penso che ormai non mi risponda più, lui se ne esce con: <<Ho pensato che era l'occasione adatta per offrirti quel famoso caffè.>> Mi lancia un sorrisetto strafottente e torna a guardare la strada.
Sorrido anch'io e gli indico l'orologio sul cruscotto della macchina. <<Sono le due di notte, il caffè te lo scordi.>>
<<Vorrà dire che ti offrirò un cheeseburger al McDonald's.>>
E pensare che la proprietaria del banco di fiori al cimitero mi ha augurato una buona giornata...

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