Capitolo 19

Mio fratello mi sta sorridendo da lassù.
Passo presto, porto un pacchetto di Chesterfield blu.

Interrail, Frenetik&Orang3

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Dopo averla incontrata per la prima volta, sognai Rose più volte. Non ho mai dato un nome ai miei sentimenti o alle mie sensazioni, non mi sono mai fatto sopraffare da essi. Ho visto il Bene poche volte negli occhi, e quelle poche volte mi ha lasciato l'amara delusione come regalo da scartare. Col tempo ho imparato a farmi bastare gli ostacoli che la mia mente mi posizionava davanti, fino a scavalcarli tutti e a nasconderli, senza mai voltarmi indietro.

Non essere consapevole del male che negli anni mi sono fatto fu il boccone più amaro da digerire.

All'interno della mia stanza Ranny comincia a percorrere piccoli cerchi, «A che pensi?» gli chiedo, risponde solo con sospiri e parole fra i denti. Poche volte riusciva a chiudersi in se stesso, era un tipo solitario e credeva che poteva tenersi il suo dolore e non farlo vedere. Davanti ai miei occhi era trasparente come il velo di lacrime che rispondeva alla mia domanda.
«Smettiamola, Alex» ci provava una volta a settimana, nell'ultimo periodo riusciva a pronunciare questa frase un po' più spesso. È stanco, vinto, sul filo di un rasoio che presto gli avrebbe fatto perdere l'equilibrio.

«Mi guardo allo specchio, Alex, e non mi vedo più. Al posto della mia faccia c'è un buco nero. Che scopo abbiamo? Guardaci. Tu ci vedi ancora?» la tua voce vibra, è piena di paura e i singhiozzi riescono a coprire la tua richiesta di aiuto, «Io non ho uno scopo, Ranny».

Per l'ennesima volta, esistevo solo io. Tu diventi trasparente davanti a me, e sei in grado di darti sostanza solo con la mia frustrazione, «Farsi è uno scopo?». Mi dai le spalle, sul tuo petto un peso più grande di te che ti sovrasta e io che ti lascio andare.
«Se non ci fossimo mai incontrati, sarebbe andata meglio» ti odi, e ti odio anche io per la lama nel petto che mi hai appena conficcato. Mi alzo, lo tiro da un braccio e costringo i suoi occhi a guardare i miei, «Perché mi dici questo?» la ferita comincia a sanguinare e davanti ai tuoi occhi divento pioggia che scende.

«Tu sei la cosa più cara che ho, e cosa ho fatto? Ti ho aiutato a sciuparti, a renderti una sagoma» poche volte ti sei fatto di marmo davanti alle mie lacrime, pensi che urlarmi contro mi aiuti a smuovermi, e invece mi stai solo allagando dentro.

«Cosa ti ho fatto, Ranny?»
«Tu non vuoi vivere, questo mi hai fatto»
«Va bene, allora smettiamola» ti regalo una falsa promessa, tu sospiri e devii il mio sguardo, aspetti prima di rispondermi, poi mi fissi con rabbia «Non ti credo più».

Il dolore di quel giorno arde ancora dentro di me, fa male come sale sulle ferite aperte.

«Proviamo a stare lontani per un po'» provo a farti ragionare, ma tu sei convinto e mentre mi lasci andare, mi salvi dallo schifo più totale.
Non lo sapevo, «Tu non mi puoi lasciare, ogni volta che lo fai io non riesco a vivere» comincio a singhiozzare, mi siedo sul bordo del letto e la mano sul petto è la mia unica consolazione. Tu, sul ciglio della porta mi dai le spalle, serri i pugni lungo i tuoi fianchi. Dove sono i tuoi occhi? Perché non ti giri?

«E invece, Alex, riesci meglio di me» e te ne vai.
Mi fece assaporare la sua assenza per qualche giorno, poi ritornò col suo solito sorriso stampato sulla faccia. All'epoca non lo sapevo, ma mi stava solo preparando al resto dei miei anni senza di lui. 

Sono intollerante ai brutti ricordi. Ho il vizio di assaporarli e di liberarmene con una freddezza estrema. Se li nascondi, non li vedi mi dico sempre. Se non li vedi non ti possono fare soffrire, mi ripeto.
Se nessuno ti vede, le calorie di quella cioccolata non la assimilerai mai.
E se nessuno ti vede, quella droga non ti porterà alla dipendenza.

Ho costruito una vita mentendo a me stesso, ora sono solo il prodotto mal riuscito della mia azienda.

Alcune cose nella mia vita mi hanno segnato: il profumo della stazione, l'odore della fuga, il rumore della lacrime di mia madre, le urla di mio padre.
Altre, invece, mi hanno distrutto dentro e mi hanno tolto il respiro: il corpo senz'anima di Ranny, ad esempio.

Percorro il corridoio dell'ospedale e prego che questi passi diventino infiniti così da non arrivare mai. Davanti la porta chiusa della sua camera, nella sala d'attesa, trovo i miei nonni, mio zio in piedi e i miei cugini.

Non riesco a girare la maniglia della porta, fisso la porta bianca per lunghi secondi mentre raccolgo un coraggio che non mi appartiene. La voce di mio zio interrompe il flusso del mio dolore, «Tu lo sapevi?» per la prima volta, sulla punta della sua lingua sento un affetto per Ranny che non ha mai dimostrato, «Cosa? Che stava pensando di suicidarsi?» prendo in giro questa vita che oramai mi ha reso solo brandelli di carne.
«Diremo che è stato un tragico incidente» nella freddezza di mia nonna, trovo la forza per girare la maniglia, «Come se il risultato potesse cambiare» rispondo acido, poi guardo mio zio negli occhi, mimo un no con la testa, spalanco la porta e la chiudo con forza dietro di me.

Apri gli occhi, Alex, aprili e avvicinati. Lasciati andare.

Un senso di vuoto mi circonda, mi sento mancare l'aria. Il magone in gola mi sovrasta e soffoca. Smetto di sentire la gravità sotto i miei piedi e salto nel vuoto. Il dolore sale dalle punte dei miei piedi e prende possesso di me. Sono una marionetta rotta e i fili li lascio in mano a questo Dio che mi ha tolto l'ultimo briciolo di speranza. Mi concentro sul mio respiro e apro gli occhi. Davanti a me un letto bianco e un corpo che non riconosco più.

Un corpo distrutto, pieno di tagli e lividi. Due occhi spenti, chiusi, per sempre. Un respiro finto, corto, attaccato ad una macchina che presto smetterà di funzionare.

Nella mia testa la sua voce che mi prega di avvicinarmi, i miei piedi di marmo, fermi sulla linea di partenza, e davanti a me nessuna vittoria. 
Mi stavi regalando un'alternativa, Ranny, ma ancora non lo sapevo.

Il mio cuore smette di battere per qualche secondo e dentro la mia testa muoio insieme a te. Prendimi, raccogli questa poca anima che mi è rimasta.

Le mie gambe cedono e cado in ginocchia sul pavimento, i singhiozzi sovrastano il battito del mio cuore pietrificato e le lacrime non riescono più a trovare posto sul mio volto.

Poi mi alzo, striscio fino al suo capezzale, lo fisso per pochi secondi e mi faccio spazio vicino al suo corpo. Mi stendo accanto al suo corpo quasi senz'anima e fisso il soffitto bianco.

«Quando volevi dormire in due nel mio letto, mi lamentavo sempre. Balbettavo qualche stupida giustificazione e ti buttavo a terra. E adesso, guardami, questo letto è troppo grande per te e troppo piccolo per noi due».

Vorrei tu potessi portarti via anche le mie paure, le mie ossessioni, i miei rancori e questa mancanza che cresce in modo esponenziale ad ogni respiro che faccio.

Il dolore entra nella tua vita con cura. Cerca un proprio spazio e in modo silenzioso trasforma ogni cosa. Le sensazioni che credevi di avere, le emozioni morte suicide, quel briciolo di senso di vivere che si abbandona al nulla. Riesce a prendersi il meglio di te, si impossessa fino alle viscere e tu diventi un carcerato per il resto del tuo tempo.

Il profumo di Ranny inonda le mie narici, il fumo misto all'umidità dell'asfalto che l'ha cullato una notte intera, «Il per sempre che ci eravamo promessi è decisamente diverso da come l'avevo sempre immaginato».

Il silenzio del mio tempio viene interrotto dalla voce di un medico. Mi alzo di scatto e mi sistemo dalla vergogna. Comincia a farmi domande che non ricordo, mette in fila valori, scartoffie che mio zio ha dovuto firmare e con cura mi invita ad uscire. Appoggia una mano sulla mia spalla e io lo strattono, poi mi scuso.

«Vorrei poter rimanere» le parole si spezzano nella mia bocca, mio zio incalza chiedendo di farmi rimanere. Prende una sedia e me la porge.

Rimaniamo per qualche secondo a fissarci negli occhi, tra di noi una stupida sedia che non riesco ad afferrare. Siete sempre stati così distanti, Ranny, e adesso mi regala una possibilità per salutarti degnamente.
Nelle sue iride il pentimento, la rassegnazione, il disprezzo per una paternità che non ha saputo conquistare. Sta fiorendo anche dentro di lui il dolore, Ranny, gli stai lasciando un ennesimo motivo per odiarti. Leggo il grido di aiuto, ti cerca dentro di me, Ranny, cerca ogni somiglianza e vorrebbe rubare ogni ricordo che ho di te.

Afferro la sedia e lo ringrazio, lui sospira e il medico prosegue.
Sistemo la sedia accanto al letto, mi siedo e afferro la sua mano.

«Lo estuberò. Una volta sospesi i trattamenti potrebbe resistere per alcuni minuti, o potrebbero volerci ore» queste parole le ricordo a memorie, segnarono le nostre ultime ore insieme.
Spengono il respiratore, «Ha della morfina in modo che non soffra» mentre il mio male strabocca da ogni mio poro.

Non riesco a posare gli occhi su ciò che avviene attorno a me, Ranny diventa il mio punto fisso. Comincio ad osservare i suoi particolari: le sue lunghe ciglia, le lentiggini chiare sul suo naso che fanno da contrasto alla sua pelle bianchissima. Le sue occhiaie nere, profonde, segnate dall'oceano di lacrime che hai versato.

I tuoi particolari si tatuano nella mia mente, sento l'ago pungere e il dolore è agonizzante.

Hai messo un cerotto sulle mie ferite tante volte, adesso chi curerà tutto questo sangue che cola?

Le mie lacrime si lasciando andare assieme a lui, «Sono qui con te» per sempre. Accarezzo il suo viso, i suoi capelli, imprimo nella memoria della mia vita la sua sostanza.

Dopo la linea continua del suo cuore, anche il mio muore dentro le sue mani. La linea dritta sul monitor segna una strada che non potrò più percorrere insieme a lui.

Vorrei dare una degna sepoltura a questo dolore, trovargli una lapide e compiangerlo con un mazzo di fiori. Invece, col tempo, la lapide sono io.

All'uscita dell'ospedale la voce di mio zio mi fa voltare, fuori un vento gelido che ghiaccio il mio cuore «Sono andato in camera sua e ho trovato questa» dalla tasca estrae una bustina bianca, sul retro la parola Alex scritta con una Bic blu. Le mie mani cominciano a tremare e con difficoltà riesco ad allungarle per afferrarla.

Al tatto una busta piegata, quasi rovinata dalla tasca dei jeans che l'ha custodita malamente, la stringo con estrema delicatezza e posso sentire le mani di Ranny che la chiudono, le piccole lacrime sul bordo e la sua saliva usata distrattamente per richiuderla.

Lì dentro c'erano le risposte che cercavo da ore, o forse da tutta una vita, e tutte le infinite domande che mi accompagneranno per il resto dei miei giorni.

«Posso passare da camera sua?» avrei dovuto dire solo grazie, lasciarmi alle spalle quel cadavere e redimermi grazie a questa busta bianca. Invece cerco sempre una seconda strada per vivere l'Inferno.

Mi fa cenno di salire con lui in macchina, io avviso mia madre qualche metro più avanti e le dico di non aspettarmi in piedi.

«Come pensi di tornare?» quando in verità vorrebbe solo chiedermi se ho intenzione di tornare vivo e vegeto, «A piedi» nei suoi occhi la paura di perdermi, quando in verità mi sono già perso.

Dentro la macchina un silenzio assordante coperto dalla radio a basso volume e dai movimenti rigidi di mio zio. Non riesco a rompere il silenzio, dentro di me sono già fin troppo a pezzi per curarmi del dolore di questo estraneo. Mi ha donato Ranny, l'ha strappato a sua madre e me l'ha presentato sotto l'albero e poi con la stessa ferocia lo ha aiutato ad andare via da questa vita.

Ranny era una persona semplice, di poche parole e una mancanza oceanica dentro. L'amore di una madre che non l'ha mai voluto e che non l'ha mai cercato, e quel cratere enorme in mezzo al suo petto che neanche io sono riuscito a riempire col mio amore. Ho contribuito ad allargarlo con il mio egoismo, il mio odio verso il mondo e il mio sentirmi costantemente inadatto. E adesso mi ritrovo inadatto e senza di lui.

Quando arrivo davanti casa di mio zio mi precipito in camera sua. Una stanza stretta e confortevole, riempita da un letto completamente disfatto. Mi fermo per un momento al centro della stanza, riesco ancora a sentire il suo profumo, la sua presenza attorno a me. Davanti ai miei occhi la scrivania piena zeppa di fogli accartocciati, due penne Bic e un quaderno semivuoto spogliato di almeno venti fogli bianchi ancora aperto.

I cassetti accanto gelosamente chiusi, sulla sedia la sua giacca Adidas preferita e la luce del bagno ancora aperta. Sei il solito distratto, Ranny.

Mi siedo sul bordo del letto, estraggo la lettera dalla tasca del mio giubbino e la apro.

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Eccomi qui, dopo un mese esatto di silenzio. È stato difficile ritornare e tanto più difficile emozionarmi di nuovo con questi due personaggi.

Il capitolo era molto più lungo del previsto, quindi ho deciso di spezzarlo e di finirlo in un capitolo successivo.

Spero di essere in anticipo piuttosto che in ritardo.

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