Capitolo 21
Quindi all'inizio tengo il cuore a mille
mi svelo e ti mostro talloni d'Achille.
Poi mi levi il gusto dalle papille
ti guardo con spilli dentro alle pupille.
NUDA, Madame feat. Ernia
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La guardo con cura mentre sposta i suoi capelli dietro l'orecchio, comincia a lamentarsi di essersi svegliata male stamattina e di non aver avuto la voglia necessaria per piastrare i suoi capelli. Poi continua mentre si vergogna di etichettarsi sempre come un problema e dice che la prima decisione giusta della sua vita è stata darci un taglio, «solo con i capelli» aggiunge e io sorrido come un imbranato.
La nostra bolla viene scoppiata da mia madre che bussa alla mia porta. Rose strabuzza gli occhi e comincia ad arrossire, si forza a fare silenzio, stringe le spalle e mi sorride. Io comincio ad imprecare dentro di me in ogni lingua a me sconosciuta e invito mia madre ad entrare. Alla vista di Rose mia madre fa un passo indietro e si scusa, dice che non voleva disturbare ma ha bisogno di avvisarmi,
«Io accompagno tuo padre, torniamo sabato»
«Da quando andate insieme?» non riesco a nascondere il mio stupore, lei abbassa lo sguardo e si sente nuda davanti a due aggressori. Non risponde, cambio rotta chiedendole di mia sorella, «La portiamo dai nonni».
Mia madre si schiarisce la voce, saluta Rose con un sorriso e prima di socchiudere la porta si ferma «Ho appena sfornato una torta al cioccolato», poi rivolge lo sguardo verso l'anima pia seduta sul bordo del mio letto «Ti piace il cioccolato?» lei mima un timido sì con la testa, «È tutta per voi due sul tavolo della cucina, c'è il doppio del cioccolato stavolta», Rose si alza, aggiusta goffamente la sua felpa lungo le gambe e si presenta.
Ringrazia mia madre per la gentilezza e vorrebbe avvicinarsi per salutarla, vedo i suoi piedi indugiare verso avanti e poi indietreggiare. La voce di mio padre per le scale la batte sul tempo, mia madre mi saluta in un modo altrettanto goffo e chiude la porta davanti a noi.
Rimaniamo imbambolati per interminabili secondi e quando sento il portone di casa mia sbattere le faccio cenno di scendere. Lei pianta i piedi con forza a terra e non riesce a seguirmi. Serra i polsi, stringe con forza i bordi della sua felpa e abbassa lo sguardo. La stanza attorno a lei diventa piccola e ingombrante fino a sovrastarla. In mezzo alla mia testa i miei pensieri si frantumano completamente, mi sento un mostro davanti a lei e la persona meno adatta a dare voce a questo silenzio. Soffre la distanza tra noi due, vorrebbe aumentarla e allo stesso tempo diminuirla, mentre decide cambia espressione più volte. Cercando di fare meno movimenti possibili, mi siedo di nuovo sul letto. Mi lascio guidare dal suo respiro, quando comincia a diventare regolare, sussurro il suo nome. Lei si volta, ha il viso stranito, sofferente, nei suoi occhi una diga pronta ad esplodere. Si schiarisce la voce, prova a cominciare un discorso e nel mentre il suo gesticolare confonde anche lei.
Allungo una mano verso di lei, i suoi occhi misurano la distanza che c'è tra di noi: troppa per sentire il mio cuore, e troppo poca per scappare.
«Tu mi rendi vulnerabile, non posso farti del male»
Allunga la sua mano e afferra la mia, è restia al mio tocco, diventa rigida e più dura della mia testa, «Quante persone ti hanno fatto del male?» in mezzo a questa distanza i suoi occhi tracciano la via e comincia a perdersi in mezzo a un fiume di lacrime.
Mima un troppe con le labbra, fa un passo indietro, ma non abbandona la mia presa. Io ragazzino dalla pelle ruvida attaccato ad una perfezione che non riesce ad accettarsi, vorrei sfiorarla, dare un senso a questo spazio in mezzo a noi con il suo corpo attaccato al mio. Vorrei sentire il suo profumo tanto da stordirmi, rischio contro ogni logica e allungo l'altra mano per sfiorare il suo viso. Lei indietreggia ancora, mentre continua a stringere la mia mano con forza.
Tentavi di scappare, amore mio, quando in verità avevi solo di bisogno di essere trovata.
«Vorrei prendermi le tue fragilità, mettere assieme tutti quei pezzi e mostrarti che niente di tutto questo fa schifo come pensi tu» sussurro, quasi con un filo di voce. Ho paura di ferirla, di sbagliare le parole e di mettere fine a questo gioco di sguardi tra noi due in pochi secondi.
«Vorrei davvero potermi avvicinare a te, e farmi abbracciare magari. Ma c'è questa forza dentro di me che crea resistenza a tutti i costi. Come se il mio corpo non fosse governato dalla stessa legge del mio cuore che in questo momento vorrebbe dirti molte più cose di tutto questo silenzio» butta via una valanga di suoni, ha trattenuto il fiato troppo a lungo e ora ha il respiro spezzato.
Spezzo la fune che ci lega e l'attiro a me, il suo corpo di pietra si scontra con la mia corazza e tutto a un tratto si sgretola, si lascia andare a un pianto muto «Cos'è la perfezione secondo te?» poggia la sua testa sulla mia spalla, il suono della sua voce accanto al mio orecchio crea un brivido che percorre la mia colonna vertebrale – vorrei dirle questa sensazione, o la terra su cui cammina, la pianta dei suoi piedi benedetti e i suoi occhi ancorati al sole, «Queste nostre diversità».
Si calma, asciuga le lacrime con i palmi delle mani. Mi fissa per qualche secondo, si imbambola e sorride. Mi batte sul tempo, batte le mie testardaggini, mette k.o. la mia sfacciataggine e il pessimismo contro ogni forma d'amore, e mi bacia. Mi lascia un bacio a stampo sulle labbra, disarma ogni parte di me e stupisce tutti gli angeli del Paradiso.
Sfioro il suo viso e l'attiro a me, la bacio con dolcezza e lei lascia piccoli sorrisi ovunque.
«Sono vittima di me stessa e del mio continuo colpevolizzarmi. Sono stata una risorsa, sai? Per molte persone, e alla fine ho esaurito me stessa. Sono brava a pugnalarmi, lo faccio con molta cura e riesco sempre a trovare modi migliori per farmi fuori» trova posto comodamente sulle mie gambe, e la distanza tra noi diventa sempre più piccola.
«Qual è stata la tua droga?» i segni sulle mie braccia cominciano a bruciare,
«Mi sono rifugiata nel cibo per anni, era la mia consolazione, un tappabuchi. Solo che i buchi dentro di me erano molto più profondi di quanto pensassi»
«E poi?»
«E poi alcune cose sono diventate molto più semplici da guardare che da mangiare, altre volte invece non abbastanza da riempire i miei sensi di colpa e alla fine vivo in bilico perenne strattonata dai miei stessi sensi di colpa».
Quella dipendenza che ti cola in mezzo agli occhi e ti entra dentro. Sentirsi attaccato a qualcosa, ancorarsi e distruggersi. Pieno di te stesso, di questa vita che non riesci più a digerire e il dolore ti dà il voltastomaco.
Il dolore mi ha preso a scaglioni. Non è stata un'ondata o una marea, non mi ha mai travolto del tutto. È arrivato ad intervalli, aumentando la frequenza con gli anni e il tempo di risalita.
Ho sempre amato il mare, la distesa infinita davanti ai tuoi occhi, le onde stanche che arrivano e si schiantano alla riva e quella linea d'orizzonte che ti fa sperare nell'oltre.
E poi quell'oltre che prontamente diventa la monotonia di una camera da letto troppo grande per te solo e troppo stretta per i tuoi pensieri che collidono in mozziconi di sigarette buttati dal balcone quando l'unica cosa da voler buttare è la tua testa. E le urla nella tua testa sempre più frequenti e acute, accompagnate da un respiro veloce e pesante, la tua voce morta in gola soffocata dai singhiozzi e da fiumi di lacrime.
E gli attacchi di panico nella notte che davano la speranza di una morte prematura, e poi la luce del sole che prendeva possesso della tua stanza e tu inerme, attonito, travolto dall'ennesima notte insonne che non trovavi la forza nemmeno per aprire gli occhi e renderti conto che erano le 8 di mattina e forse nella vita qualcosa dovevi pur combinare.
«Pensavo di andare a fare un giro domani, potremmo comprare delle camicie nuove» Ranny comincia a spostare le cartacce dalla sua scrivania, chiude gli appunti e giocherellando con la sua sedia girevole mi regala i suoi occhi, «Siamo pieni di vestiti» dico mentre prendo possesso del suo letto e comincio a far rimbalzare la sua pallina da tennis contro il soffitto. Lui comincia a borbottare e dice che gli ho fregato la sua camicia preferita e ora si sente completamente nudo, io gli rispondo che è il solito viziato,
«Potevi riprendertela tranquillamente»
«Sta meglio a te» e comincia a ridere, dice che è stanco e che gli ultimi esami all'università lo stanno torturando.
«Ho bisogno di uscire»
«Uscire è il modo più carino per dirmi che hai bisogno di scopare?» gli lancio la sua pallina da tennis e non è in grado di afferrarla, colpisco con forza il muro dietro di lui,
«Io non sono mica te che non sa tenerselo nei pantaloni» e mentre farfuglia una frase alla Charles Bukowski per farmi mandare giù l'idea dell'amore nella mia vita, rolla una sigaretta e me la porge, «Un giorno saremo solo questo, vedi?» e con forza sbuffa la nicotina dal suo naso, «Tu sei già tutto fumo e niente arrosto».
Ranny amava la vita in modo silenzioso, era in grado di trovare il suo posto nel mondo in ogni angolo di strada, o di stanza. Riusciva a sistemarsi nella vita degli altri, era un pezzo perfetto per ogni puzzle. Poi il suo disagio arrivava come un pacco postale alle cene di Natale, a quelle lunghe tavolate in cui la sua camicia sgualcita si notava più delle altre, e i suoi profondi occhi blu mare non rientravano nei canoni del nostro pacchetto genetico.
Si era innamorato, a soli dieci anni, ad un'ordinaria cena di Natale con i parenti di mia madre, la mia cugina più piccola seduta difronte a lui fu il suo film preferito in prima serata. Una cotta da ragazzino che si portò avanti per anni, fino a fare la lotta per la vittoria con me dentro il suo cuore.
I suoi sospiri prendono vita nella stanza, incrocia più volte le gambe, porta le mani sulla testa e comincia a fissare un punto fisso del soffitto. Poi si alza, e col suo fare goffo si sdrai accanto a me.
«Cosa vedi in quel punto fisso?» gli chiedo, guardo il suo profilo, il suo naso appuntito perfettamente in linea col suo viso scarno, abbozza un sorriso e due fossette si disegnano all'estremità delle sue labbra, «La pace».
«Hai mai pensato di dirle che la ami?»
«Ogni volta che la vedo»
«Perché non lo fai?»
«Perché diventerebbe reale, un impegno, o una lama nel petto. Per ora è solo amore per una ragazzina incontrata più di dieci anni fa»
«Dio, più di dieci anni» sospiro mentre mi stupisco della vita che ancora vuole farci fare i conti con questa realtà, «Già».
I suoi occhi cambiano espressione, li chiude più volte e prova a scappare dalle sue stesse emozioni, ma non riesce e due lacrime collidono sul suo viso.
«Promettimi che non eviterai mai l'amore, Alex. Promettimi che lo farai entrare al momento giusto, e ti farai trovare impreparato così da farti travolgere come meriti. E promettimi che amerai ogni cosa di questa vita insieme alla persona più giusta di questo mondo»
«Sei tu la mia persona giusta»
«Promettimelo» insiste.
«E tu promettimi che dirai a Valentina di questo immenso amore e smetterai di provare solo l'amaro di questo lacrime»
«Un giorno, forse, te lo prometto».
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A Valentina, al suo amore smisurato e a questa distanza tra noi infinitamente infinitesimale.
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