Capitolo 17
E delle volte per vederci chiaro
serve stare al buio.
Blue Jeans, Franco126 feat. Calcutta
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In mezzo al mio stomaco una voragine si apre e l'unica cosa confortevole è la luce del mio frigo all'una di notte. Cerco con cura qualcosa da mangiare e alla fine mi riduco ad una tazza di latte e biscotti per bambini.
Intento a cercare un pentolino per scaldare il latte, la luce della scala proietta la mia ombra sulla cucina: mia madre e la sua immancabile sete. Quando entra in cucina non è sorpresa di trovarmi, in genere esco a prendere una boccata di eroina a quest'ora, la sorpresa è solo trovarmi in pantaloncini intento a saziarmi prima di dormire. Verso del latte in più senza dirglielo, lei prende un bicchiere e una tazza dalla dispensa, si siede e con un gesto naturale io afferro un'altra tazza e gliela lascio sul tavolo. Le dico che sono il solito sbadato e ho versato più latte del dovuto. In realtà ho bisogno dei silenzi di mia madre a farmi compagnia.
Lei mi sorride e accetta volentieri. Apre la dispensa, prende tutti i cereali e biscotti che abbiamo a disposizione e li poggia sul tavolo.
«Non sono brava a scegliere i più buoni, perché non mangiarli tutti» io rido di gusto, «Siamo in due». Siamo così simili, mamma. In mezzo ai tuoi occhi ci sono anche io.
In mezzo al tuo ordine io sono il tuo caos, colui che ti ha stravolto la giornata e la vita.
«Non esci stasera?» no, lo sai, e sai anche che non lo faccio da un bel po'.
«Sto invecchiando, mamma» mi prendo in giro da solo, in mezzo a questi peccatori io sono il loro giullare di corte.
«Qualche mese fa non riuscivo a tenerti dentro casa»
«Non c'è granché in giro»
«E nessuno che ti costringe a mettere i piedi fuori dalla porta» la parola nessuno mi fa salire la nausea. Ranny è il mio nessuno.
Io annuisco, le do ragione con un cenno e un sospiro. Non è di sollievo, non esiste sollievo in mezzo a questo fiume di tristezza. Sai mamma, vorrei solo appoggiare la testa sulle tue gambe e piangere silenziosamente. Vorrei tu fossi la mia Veronica e asciugassi il mio volto. Quanto dolore vorrei dirti, mamma, i miei pensieri in testa sono i miei sicari.
«Ti manca?» verso il latte nella sua tazza e mi siedo difronte a lei. Fisso con cura il bordo della tazza e non riesco a proferire parola.
Mi manca come l'aria, mi manca talmente tanto che vorrei che i miei giorni di vita si fermassero, talmente tanto che la notte mi alzo perché nel letto sudo freddo e ho frequenti attacchi di panico. Mi manca talmente tanto che ho smesso di drogarmi per ricordarmi con lucidità quanto cazzo mi manca ogni momento della giornata.
Mi manca tanto quanto questa enorme distanza tra noi due, mamma.
Mi manchi, mamma, così tanto che il mio analista deve tenermi la mano mentre piango perché tu dentro di me non vedi niente.
«A volte» mento e i miei occhi non riescono a resistere alla tentazione e si inondano di lacrime.
Le trattengo, cambio discorso. Le dico che gli ultimi cereali che ha comprato non mi piacciono. Lei incassa il mio silenzio, lascia le lacrime su questo latte versato e guarda oltre. Dietro di me solo il muro bianco.
«È passato un bel po' di tempo» vorrei urlare, rivoltare questa stanza,
«Perché lo stai facendo?» la rabbia sale, lenta e dolorosa,
«Perché non ne abbiamo mai parlato, Alex» alza la testa e mi guarda, i suoi occhi sono velati. Vorrebbe essere una madre migliore, vorrebbe aiutarmi. Fuori dai riflettori di mio padre, vorrebbe essere la donna di cui ho bisogno.
«Non abbiamo mai parlato di niente mamma, e non cominceremo da Ranny» bevo il mio latte tutto d'un sorso, abbandono ogni tipo di cereale e ogni speranza di poter dormire serenamente stanotte, e mi alzo di scatto.
Dietro di me, la sua voce spezzata mi supplica di rimanere ancora un po'. Avrei camminato anche sulle mine, mamma, se solo tu avessi scelto noi due.
Mi implora di sedermi, e io l'ascolto. Le regalo una seconda possibilità, «Dimmi qualcosa di bello allora», mi siedo di nuovo, e sorrido. Comincio a farfugliare, le dico che non ho molto da dire.
«I miei amici sono sempre gli stessi. C'è Daniel, quasi sempre, a volte Cosimo ed Emiliano. Siamo sempre gli stessi» - gli stessi meno uno.
«E oggi a pranzo dov'eri?» accenna un sorriso, come se la risposta fosse già dentro la domanda e dentro i miei sorrisi. Mi prendo qualche secondo di pausa.
«Da una ragazza» accenno, come un sussurro. La mia parola arriva velocemente e lei mantiene sulla faccia un timido sorriso.
«Ti va di parlarmi di lei?»
Incontrai per la prima volta Rose qualche anno fa. Ero in piena fase embrionale del mio dolore, e in un solo momento lei riuscì a spegnere le voci che lentamente avevano preso spazio e cominciato ad albergare nella mia testa.
Ranny fu l'origine di quei suoni e la causa dei miei lunghi silenzi abortiti con fiumi di lacrime.
Rose, invece, fu le preghiere per silenzi che avrei voluto uccidere con il suono della sua voce.
Non mi presentai subito e lei non seppe il colore del mio volto per molto tempo. Mi sono nascosto più volte dietro gli altri, l'ho studiata serata dopo serata e osservata minuziosamente. Lei ai miei occhi era una bellezza rara, un diamante in mezzo a quel marciume che mi portavo dietro come una scia. L'ho sognata più volte, fin dalla prima sera, e in mezzo ai miei sogni lei riusciva a incastrarsi perfettamente al mio cuore.
Avevamo fatto così tante volte l'amore con gli occhi, che ora il sapore delle mie lacrime era diventato il suo.
Non riesco ancora a descrivere a me stesso quel momento. L'incontrai in un locale qualche mese prima la scomparsa di Ranny.
Ranny aveva deciso di passare del tempo a casa piuttosto che chiudersi in qualche spazio di mondo con me e io ne approfittai per rimanere da solo con me stesso, momenti rari a quei tempi.
Vivevo con Ranny 24 ore su 24, senza avere un minuto di tregua e mi bastava. Col tempo, diventò lui la mia dipendenza.
Quella sera ero seduto ad un tavolino, nascosto in un angolo. Non amo molto la gente, né il frastuono, ma amo molto il controllo delle cose e da lì la visuale era nitida ai miei occhi. Una festa dove molti ridono, e io sono l'unico in punizione che non si sta divertendo per niente.
L'unica cosa che mi faceva compagnia era una bottiglia semivuota, una sigaretta e il frastuono dentro la mia testa che mi creava più fastidio della musica anni 80 del locale. Difficilmente riuscivo a spegnermi, c'era la droga certo, ma alcune serate neanche quella riusciva a tapparmi la bocca.
Mentre spaziavo nella mia testa, all'angolo opposto al mio, una ragazza seduta nella mia stessa posizione con una teiera, una tazza vuota e un imbarazzo disarmante. Passai l'intera serata a guardarla, a volte solo con la testa e la coda dell'occhio.
Aveva l'aria triste, seccata dalle sue amiche che avevano sbagliato per l'ennesima volta locale, ed era stanca. Aveva un vestito nero abbinato alle sue occhiaie e sotto un paio di tacchi che le impedirono di alzarsi per l'intera serata e durata della playlist.
Giocò tutta la serata con la sua tazza e il suo cucchiaino, prese più volte il cellulare senza pretese o risposte da parte di qualcuno. Diventò il bersaglio della mia serata, il mio svago e alla fine il mio film preferito per i mesi successivi.
La mia quiete fu interrotta da una chiamata, la voce di Ranny che mi cercava e pochi secondi dopo la mia visuale fu ostacolata dal corpo minuto di mio cugino. Al di là di lui, neanche più l'infinito.
«Un'ora basta e avanza» cominciò a lamentarsi e come al solito la mia mezza bottiglia fu la sua cena,
«Hai litigato di nuovo?»
«Ma tu ci vedi chiusi in un ufficio a vita?» in mezzo al discorso un'infinità di imprecazioni,
«A vita? E quanto dura ancora questa vita?»
«Devi fare sempre il tragico. Se non ci fossi io qui, cosa faresti?» non risposi a quella domanda, ero troppo impegnato a immaginarmi i dettagli della sagoma che lui mi aveva perfettamente coperto.
«Ma dove cazzo hai la testa? Ti sei fatto senza di me?» gli risposi semplicemente di no e che stava parlando troppo. Gli dissi semplicemente che non avevo nessuna voglia di vivere senza di lui.
«Ti conosco come le mie tasche, Alex. A che pensi?» e anche quella sera io, per lui, ero più importante di se stesso.
Quanto mi prenderei a pugni adesso, Ranny. Che gran bastardo sono stato.
«C'è una ragazza dietro di te», lui si voltò ma la sua vista non notò ciò che avevo memorizzato io, «Una?» l'ironia era la sua arma preferita.
Poi nel mezzo anche lui riconobbe i miei desideri. Lei non alzò mai gli occhi quella sera, come se fosse un'imputata, sotto sentenza in mezzo a questa bolgia di gente che la stava solo schedando. Uno di questi ero io.
«Mi stai sostituendo con una ragazza?» non lo farei mai, «Tu comunque hai qualche deviazione mentale» rispondo e mi alzo, lui mi segue a ruota. Lasciati 50€ sul tavolo, ci dirigemmo verso l'uscita.
Prima di mettere piede fuori, mi girai verso l'interno e la vidi sorridere distrattamente. Quella fu la mia lama nel petto. Per un millesimo di secondo avrei voluto che la cocaina dentro la mia tasca si disintegrasse, per lei, per quel pezzo di cielo, e invece la passai a Ranny subito dopo e fu la conclusione della serata.
La curiosità di mia madre trema sullo sgabello, «La conosco da poco, non c'è molto da dire» queste bugie che sistemo comodamente su questo tavolo, assieme alla pila di cereali, sazieranno mia mamma per stanotte. Si sentirà bene perché suo figlio si è aperta con lei, le devo questo pezzo di bugia.
Io non le devo la verità, smetto di esistere quando Ranny comincia ad abitare la stanza. Lei ha resuscitato il mio morto, e io sono geloso del mio cadavere. Si alza e rompe il silenzio notturno, si avvicina e vorrebbe darmi il bacio della buonanotte. Più la distanza diminuisce, più i miei brividi aumentano. Poi si accorge del mio disagio e difronte alla mia faccia di marmo sussurra solo buonanotte. Le lascio un sorriso e lo ripongo in qualche suo sogno.
Quando la luce delle scale si spegne, rimango solo nel mio silenzio accanto a due tazze di latte vuote. Accanto a me, Ranny impazzito e affamato. Nella mia mente, davanti ai miei occhi, quella sera diventa reale.
Ranny afferra il cartone del latte dal frigo, lo apre e comincia a berlo a canna, poi ride e me lo passa «Tieni, bevici su. Così smetti di pensarla» continua a ridere rumorosamente e io gli dico di smetterla, di fare piano.
Non sei silenzioso, Ranny, dentro questo vuoto riesco a distinguere il tuo battito accanto al mio. Quanto vorrei che questo fosse reale, invece i ricordi sono come quel cartone del latte, fragili e ingombranti.
«Vorrei poter dare la colpa alla droga, invece sei sempre il solito coglione» io ero più burbero, più freddo, lui riusciva sempre a scaldarmi, mi faceva sciogliere «Questo coglione ti ha salvato la serata e la vita».
Scherzavi quella sera, eri geloso della mia mente occupata da una sciocca ragazzina del bar e volevi coprire ogni mio pensiero con la tua voce stridula. Io ti odiavo, odiavo come ti inserivi in mezzo ai miei pensieri, senza lasciarmi spazio o tempo di metabolizzare.
Stasera questa stanza è enorme e avrebbe bisogno della tua risata. Sarebbero una campana perfetta per la mia chiesa. Ho conosciuto quel dolore intenso, forte e atrofizzante.
Stasera è più freddo, mi toglie il respiro e la voglia di alzarmi da questo sgabello.
Ranny gira intorno al tavolo e si siede vicino a me.
«Potresti smetterla di farti per lei» mi dice, mentre fissiamo le macchie violacee sul mio braccio,
«Tu potresti smetterla di parlare per me invece» quanta ragione c'era nella tua voce. Quel grido di aiuto che mi stavi buttando in mezzo alla mia esuberanza.
Vorrei mangiare questa mancanza, lasciarmela conficcata nello stomaco. Digerirla e il mattino dopo svegliarmi sazio, e di nuovo senza di te. Questo dolore è come un cane che strappa la mia carne per arrivare all'osso. Sarò solo ossa.
Poi ti fermi, sospiri e lasci spazio ad un'amara tristezza «Non voglio tornare a casa, Alex» adesso ti vedo, sei tu. Trasparente, a pezzi, pronto ad essere raccolto da me, «Il mio letto è abbastanza grande per due» eccola la mia mano, afferrala.
Cosa fa più male: ricordare o dimenticare?
«Tu puoi vivere senza di me, Alex?»
«E tu?»
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